Non sì veloci su le lubrich'onde

Fulvio Testi

XVII secolo Indice:Opere (Testi).djvu Letteratura Non sì veloci su le lubrich’onde Intestazione 7 aprile 2023 75% Da definire

Gira all'Adria incostante, Ercole il ciglio Ne le squallide piaggie, ove Acheronte
Questo testo fa parte della raccolta Poesie liriche di Fulvio Testi - Parte prima
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al padre maestro

COSTANTINO TESTI

MIO FRATELLO

Che fallaci sono le speranze della Corte.

Non sì veloci su le lubrich’onde,
     Cui lungo verno indura,
     Striscian gli abitator de l’Orsa algente,
     Come Fortuna allor ch’è più ridente
     5Da noi s’invola e fura,
     E volgendone il tergo il volto asconde;
     Coglie allora, che porge e sì vicine
     A i doni ha le rapine,
     Che beato e infelice in un sol punto
     10Tu perdi il ben quando a gran pena è giunto.
E pur il mondo ambizïoso avaro
     Vuol che costei sia Diva,
     E le sparge gli altar d’arabi fumi,
     Come che possa infra i celesti Numi
     15Star Deità nociva,
     Che ’l dolce di quaggiù volga in amaro.
     Saggio chi men le crede, e con tal legge
     I suoi desir corregge,
     Ch’a i vari giri de l’instabil rota
     20Sempre ha stabile il cor, l’anima immota.
Tu che vivi costà fra pompe e fasti,
     Ove l’ostro ove l’oro
     Vermiglio splende e pallido riluce,
     Non t’invaghir de la superba luce;
     25Sarai maggior di loro
     S’a le grandezze lor col cor sovrasti.
     Schianta dal sen, prima che cresca, il seme
     Del desio e de la speme,
     Nè venticel che lusinghier t’inviti
     30Gonfi le vele tue lunge da i liti.
La speranza omicida è de’ mortali,
     Che fin al ciel n’estolle
     Perchè maggior sia ’l precipizio e ’l danno.
     Oh! con che dolce e dilettoso inganno
     35L’alma fastosa e folle
     Pascendo ognor si va de’ propri mali:
     Mille pensieri ordisce e mille voglie,
     Mille ne tronca e scioglie;
     Parla e scherza con l’ombre, erra e delira
     40Tormentata dal ben che più desira,
A lusingar le sonnacchiose menti
     Suol da le porte eburne
     De’ sogni uscir la favolosa schiera,
     E l’immagin del ben che più si spera
     45Far con ombre notturne
     Che vivamente al cor si rappresenti.
     Il duce avvezzo a sanguinosa pugna
     Sognando il ferro impugna;
     Preme il nemico a la vittoria intento,
     50E di vane ferite impiaga il vento.
Il cacciator tutto anelante e lasso
     Per solitario lido
     Di fuggitiva cerva incalza l’orme,
     Stilla sudor dal crine, e se ben dorme
     55Pur rauco innalza il grido,
     E del veltro fedele affretta il passo.
     Vede l’avaro in chiusa parte ascoso
     Tesoro luminoso,
     E mentre par che ’l prenda e che lo stringa
     60Di prezïosa froda il cor lusinga.
L’amante a la sua Dea con mille preghi
     Narra i lunghi martiri,
     Che narrarle vegliando il dì non osa;
     Questa par che l’ascolti, e che pietosa
     65A’ suoi caldi sospiri
     L’anima adamantina inchini e pieghi;
     Ond’avido in quel punto apr’ei le braccia,
     E l’ombre fredde abbraccia,
     Donando in vece de l’amato Nume
     70Vedovi baci a l’insensate piume.
Ma non sì tosto il Sol di raggi adorno
     De la gelida notte
     Sgombra l’atra caligine dal polo,
     Che de’ fantasmi il vaneggiante stuolo
     75A le Cimmerie grotte
     Onde prima partì sen fa ritorno.
     Tal sogliono i pensier de l’alma insana
     Svanir per l’aria vana,
     Che le speranze fuggitive e incerte
     80Sogni son di chi dorme a ciglia aperte.
Frate, godrai quaggiù vita serena,
     Se non t’ingombra il petto
     Di grandezze e d’onor cura mordace;
     E forse quel ch’or più t’alletta e piace,
     85E par dolce in aspetto,
     Posseduto saría cagion di pena.
     L’alma nel desïar, qual talpa è cieca;
     Talor più duol le reca
     Quel che più brama, e spesso avvien che dove
     90Vita aver si credea morte ritrove.
Son castighi del Ciel anco gli onori.
     A chi perdìo non sono
     Le fortune di Mida e i casi noti?
     Con sordide preghiere, e avari voli
     95Dagli Dei chiese in dono
     L’ambizioso re pompe e tesori;
     Chiese di trasformar in auree masse
     Tutto ciò che ci toccasse,
     Nè contento d’aver tesori appresso
     100Di sè stesso tesor fece a sè stesso.
Toccò ruvido sasso, oro divenne;
     Toccò rosa vermiglia,
     Folgoreggiò su la nativa spina:
     Ma con la doglia ògni piacer confina,
     105Il cibo, oh maraviglia!
     Morso più s’indurò, più si ritenne,
     E congelarsi in biondo ghiaccio i vini
     A le labbra vicini.
     Bestemmiò l’oro, e de l’insania avvisto
     110Si maledì del suo dannoso acquisto.