Ninfale fiesolano/Parte sesta

Parte sesta

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Parte quinta Parte settima
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PARTE SESTA




I.

Torniamo un poco a Mensola, la quale
     Sen gia pensosa e sola su pel monte;
     E parendole aver fatto pur male,
     Forte pentiesi, e con le man la fronte
     Si percotea, dicendo: poi che tale
     Fortuna m’ha percossa con tant’onte,
     Deh morte vieni a me, ch’io te ne priego,

     Che non mi facci d’uccidermi niego.

II.

Così passò del gran monte la cima,
     E poi scendendo giù per quella costa,
     Là dove il sol percuote quando prima
     Si leva, e che ad oriente è contrapposta,
     Secondo che il mio avviso estima,
     Era la sua caverna in quella posta,
     Forse un trar d’arco sopra il fiumicello
     Ch’appiè vi corre con grosso ruscello

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III.

E giunta alla caverna sua, in quella
     Entrò occupata di molti pensieri;
     E quivi ogni sua doglia rinnovella,
     Dicendo: lassa a me! perchè l’altrieri,
     Quando Affrico mi vide tanto bella
     Con Dïana alla fonte da primieri,
     Non fu’ io morta il giorno maladetto,

     Ch’io mi scontrai in questo giovinetto?

IV.

Non so giammai, tapina, con qual faccia
     Vada innanzi a Dïana, nè che modo
     Io mi debba tener, nè ch’io mi faccia,
     Che di paura mi consumo e rodo;
     E ogni senso dentro mi s’agghiaccia,
     E nella gola mi s’è fatto un nodo
     Per la malinconia e pel dolore

     Ch’io sento, che m’offende dentro al core.

V.

Deh morte vieni a questa sventurata,
     Vieni a questa mondana peccatrice;
     Vieni a colei che ’n malora fu nata,
     Non t’indugiar, che mi fie più felice
     Morire aval, poic’ho contaminata
     La mia verginità; che ’l cor mi dice,
     Che se da te non vorrai molto tosto,
     Di farmi incontro a te ho il cor disposto.

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VI.

Oimè, compagne mie, voi non pensate
     Ch’io sia uscita fuor di vostra schiera:
     Oimè, compagne mie, che solevate,
     Tenermi tanto cara, quand’io era
     Senza peccato e con virginitate,
     Ora mi caccerete come fiera,
     E come quella ch’al tutto ha corrotta

     Virginità, e vostra legge ha rotta.

VII.

Io posso annoverata essere omai,
     O Calisto, con teco; che com’io
     Già fosti ninfa, e poi con molti guai
     Dïana ti cacciò per ogni rio,
     Perchè t’ingannò Giove, come sai,
     Ed in orsa crudel ti convertìo,
     E givi errando e le cacce temevi,

     Mugghiando quando favellar volevi.

VIII.

O Ciala ninfa a Dïana compagna,
     La qual fosti sforzata da Mugnone,
     Dïana, che di te ancor si lagna,
     T’uccise nelle braccia del garzone:
     Ora se’ fatta fonte, e Mugnon bagna
     Appiè di te le ripe del vallone:
     Io son di vostra schiera al mio dispetto,
     Così sia questo giorno maladetto.

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IX.

E’ mi par già che Dïana trasmuti
     Le gambe mie in un corrente fiume,
     Ovvero in fiera con dossi velluti;
     E come uccel mi pare aver le piume,
     O alber fatta con rami fronzuti,
     E di persona perduto il costume;
     Nè son più degna dell’arco portare,

     Nè anche come ninfa più cacciare.

X.

O padre, o madre, o fratelli, o sorelle,
     Quando a Dïana prima mi sagraste,
     E vestistimi le sacre gonnelle,
     Ben mi ricorda che mi comandaste
     Che a Dïana ubbidissi, e tutte quelle
     Che seguon lei, e poi m’accompagnaste
     In questi monti, non perch’io peccassi,

     Ma sempre mai virginità servassi.

XI.

Voi non pensate ch’abbia rotta fede
     Alla sacra Dïana, nè ch’io sia
     In tanta angustia, nè niun di voi vede
     In quanta pena sta la vita mia;
     Che se ’l sapeste, nè pietà nè mercede
     Non avreste di me, ma come ria
     E peccatrice me uccidereste,
     E certamente molto ben fareste.

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XII.

Sì grande era la doglia e ’l gran lamento
     Che Mensola menava, e l’angoscioso
     E duro pianto con grieve tormento,
     Ch’io nol potrei mai por sì doloroso
     In scrittura, che per ognun cento
     Maggior non fosse il suo parlar pietoso,
     Ch’avrebbe fatto le pietre e gli albori

     Sol per pietà di lei menar dolori.

XIII.

Con cotali lamenti e pianto amaro
     Logorò quella notte; ma apparito
     Che fu il giorno bellissimo e chiaro,
     Perchè la notte non avea dormito,
     Sì gli occhi lagrimosi l’aggravaro,
     Ch’ogni spirito fu da lei partito;
     Addormentossi mentre che piangea,

     Per la gran doglia che patito avea.

XIV.

Affrico, che nell’amoroso foco
     Ardeva più che mai, si fu levato,
     Come vide il mattin, cha molto poco
     La notte avea dormito, e fu inviato
     Sus’alto al monte, e giunto fu nel loco,
     Dove con Mensola il giorno passato
     Avea preso piacer, diletto e gioia,
     Come che alfine gli tornasse in noia.

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XV.

Quivi credette Mensola trovare,
     Ma non trovando lei, in fra sè disse:
     Egli è ancora assai tosto; e aspettare
     La incominciò, perchè quando venisse
     Quivi il trovasse; e perchè ’l soprastare
     Non gli paresse lungo, sì si misse
     Per far ghirlande ind’oltre a coglier fiori

     Piccoli e grandi e di vari colori.

XVI.

E fatta che n’ebbe una, in su’ capelli
     Biondi di lui si mise, e la seconda
     Cominciò a far d’alquanti fior più belli,
     Mescolando con essi alcuna fronda
     D’odoriferi e gentili arboscelli,
     Dicendo: questa in su la treccia bionda
     Con le mie man di Mensola porroe

     Quando verrà, e poi la bacieroe.

XVII.

Così aspettando invano il giovinetto
     Mensola sua, la quale ancor dormia,
     Cogliendo fiori ind’oltre a suo diletto
     Perchè aspettarla grave non gli sia,
     E riguardando spesso nel boschetto,
     Or qua or là, se Mensola venia,
     Ed ogni busso che ode o che vede
     Foglia menar, che Mensola sia crede,

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XVIII.

Ma sendo l’ora già più che di terza,
     E non vedendo Mensola venire,
     Aspettò tanto che del sol la sferza
     Era sì calda, che già sofferire
     Non si potea, onde più non ischerza
     Con fiori e con ghirlande, ma sentire
     Cominciò pena, e farsi maraviglia,

     Alzando spesso or qua or là le ciglia.

XIX.

E cominciò, oimè, seco dicendo,
     Che vorrà questo dir, ch’ella non viene?
     E ’n fra sè pensier nuovi va volgendo,
     Scuse trovando spesso alle sue pene,
     E di lei mille casi al core avendo,
     Siccome ad altri spesse volte avviene,
     Che disiando che la cosa venga

     Imagina che assai cose intervenga,

XX.

Passò la nona, e ’l vespro, e già la sera
     Era venuta, e ’l giorno era fuggito
     Che Mensola venuta mai non era,
     Ond’Affrico rimase sbigottito,
     Forte doglioso, e con turbata cera
     Di partirsi di lì prese partito,
     Dicendo: forse ch’ella avrà trovato
     Tra via le sue compagne in qualche lato;

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XXI.

Le quali l’avran forse ritenuta,
     Però l’aspettar mio sarebbe vano:
     E veggo già la notte esser venuta,
     E i’ ho a ir di qui molto lontano;
     E bench’io abbia oggi la beffa avuta
     Per aspettarla in questo loco strano,
     Io ci ritornerò pur domattina;

     E per girsene scese la collina.

XXII.

Mensola s’era in su la nona desta,
     Tutta dogliosa e forte addolorata,
     Sendole molte cose per la testa
     Gite, ch’ella se n’era spaventata,
     Ma non l’impedì tanto la tempesta,
     Ch’ella avesse però dimenticata
     Ciò che ’l giorno davanti avea promesso

     Ad Affrico, di ritornare ad esso:

XXIII.

Ma tanto s’era di quel ch’avea fatto
     Pentuta, che disposta è non tornare
     Dove avea fatto con Affrico patto
     Di doversi quel dì con lui trovare:
     Ma quanto ella potesse in ciascun atto,
     Volere il fallo suo grande occultare,
     Acciocchè quando Dïana venisse
     Il fallo ch’avea fatto non sentisse.

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XXIV.

Nè però le potè giammai del core
     Affrico uscire, che continuamente
     Non gli portasse grandissimo amore,
     E che nol disiasse occultamente;
     Ma tanto la stringea forte il timore
     Che aveva di Dïana nella mente,
     Ch’ella non andò mai dove credesse

     Ch’Affrico fosse, o trovar lo potesse.

XXV.

Così passò ’l secondo e ’l terzo giorno,
     E ’l quarto e ’l quinto e ’l sesto, e anco il mese,
     Ch’Affrico mai non vide il viso adorno
     Della sua amante: ma con molte offese
     Vivea, facendo sovente ritorno
     Nel luogo dove Mensola sua prese,
     In qua e in là per lo monte cercando,

     E molte cose di lei immaginando.

XXVI.

Ma nulla venia a dir la sua fatica,
     Che la fortuna già fatta invidiosa
     Di lui, e d’ogni suo piacer nimica,
     Volle por fine misera e dogliosa
     Alla sua vita dolente e mendica,
     Come quella che mai non trova posa,
     Ma sempre va le cose rivolgendo
     Del mondo, nulla mai fermo tenendo.

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XXVII.

Perchè già sendo un mese e più passato,
     Che non potea mai Mensola vedere,
     Essendogli pel gran dolor mancato
     Sì la natura, e la forza e il potere,
     Che un animal parea già diventato
     Nel viso e nel parlare e nel tacere:
     E il capo biondo, smorto era venuto,

     E senza parlar quasi stava muto.

XXVIII.

Essendo un giorno a guardia del suo armento
     Ind’oltre appiè del monte, come spesso
     Egli era usato, gli venne talento
     Di gire al loco là dove promesso
     Da Mensola gli fu con saramento
     Di ritornare a lui, e fussi messo,
     Lasciando del bestiame il grande stuolo,

     Sol con un dardo in man pel cammin solo.

XXIX.

E pervenuto all’acqua del vallone
     Ove Mensola sua sforzata avea,
     Quivi mirandosi intorno il garzone,
     O Mensola, in fra sè stesso dicea,
     I’ non credetti mai tal tradigione
     Della tua fè, che promesso m’avea
     Di ritornar con saramenti e giuri;
     Or par che poco di me o d’Iddio curi.

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XXX.

Non ti ricorda quando colle mani
     Insieme in questo loco ci pigliammo,
     E con tuoi saramenti falsi e vani
     Dicesti di tornar; poi ci baciammo
     Insieme gli occhi, che stanno or lontani,
     Ed in quel luogo poi ci partivammo?
     Non ti ricorda quanti testimoni

     Aggiugnesti alle tue promessïoni?

XXXI.

Io non potrei mai dir quanti lamenti
     Affrico fece il dì quivi piangendo:
     E per crescer maggiori i suoi tormenti,
     Giva ogni cosa quivi rivolgendo,
     Del suo amore tutti gli accidenti
     Buoni e cattivi; e per questo crescendo
     La doglia sua ognor molto maggiore,

     Diliberò d’uscir di tal dolore.

XXXII.

E sopra l’acqua del fossato gito,
     L’aguto dardo si recava in mano,
     E al petto si ponea ’l ferro pulito,
     E in terra l’asta, dicendo: o villano
     Amor, che m’ha’ condotto a tal partito,
     Ch’io mora in questo modo tanto strano;
     E pure innanzi ch’io voglia più stare
     In cotal vita, mi vo’ disperare.

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XXXIII.

O padre, o madre, fatevi con Dio,
     Io me ne vo nell’inferno angoscioso,
     E tu fiume ritieni il nome mio,
     E manifesterai il doloroso
     Caso ch’è occorso, sì crudele e rio:
     Ed a chi ti vedrà sì sanguinoso
     Correre, o lasso, del mio sangue tinto,

     Paleserai dov’amor m’ha sospinto.

XXXIV.

E detto questo, Mensola chiamando,
     Il ferro tutto nel petto si mise,
     Il quale al cor tostamente passando
     Del giovanetto, con doglia l’uccise:
     Perchè morto nell’acqua allor cascando,
     L’anima da quel corpo si divise;
     E l’acqua che correa per la gran fossa

     Del sangue tinta venne tutta rossa.

XXXV.

Facea quel fiume, siccome fa ancora,
     Di sè due parti, alquanto giù più basso,
     E quella parte che fa minor gora,
     Presso alla casa del giovane lasso,
     Correva sanguinosa, essendo allora
     Giraffon fuori, e vide il fiume grasso
     Di sangue, perchè subito nel core
     Gli venne annunzio di futur dolore.

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XXXVI.

Perchè senza dir nulla, di presente
     N’andò dove e’ sentì ch’era il suo armento:
     E non trovando Affrico, immantinente
     Su per lo fiume non con passo lento
     Tenne per trovar dove primamente
     Di quel sangue venia ’l cominciamento,
     E di chi fosse, e chi n’era cagione,

     E giunse al loco ov’Affrico trovone.

XXXVII.

Quando vide il figliuol morto giacere,
     Col dardo fitto nel giovinil petto,
     Appena in piè si potè sostenere,
     Sì fu da dolor subito costretto;
     E per l’un braccio con gran dispiacere
     Il prese, e disse: oimè, qual maladetto
     Braccio fu quel che ti Fonte/commento: ed. 1477diè tal fedita,

     O figliuol mio, che t’ha tolta la vita?

XXXVIII.

Egli il trasse dell’acqua, e in sulla riva
     Il pose lagrimando il padre vecchio,
     E con dolor quel giorno maladiva,
     Dicendo: o figlio del tuo padre specchio,
     Or che farà la tua madre cattiva,
     Che non avrà giammai un tuo parecchio?
     Che farem noi tapini e pien di duoli,
     Poichè rimasi siamo di te soli?

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XXXIX.

E ’l fitto dardo gli cavò del core,
     E il ferro rimirava con tristizia,
     Poi diceva con pianto e con dolore:
     Chi tel lanciò con sì crudel nequizia
     Nel petto, figliuol mio, con tal furore?
     Ch’io n’ho perduto ogni bene e letizia:
     Credo che fu Dïana dispietata,

     Che non fia ancor del mio sangue saziata.

XL.

Ma poi ch’egli ha quel dardo rimirato
     Più e più volte, conobbe ch’egli era
     Quel che ’l suo figlio sempre avea portato,
     Perchè con trista e lagrimosa cera
     Disse: o tapin figliuolo sventurato,
     Qual fu quella cagion cotanto fiera
     Che ti condusse qui a sì ria sorte,

     E chi ti diè col dardo tuo la morte?

XLI.

Poi dopo molto ed infinito pianto
     Giraffone il figliuol si gittò in collo,
     E con quel dardo doloroso tanto
     Alla casetta sua così portollo:
     E alla madre il fatto tutto quanto,
     Piangendo tuttavia, raccontollo,
     E ’l dardo le mostrava, e sì diceva
     Come del petto tratto gliel’aveva.

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XLII.

Se la madre fe’ quivi gran lamento
     Non ne domandi persona nessuna,
     Che dir non si potrebbe a compimento
     Le grida e il pianto per cosa veruna:
     E quanta doglia sentì con tormento,
     Bestemmiando gl’Iddei e la fortuna,
     E il viso stretto con quel del figliuolo

     Tenea piangendo e menando gran duolo.

XLIII.

Pure alla fine, siccom’era usanza
     A quel tempo di far de’ corpi morti,
     Così allor, dopo gran lamentanza,
     E urli e pianti durissimi e forti,
     Arson quel corpo, con grande abbondanza
     Di lagrime e dolor senza conforti,
     Come color ch’altro ben non aveno,

     E quel si veggon or venuto meno.

XLIV.

E poi ricolson la polver dell’ossa
     Del lor figliuolo, e al fiume se n’andaro,
     Là dove l’acqua ancor correva rossa
     Del proprio sangue del lor figliuol caro,
     E in su la riva feciono una fossa,
     E dentro in quella poi vel sotterraro,
     Acciocchè ’l nome suo non si spegnesse,
     Ma sempre mai il fiume il ritenesse.

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XLV.

Da poi in qua quel fiume dalla gente
     Affrico fu chiamato, e ancor si chiama:
     Quivi rimase sol tristo e dolente
     Il padre, e la sua madre molto grama:
     Tal fu la fine d’Affrico piacente,
     E così al fiume rimase la fama.
     Or lasciam qui, e ritorniamo omai

     A Mensola la quale io vi lasciai.

XLVI.

Mensola in questo mezzo assai dolente
     Era vivuta e con malinconia,
     Ma pur veggendo che levar niente
     Di ciò che fatto avea non si potia,
     De’ casi avversi venne pazïente,
     E cominciò alla sua compagnia
     Alcuna volta pure a ritrovarsi,

     E contro alla sua voglia a rallegrarsi.

XLVII.

E più fïate si trovò con quelle
     Ninfe che ’l giorno con lei eran sute
     Che Affrico la prese, e le novelle
     Per tutte l’altre già eran sapute,
     Non dico del peccato, ma com’elle
     Dal giovane pigliar furon volute,
     E Mensola con sue scuse e bugie
     Fe’ credere che ella si fuggie.

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XLVIII.

Così più ogni giorno assicurata
     Mensola s’era, da poi ch’ella vede
     Che dalle sue compagne era onorata
     Siccome mai, e ciascuna si crede
     Che com’elle non sia contaminata,
     Ed alle sue bugie si dava fede,
     E perchè ancora a Dïana credea

     Il peccato celar che fatto avea.

XLIX.

Non però amor l’avea tratto del petto
     Affrico, e ch’ella non si ricordasse
     Del nome suo, e del preso diletto,
     E che tacitamente nol chiamasse,
     Quando avea tempo, e ch’alcun sospiretto
     Assai sovente per lui non gittasse,
     Siccome innamorata, e paurosa

     Tenea la fiamma dentro al cor nascosa.

L.

E come far solea, già cominciava
     Colle compagne sue, col dardo in mano,
     A gir cacciando; e quand’ella arrivava
     Dove Affrico la prese, di lontano
     Quel luogo rimirando sospirava,
     Dicendo in fra sè stessa molto piano:
     Affrico mio, quanto di gioia avesti
     Già in quel loco quando mi prendesti!

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LI.

Or non so io che di te più si sia,
     Ma credo ben che stai in gran tormento
     Per me: ma non è già la colpa mia,
     Paura è che mi toglie ogni ardimento:
     Così dicendo volentier vorria
     Affrico suo aver fatto contento,
     Ove credesse che giammai saputo

     Da Dïana o da ninfe fosse suto.

LII.

Vivendo adunque Mensola in tal vita,
     Innamorata e suggella a temenza,
     Alquanto nel bel viso impalidita
     Era venuta per quella semenza
     Che nel suo ventre già era fiorita;
     Passò tre mesi senza aver credenza
     Di partorir giammai, o far figliuolo,

     Com’ella fece poscia con gran duolo.

LIII.

Ma facendo suo corso la natura,
     In capo di tre mesi incomincioe
     A manifesta far la creatura
     Che dentro al venire suo s’ingeneroe,
     Per la qual cosa a sè ponendo cura,
     Mensola forte si maraviglioe,
     Vedendosi ingrossare il corpo e’ fianchi,
     E di gravezza pieni e fatti stanchi.

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LIV.

Di questo si facea gran maraviglia
     Mensola la cagion non conoscendo,
     Come colei che mai figlio nè figlia
     Non avea avuto; ma fra sè dicendo:
     Saria questo difetto, che mi piglia
     Sì la persona, e ch’ognor va crescendo:
     E ogni giorno vengo più pesante,

     E fatta tutta svogliata e cascante?

LV.

Una ninfa abitava in quella piaggia;
     Un mezzo miglio a Mensola vicina,
     A una spelonca profonda e selvaggia,
     Ch’era maestra d’ogni medicina;
     Sopra dell’altre ell’era la più saggia,
     E ben sapea di ciascuna dottrina,
     E di cento anni o più ell’era vecchia,

     Chiamata era la ninfa Sinedecchia.

LVI.

Mensola puramente n’andò a questa,
     E disse: o madre nostra, il tuo consiglio
     M’è di bisogno; e poi le manifesta
     Il caso suo e ciascun suo periglio:
     Sinedecchia con la crollante testa
     Rispose tosto con turbato ciglio:
     Figliuola mia, tu hai con uom peccato,
     E non puoi tener più questo celato.

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LVII.

Mensola nel bel viso venne rossa,
     Udendo ta’ parole, per vergogna,
     E non veggendo che negar lo possa,
     Con gli occhi bassi timida trasogna,
     Volendosi mostrar di questo grossa;
     Ma poi veggendo che non le bisogna
     Celarlo a lei, che tutto il conoscea,

     Senza guatarla, o risponder, piangea.

LVIII.

Sinedecchia veggendo il suo lamento,
     E la vergogna e la sua puritade,
     Avvisò che di suo consentimento
     Non fosse questo, nè sua volontade,
     Ma fosse stato con isforzamento,
     Perchè alquanto ne le venne pietade,
     E per volerla un poco confortare,

     In questo modo incominciò a parlare.

LIX.

Figliuola mia, questo peccato è tale,
     Che nol potrai celarlo lungamente;
     E come ch’abbi fatto pur gran male,
     Non vo’ però che tanto fieramente
     Tu ti sconforti, ch’omai poco vale
     Se tu te n’uccidessi veramente;
     Ma vegnamo a’ rimedi, e dimmi come
     E chi ti tolse di castità il pome.

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LX.

Niente a questo Mensola risponde,
     Ma per vergogna il capo in grembo pose
     A Sinedecchia, e ’l bel viso nasconde
     Udendo rammentarsi cota’ cose,
     E gli occhi suoi parean fatte due gronde
     Che fosson d’acqua molto doviziose,
     Tanto forte plangea dirottamente,

     Senza parlare o risponder niente.

LXI.

Ma Sinedecchia pur le disse tanto
     Con sue parole, ch’ella confessoe
     Con voce rotta e con singhiozzo e pianto,
     Sì come un giovanetto l’ingannoe,
     E in che modo il fatto tutto quanto,
     E come ultimamente la sforzoe,
     E poi a pianger cominciò più forte

     Per la vergogna, chiamando la morte.

LXII.

La vecchia ninfa, quando questo intese,
     Come per sottil modo fu ingannata,
     E quanti lacci quel giovane tese,
     Pietà le venne della sventurata:
     Poi con parole alquanto la riprese
     Del fallo suo, perchè un’altra fïata
     Sotto cotal fidanza non peccasse,
     E perchè più ingannar non si lasciasse.

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LXIII.

Poi tanto seppe dirle e confortarla
     Ch’ella la fe’ di piangere restare,
     Promettendole sempre d’aiutarla,
     Come figliuola, in ciò che potrà fare.
     Poi d’ogni cosa volendo avvisarla,
     In questo modo cominciò a parlare:
     Figliuola mia, quel ch’io ti dico intendi,

     E fa’ che bene ogni cosa comprendi.

LXIV.

Quando compiuti i nove mesi avrai,
     Dal giorno che peccasti incominciando,
     Una creatura tu partorirai;
     Allor la Dea Lucina tu chiamando,
     Il suo aiuto le dimanderai,
     Ella pietosa tel darà; e po’ quando
     Nata sarà, quel che fia vederemo,

     E a ogni cosa ben provvederemo.

LXV.

E tu di questo non ti dar pensiero,
     Lascialo a me, ch’i’ ho ben già pensato
     Dentro dal cor ciò che farà mestiero,
     E ciò che far dovrò quando fia nato.
     Ma fa’ che fuori di questo sentiero
     Non vadi in questo mezzo, che ’l peccato
     Non sia palese a quelle che nol sanno,
     Che tornar ti potrebbe in troppo danno.

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LXVI.

Ma sola ti starai nella caverna,
     E’ panni porta larghi quanto puoi,
     Senza cintura, che non si discerna
     Il corpo grande pe’ peccati tuoi:
     E quivi pianamente ti governa,
     Dandoti pace, siccome far suoi;
     E spesso vieni a me, ch’io ti diroe

     Ciò che far tu dovrai intorno a cioe.

LXVII.

Queste parole dieron gran conforto
     Alla fanciulla, e disse: madre mia,
     Poi che condotta sono a questo porto,
     Pel mio peccato e per la mia follia,
     E ben conosco molto chiaro e scorto
     Che ’l vostro aiuto molto buon mi fia,
     A voi mi raccomando e al vostro aiuto,

     Poich’ogn’altro consiglio i’ ho perduto.

LXVIII.

Or te ne va’, Sinedecchia rispose,
     Ch’i’ t’atterrò ben ciò ch’i’ t’ho promesso,
     E non ti dar pensier di queste cose;
     Tien pur celato il peccato commesso.
     Mensola con le guance lagrimose
     Disse: io ’l farò, e pel cammin più presso
     Si mise, e ritornò alla sua stanza,
     Alquanto confortata di speranza.

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LXIX.

Quivi si stava pensosa e dolente
     Senza gir mai come soleva attorno,
     E per compagno tenea nella mente
     Affrico sempre col suo viso adorno;
     E perchè sempre continuamente
     Il corpo le crescea di giorno in giorno,
     Senza cintura i suoi panni portava,

     E assai sovente a Sinedecchia andava.

LXX.

E cominciolle a crescer più nel core,
     Per la creatura ancor non partorita,
     Contro ad Affrico un sì fervente amore,
     Che volentier ne vorrebbe esser gita
     Con esso lui a starsi a tutte l’ore
     Il giorno ch’ella si tenne tradita;
     E ’l dì se ne pentiva mille fiate,

     Chiamando lui con lagrime versate.

LXXI.

Questo pensier la fe’ più volte andare
     Al luogo ov’ella fu contaminata,
     Sol per saper se Affrico può trovare,
     Per esserne con lui a casa andata;
     Ma non si seppe mai tanto arrischiare
     Per la vergogna d’andar sola nata
     A casa sua; e pur presso v’andoe
     Alcuna volta, e poi indietro tornoe.

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LXXII.

Ma invan cercava, perchè non sapea
     Ched e’ si fosse per lei disperato.
     E già il suo corpo sì cresciuto avea,
     E ’l peso del fantin tanto aggravato,
     Ch’andare attorno omai più non potea;
     Perchè senza cercar più nessun lato
     Si stava alla caverna, ed aspettava

     Del parto il tempo, ch’omai s’appressava.

LXXIII.

E tanta grazia le fe’ la fortuna,
     Che ’n questo mezzo non si accorse mai
     Ch’ell’avesse peccato ninfa alcuna,
     E già trovate pur n’aveva assai,
     Come che maraviglia ciascheduna
     Di lei si desse ne’ tempi sezzai,
     Veggendola sì magra nella faccia,
     E non andar come solea alla caccia.