Ninfale fiesolano/Parte settima
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PARTE SETTIMA
I.
Dïana a Fiesole in quel tempo venne,
Come usata era sovente di fare:
Grande allegrezza pe’ monti si tenne,
Sentendo di Dïana il ritornare,
E ciascheduna ninfa festa fenne,
E cominciarsi tutte a ragunare,
Come usate eran con lei molto spesso,
II.
Mensola sentì ben la sua venuta,
Ma comparir non volle innanzi a lei
Per non esser da lei mal ricevuta,
Dicendo: s’io v’andassi, io non potrei
Tener celata la cosa ch’è suta,
E grande strazio di me far vedrei:
E fu da Sinedecchia consigliata
Di non v’andar, ma stessesi celata.
III.
Avvenne adunque in questi giorni un die,
Ch’alla caverna sua Mensola stando,
Per tutto il corpo doglie si sentie,
Perchè la Dea del parto allor chiamando,
Un fantin maschio quivi partorie,
Il qual Lucina di terra levando
Gliel mise in collo, e disse: questi fia
IV.
Come che doglia grande e smisurata
Mensola avea sentita, come quella
Ch’a tal partito mai non era stata,
Veggendo aversi fatta una sì bella
Creatura, la pena fu alleggiata,
E subito gli fece una gonnella
Com’ella seppe il meglio, e poi lattollo,
V.
Il fantin era sì vezzoso e bello,
E tanto bianco, ch’era maraviglia:
Il capo com’or biondo e ricciutello,
E in ogni cosa il padre suo simiglia
Sì propriamente, che pare a vedello
Affrico ne’ suoi occhi e nelle ciglia,
E tutta l’altra faccia sì verace,
Che a Mensola per questo più le piace.
VI.
E tanto amore già posto gli avea,
Che di mirarlo non si può saziare:
A Sinedecchia portar nol volea
Per non volerlo da sè dilungare,
Parendo a lei, mentre che ’l vedea,
Affrico veder proprio, ed a scherzare
Cominciava con lui e a fargli festa,
VII.
Dïana avea più volte domandato
Quel che di Mensola era le compagne:
Fulle risposto, da chi l’era allato,
Che è gran pezzo che ’n quelle montagne
Veduta non l’aveva in nessun lato.
Altre dicean, che per certe magagne,
E per difetto ch’ella si sentia,
VIII.
Perchè un dì, di vederla pur disposta,
Perchè l’amava molto e tenea cara,
Con tre ninfe sen gì a quella costa
Dove la sventurata si ripara,
E giunte alla caverna senza sosta,
Dinanzi all’altre Dïana si para,
Credendola trovar, ma non trovolla,
Perchè a chiamar ciascuna incominciolla.
IX.
Ell’era andata col suo bel fantino
Inverso il fiume giù molto lontana,
E ’l bel fanciul trastullava al caldino,
Quando sentì la voce prossimana
Chiamar sì forte con chiaro latino:
Allor mirando in su vide Dïana
Con le compagne sue che giù venieno,
X.
Sì forte sbigottì Mensola quando
Vide Dïana, che nulla rispose,
Ma per paura tuttavia tremando
In un cespuglio tra’ pruni nascose
Il bel fantino, e lui solo lasciando,
Di fuggir quivi l’animo dispose,
E ’nverso il fiume ne gì quatta quatta,
XI.
Ma non potè si coperto fuggire,
Che Dïana fuggendo pur la vide;
E poi cominciò quel fanciullo a udire,
Il qual’alto piangea con forte stride.
Dïana cominciò allora a dire
Inverso lei con grandissime gride:
Mensola, non fuggir, che non potrai,
Se io vorrò, nè il fiume passerai.
XII.
Tu non potrai fuggir le mie saette,
Se l’arco tiro, o sciocca peccatrice.
Mensola già per questo non riflette,
Ma fugge quanto può alla pendice:
E giunta al fiume dentro vi si mette
Per valicarlo: ma Dïana dice
Certe parole, ed al fiume le manda,
XIII.
La sventurata era già in mezzo l’acque,
Quando i piè venir meno si sentia:
E quivi, siccome a Dïana piacque,
Mensola in acqua allor si convertia:
E sempre poi a quel fiume si giacque
Il nome suo, che ancor tuttavia
Per lei quel fiume Mensola è chiamato:
XIV.
Le ninfe ch’eran con Dïana veggendo
Come Mensola era acqua diventata,
E giù per lo gran fiume va correndo,
Perchè molto l’aveano in prima amata,
Per pietà tutte dicevan piangendo:
O misera compagna sventurata!
Qual peccato fu quel che t’ha condotta
A correr sì com’acqua a fiotta a fiotta?
XV.
Dïana disse lor che non piangessono,
Che quel martir molto ben meritava:
E perchè ’l suo peccato elle vedessono,
Dove il fanciul piangeva le menava.
Poi disse loro ch’elle lo prendessono,
Traendol di que’ pruni ov’egli stava:
Allor le ninfe sel recaro in braccio,
XVI.
Molta festa le ninfe gli facieno
Vedendol tanto piacevole e bello,
E raccettarlo volentier vorrieno
Con esso loro, e in que’ monti tenello:
Ma a Dïana dirlo non volieno,
La qual comandò lor che tosto quello
Fantin portato a Sinedecchia sia,
XVII.
Giunta Dïana a Sinedecchia, disse:
Com’ella aveva quel fantin trovato
In un cespuglio, ove Mensola il misse,
Per celato tenere il suo peccato:
Ma ella dopo questo poco visse,
Che fuggendo ella, e volendo il fossato
Di là passare, il fiume la ritenne,
E com’io volli allora acqua divenne.
XVIII.
Mentre Dïana dicea ta’ parole,
La vecchia ninfa per pietà piangea,
Tanto il caso di Mensola le duole,
E quel fantino in braccio ella prendea,
Ed a Dïana disse: o chiaro sole
Di tutte noi, altro ch’io non sapea
Questo peccato, che a me sola il disse,
XIX.
Poi ogni cosa a Diana ebbe detto,
Come Mensola stata era sforzata,
E ’l come e ’l dove da un giovinetto,
E in che modo da lui fu ingannata:
E disse poi: o Dea, io ti prometto
Sopra la fè ch’io t’ho sempre portata,
Che, s’io non era, morta si sarebbe,
XX.
Da poi che tu l’hai fatta diventare
Acqua, ti prego ch’almen tu mi doni
Questo fanciullo, ch’io ’l vorrò portare
Di qui lontano assai ’n certi valloni,
Ov’io ricordo anticamente stare
Uomini con lor donne a lor magioni:
A loro il donerò, che car l’avranno,
E me’ di noi allevare il sapranno.
XXI.
Quando Dïana ta’ parole intende,
Come Mensola stata era tradita,
Alquanto del suo mal pietà le prende
Perchè l’amava assai quand’era in vita:
Ma perchè l’altre da cotai faccende
Si guardasson, mostrossi incrudelita,
E disse a Sinedecchia, che facesse
XXII.
Poi si parti colla sua compagnia,
E a Sinedecchia quel fanciul lascioe,
La qual, poscia che vide andata via
Dïana, tostamente s’invioe
Con esso in collo, e ’n quelle parti gìa
Ove Mensola bella l’acquistoe,
Che ben sapea per tutto ogni riviera,
XXIII.
E già aveva da Mensola udito
Come avea nome quel che la sforzone,
E più da lei ancora avea sentito,
Quando partissi, in qual parte n’andone;
Perchè considerato ogni partito,
Estimò troppo ben che quel garzone
In quella valle stesse, ove sedeva
Una casetta che fumo faceva.
XXIV.
Laggiù n’andò, non con poca fatica,
E per ventura trovò Alimena,
Alla qual disse: o carissima amica,
Grande è quella cagion che a te mi mena,
Ed è pur di bisogno ch’io tel dica:
Però ti prego che non ti sia pena
D’ascoltare una gran disavventura,
XXV.
PoiFonte/commento: ed. 1477 ogni cosa le venne narrando,
Com’un giovine ch’Affrico avea nome
Sforzò una ninfa, il dove, e ’l come e ’l quando
A parte a parte disse, e poscia come
Ell’era ita gran pezzo tapinando,
Poi partorì quel bello e fresco pome;
E poi come Dïana trasmutoe
XXVI.
E come quel fantino avea trovato
Dïana tra molti pruni, e come a lei
Con altre ninfe poi l’avea donato:
Ma mentre che cotai cose costei
Raccontava, Alimena ebbe mirato
Nel viso a quel fantino, e disse, omei!
Questo fanciul propriamente somiglia
Affrico mio, e poi in braccio il piglia.
XXVII.
E lacrimando per grande allegrezza,
Mirando quel fantin, le par vedere
Affrico proprio in ogni sua fattezza,
E veramente gliel pare riavere;
E lui baciando con gran tenerezza,
Diceva: figliuol mio, gran dispiacere
Mi fia a contare il grandissimo duolo,
XXVIII.
Poi cominciò alla vecchia ninfa a dire
Del suo figliuol per ordine ogni cosa,
E come stette gran tempo in martire,
E della morte sua tanto angosciosa:
E stando questo Sinedecchia a udire
Venne del caso d’Affrico pietosa,
E con lei insieme di questo piangea,
XXIX.
Quand’egli intese il fatto, similmente
Per letizia piangeva e per dolore,
E mirando il fanciul, veracemente
Affrico suo gli pare, onde maggiore
Allegrezza non ebbe in suo vivente;
Poi facendogli festa con amore,
E quel fantin quando Giraffon vide
Da naturale amor mosso gli ride.
XXX.
Sì grande fu l’allegrezza e la festa
Che fer costor, che in buona veritade,
Che se non fusse che pur lor molesta
Il core de’ due amanti la pietade,
Nessuna ne fu mai simile a questa.
Ma poi che Sinedecchia l’amistade
Con loro ebbe acquistata, sen vuol gire
XXXI.
Giraffon mille grazie le ha renduto,
E Alimena similmente ancora,
Del buon servigio da lei ricevuto,
E molto quivi ciaschedun l’onora.
Ma poi che Sinedecchia ebbe il saluto
Renduto lor, senza far più dimora
Alla spelonca sua si ritornava,
XXXII.
La novella fu subito saputa
Per tutti i monti, ed a ciascun palese
Come Mensola era acqua divenuta,
E a molte ninfe gran pietà ne prese:
Ma dopo alquanto Dïana si muta
Da questi luoghi, e in altro paese
N’andò com’era usata, e primamente
Ammonì le sue ninfe parimente.
XXXIII.
Rimase adunque le ninfe in tal mena,
Sempre quel fiume Mensola chiamaro.
Torniamo a Giraffone ed Alimena,
Che quel fantin con il latte allevaro
Del lor bestiame, non con poca pena,
E per nome Pruneo e’ lo chiamaro,
Perchè tra’ pruni pianger fu trovato,
XXXIV.
E crescendo Pruneo, venne sì bello
Della persona, che se la natura
L’avesse fatto in pruova col pennello,
Non potea dargli sì bella figura:
E’ venne destro più ch’un lioncello,
Arditissimo e forte oltra misura,
E tanto proprio il padre era venuto,
XXXV.
Gran guardia ne faceva Giraffone
Ed Alimena ancor la notte e ’l die,
E più volte gli disson la cagione
Siccome Affrico suo padre morie,
Perchè paura n’avesse il garzone,
Di mai volere andar per quelle vie,
E della madre sua i grievi danni;
E così stando, venne a’ diciott’anni.
XXXVI.
Passò allora Atalante in questa parte
D’Europa con infinita gente,
E per Toscana ultimamente sparte,
Come scritto si trova apertamente,
Apollin vide, facendo su’ arte,
Che ’l poggio Fiesolan veracemente
Era ’l me’ posto poggio e lo più sano
XXXVII.
Atalante vi fece edificare
Una città, che Fiesole chiamossi:
Le genti cominciarono a pigliare
Di quelle ninfe che lassù trovossi,
E qual potè dalle lor man campare,
Da tutti questi poggi dileguossi;
E così fur le ninfe allor cacciate,
XXXVIII.
Tutti gli abitator di quel paese
Atalante gli volle alla cittade.
Giraffon, quando questo fatto intese,
Tosto n’andò con buona volontade,
E menò seco il piacente e ’l cortese
Pruneo, adorno d’ogni dignitade,
Ed Alimena, e comparì davante
Con riverenza al signore Atalante.
XXXIX.
Quando Atalante vide il vecchio antico,
Graziosissimamente il ricevette,
E presel per la man sì come amico,
E ta’ parole inverso lui ha dette:
O vecchio savio, intendi quel ch’io dico,
Che la mia fede ti giura e promette,
Che se tu in questa terra abiterai,
XL.
E meco abiterai nella mia rocca
Insiememente con questo tuo figlio.
Giraffon ta’ parole inver lui scocca:
O Atalante, sempre il mio consiglio
Fia apparecchiato a quel che la tua bocca
Comanderà: ma io mi maraviglio,
Ch’avendo teco uomin tanto savi,
XLI.
Tu di’ vero ch’i’ ho meco savia gente,
Atalante rispose: ma perch’io
Veggio ch’esser tu dei anticamente
Stato in questo paese, al parer mio,
E saper debbi tutto il convenente
Di questi luoghi, quale è buono o rio,
In molte cose mi potra’ esser buono
In questi luoghi ov’arrivato io sono.
XLII.
Giraffon disse, lagrimando quasi:
Oimè, Atalante, che tu parli il vero,
Ch’io sono antico, e’ miei gravosi casi
Manifestano il fatto tutto intero;
E’ non è molto tempo ch’io rimasi
Sol con la donna mia ’n questo sentiero,
Se non che poi costui mi fu recato,
XLIII.
Poi gli contava il fatto com’era ito
D’Affrico suo e Mensola sua amante:
E poscia di Mugnon, che fu fedito
E morto da Dïana, e tutte quante
Le sue sventure disse, e poi col dito
Gli dimostrava didietro e davante
I fiumi, e i loro nomi gli dicea,
XLIV.
E poi ad Atalante si voltoe,
Dicendo: io vuo’ fare ogni tuo comando:
Atalante di questo il ringrazioe:
E poi inverso Pruneo rimirando,
E piacendogli molto, lo chiamoe,
E poscia inverso lui così parlando
Disse: io vuo’ che tu sia mio servidore
Alla tavola mia, per lo mio amore.
XLV.
Così Atalante fece Giraffone
Suo consigliere, e ’l giovane Pruneo
Dinanzi a lui serviva per ragione,
E tanto bene a far questo imprendeo
Ch’era a vederlo grande ammirazione;
E oltre a questo la natura il feo
Ardito e forte tanto, che non trova
XLVI.
E d’ogni caccia maestro divenne,
Tanto che fiera non potea campare
Dinanzi a lui, tant’ottimo e solenne
Corridore era, e destro nel saltare,
E sì ben l’arco nelle sue man tenne,
Che vinto avria Dïana a saettare:
Costumato e piacevole era tanto,
XLVII.
Atalante gli pose tanto amore,
Veggendo ch’era sì savio e valente,
Che siniscalco il fe’ con grande onore
Sopra la terra e sopra la sua gente,
E di tutto il paese guidatore;
Ed e’ ’l guidava si piacevolmente,
Ch’era da tutti amato e ben voluto,
Tanto dava ad ognuno il suo dovuto.
XLVIII.
E già venticinque anni e più avea,
Quando Atalante gli diè per mogliera
Una fanciulla, la qual Tironea
Era il suo nome, e figliuola sì era
D’un gran baron che con seco tenea:
E diégli ancor tutta quella rivera
Ch’in mezzo è tra Mensola e Mugnone,
XLIX.
Pruneo fe’ far dalla chiesa a Maiano,
Un po’ di sopra, un nobil casamento,
Dond’egli vedea tutto quanto il piano,
Ed afforzollo d’ogni guernimento;
E quel paese, ch’era molto strano,
Tosto dimesticò, sì com’io sento,
E questo fece sol pel grande amore
L.
Ivi gran parte del tempo abitava,
Dandosi sempre diletto e piacere:
Diceasi che sovente a’ fiumi andava
Della sua madre e del padre a vedere,
E che co’ loro spiriti parlava,
Dell’acque uscendo voci chiare e vere,
E piene di sospiri e di pietate,
Le cose rammentandogli passate.
LI.
Giraffon ristorato de’ suoi danni
Gran tempo visse; ma poi che sua vita
Ebbe finita e’ suoi lunghissimi anni,
Di questo mondo facendo partita,
Alimena lasciò con molti affanni:
La qual, poichè l’età sua fu finita,
Con Giraffon fu messa in un avello
LII.
Pruneo rimase in grandissimo stato
Colla sua Tironea, della qual’ebbe
Dieci figliuoli, ognun pro’ e costumato,
Tanto che maraviglia ciascun n’ebbe:
E poi ch’egli ebbe a ciascun moglie dato,
In molte genti questa schiatta crebbe,
E sempre a Fiesol furon cittadini
LIII.
Morto Pruneo, con grandissimo duolo
Di tutta la città fu seppellito:
Così rimase a ciascun suo figliuolo
Tutto il paese libero e spedito,
Che Atalante donato avea a lui solo,
E bene l’ebbon tra lor dipartito;
E sempre poi la schiatta di costoro
Signoreggiaron questo tenitoro.
LIV.
Ma poi che Fiesol fu la prima volta
Per li Roman consumata e disfatta,
E poi che a Roma la gente diè volta,
Que’ che rimason dell’affrica schiatta,
Alla disfatta fortezza raccolta
Tutti si fur, che Pruneo avea fatta,
E quivi il me’ che seppon s’alloggiaro
LV.
Poi fu Firenze posta pei Romani,
Acciocchè Fiesol non si rifacesse,
Pe’ nobili e possenti Fiesolani
Ch’eran campati, ma così si stesse:
Per la qual cosa in molti luoghi strani
Le genti fiesolane si fur messe
Ad abitar, come gente scacciata,
LVI.
Ma poi ch’uscita fu l’ira di mente
Per ispazio di tempo, e pace fatta
Tra li Romani e la scacciata gente,
Quasi tutta la gente fu ritratta
Ad abitare in Firenze possente,
Tra’ quai vi venne dell’affrica schiatta,
E volentier vi furon ricevuti
Da’ cittadini, e ben cari tenuti.
LVII.
E per levar loro ogni sospicione,
Sed e’ l’avesser, d’essere oltraggiati,
E anche per dar lor maggior cagione
D’amar la terra, e d’esser anche amati,
E fatto fosse a ciaschedun ragione,
Sì furo insieme tutti imparentati,
E fatti cittadin con grande amore,
LVIII.
Così moltiplicando la cittade
Di Firenze, in persone e in gran ricchezza,
Gran tempo resse con tranquillitade;
Ma come molti libri fan chiarezza,
Già era in essa la cristianitade
Venuta, quando, presa ogni fortezza,
Fu da Totile infin da’ fondamenti
LIX.
Poi fece il crudel Totile rifare
Ogni fortezza di Fiesole e mura,
E pel paese fece un bando andare:
Che qual fosse che dentro alla chiusura
Di Fiesole tornasse ad abitare,
Ogni persona vi fosse sicura,
Giurando prima di far sempre guerra
Con i Romani, e con ogni lor terra.
LX.
Per la qual cosa la schiatta affrichea
Per grande sdegno tornar non vi volle,
Ma nel contado ognun si riducea,
Cioè nel loro primaio e antico colle,
Ove ciascuno abitazione avea,
Facendo quivi un forte battifolle
Per lor difesa, se bisogno fosse,
LXI.
Così gran tempo quivi dimoraro,
Insin che ’l buon re Carlo Magno venne
Al soccorso d’Italia, e a riparo
Della città di Roma, che sostenne
Gran novità. Allor si ragunaro
L’affrichea gente, e consiglio si tenne
Con gli altri nobil che s’eran fuggiti
LXII.
Che si mandasse a Roma al padre santo,
E al re Carlo Magno un’ambasciata,
Significando il fatto tutto quanto,
Come la lor figliuola rovinata
Giaceva in terra, e’ cittadin con pianto
L’avean per forza tutta abbandonata;
E perchè avean de’ Fiesolan paura,
Non vi potean rifar case nè mura.
LXIII.
Ma perchè altrove chiara questa storia
Si trova scritta, fo con brevitade.
Tornando al papa Firenze a memoria,
Per l’ambasciata, gli venne pietade:
Ma poi che Carlo Magno ebbe vittoria,
Passò di qua per le nostre contrade,
E sì rife’ la città di Fiorenza,
LXIV.
Per la qual cosa que’ d’Affrico nati
Con gli altri vi tornaro ad abitare:
E come poi si sieno translatati
Di grado in grado non potre’ contare,
Nè d’uno in altro; ma in molti lati
Son di lor gente scesi d’alto affare,
Ed altri, che son di lassù venuti,
LXV.
Ma sia come si vuole omai la cosa,
Io son venuto al porto disiato,
Ove ’l disio e la mente amorosa
Per lunghi mari ha gran pezza cercato:
Omai donando alla mia penna posa,
Ho fatto quel che mi fu comandato
Da tal, cui non potre’ nulla disdire,
Tanto sopra di me fatto è gran sire.
LXVI.
Adunque, poich’io sono al fin venuto
D’esto lavoro, a lui il vo’ portare,
Il qual m’ha dato la forza e l’aiuto,
E lo stile e l’ingegno del rimare:
Dico ad Amor, di cui son sempre suto,
Ed esser voglio, e lui vo’ ringraziare,
E a lui recare il libro dov’egli usa,
LXVII.
Altissimo signore, Amor sovrano,
Sotto cui forza valore e potenza
È sottoposto ciascun core umano,
E contro a cui non può far resistenza
Nessuno, sia quanto si vuol villano,
Il qual non venga tosto a tua obbedienza,
Pur che tu vuogli, ma pur più ti giova
XLVIII.
Tu se’ colui che sai, quando ti piace,
Ogni gran fatto ad effetto menare,
Tu se’ colui che doni guerra e pace
A’ servi tuoi, secondo che ti pare;
Tu se’ colui che li lor cuori sface,
E che gli fai sovente suscitare;
Tu se’ colui che gli assolvi e condanni,
E qual conforti, e a qual’arrogi danni.
LXIX.
Io sono un de’ tuoi servi, al quale imposto
Mi fu per te, come a servo leale,
Di compor questa storia, ed io disposto
Sempre ubbidirti, come quegli al quale
Una donna m’ha dato e sottoposto,
Col tuo aiuto i’ l’ho fatta cotale
Chent’è suto possibile al mio ingegno,
LXX.
Ma ben ti prego per gran cortesia,
E per dovere e per giusta ragione,
Che questo libro mai letto non sia
Per gl’ignoranti e villane persone,
I quai non seppon mai chi tu ti sia,
Nè di voler saperlo hanno intenzione,
Che molto certo son che biasimato
LXXI.
Lascial leggere agli animi gentili,
E che portan nel volto la tua insegna,
Accostumati angelici ed umili,
Ne’ cuor de’ quali la tua forza regna.
Costor le cose tue non terran vili,
Ma esser le faran di lode degna,
Te’, ch’io tel rendo, dolce mio signore,
Al fin recato pel tuo servidore.
LXXII.
Ben venga l’ubbidiente servo mio,
Quanto niun altro che sia a me suggetto,
Il quale ha messo tutto il suo disio
In recare a su fine il mio libretto:
E perchè certo son ch’è tal qual’io
Il disiava, volentier l’accetto,
E nell’armario tra gli altri contratti
LXXIII.
E ’l prego tuo sarà ottimamente
Di ciò che m’hai pregato essaudito,
Che ben guarderò il libro dalla gente,
La qual tu di’ che non m’ha mai servito;
Non perch’io tema lor vento niente,
Nè perch’io sia per lor men’ubbidito,
Ma perchè ricordato il nome mio
Tra lor non sia; e tu riman con Dio.
IL FINE