Ninfale fiesolano/Parte quinta

Parte quinta

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Parte quarta Parte sesta
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PARTE QUINTA




I.

Mensola avendo bene Affrico inteso
     Ciò ch’avea detto del suo innamorare,
     E come fu da prima di lei preso,
     E poi le cose ch’Amor gli fe’ fare,
     Alquanto nel suo cuore si fu acceso
     Il fuoco, e cominciava a sospirare,
     E pure Amor l’avea già ben ferita,

     Come ch’ella paresse sbigottita.

II.

Poi disse: oimè, e’ mi racorda bene
     Ch’io fui l’altrier gran pezza seguitata
     Da un, non so se tu quel desso sene
     Che ora m’hai così vituperata,
     E ben so io che per donarli pene,
     Inverso lui mi rivolsi crucciata,
     E ’l dardo mio a lui forte lanciava,
     Veggendo pur ched e’ mi seguitava.

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III.

E ricordami ancor (ched e’ non fosse)
     Che quando vidi il dardo inver lui gire,
     Non so perchè pietà al cor mi mosse,
     Ch’io gridai, guarti guarti, e poi a fuggire
     Mi diedi, e vidi che ’l dardo percosse
     In una quercia e fella tutla aprire,
     Poi mi nascosi ivi presso in un bosco:

     Se tu se’ desso, io già non ti conosco.

IV.

Non mi ricorda mai più ne’ dì miei,
     Dappoi ch’io fui a Diana consecrata,
     Ch’io vedessi uomo; e volesson gli Dei
     Che ancora tu non m’avessi trovata,
     Nè mai veduta, che ancora sarei
     Da Dïana coll’altre annoverata,
     Dov’or sarò, oimè, da lei sbandita,

     E senza fallo mi torrà la vita.

V.

E tu, o giovinetto, il qual cagione
     Sarai della mia morte e del mio danno,
     Come tu sai, senza averne ragione,
     Ti rimarrai senza alcuno affanno:
     Ma sien di me a Diana testimone
     Alberi e fiere che veduta m’hanno,
     Com’io mi sono a mia forza difesa,
     E come tu per forza m’hai offesa.

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VI.

Ed io fanciulla pura ed innocente
     Son da te stata ingannata e tradita:
     Ma di questo peccato veramente
     M’assolverò, togliendomi la vita
     Con le mie mani; e poi che del presente
     Mondo sarò tapina dipartita,
     Ti rimarrai contento, nè giammai,

     Lassa, di me non ti ricorderai.

VII.

Affrico allora l’abbracciava stretta,
     E lacrimando disse: oimè tapino!
     Non creder che giammai così soletta
     Io ti lasciassi, dolce amor mio fino,
     Ma vo’ che per mio amor tu mi prometta
     Di levar via questo pensier meschino,
     O pria di te la vita mi torroe,

     Sicchè di dietro a te non rimarroe.

VIII.

Io non potre’ giammai stare diviso
     Da te, dolce mio bene: e poi baciando
     La bella bocca e l’angelico viso,
     E colla mano i begli occhi asciugando,
     Diceva: veramente in paradiso
     Tu fusti fatta; e i capelli spianando
     Giva dicendo: mai sì be’ capelli
     Non fur veduti, tanto biondi e belli.

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IX.

Benedetto sia l’anno e ’l mese e ’l giorno,
     E l’ora e ’l punto ed anche la stagione
     Che fu creato questo viso adorno,
     E l’altre membra con tanta ragïone,
     Che chi cercasse il mondo intorno intorno,
     E nel cielo anche tra la regïone
     Delle Iddee sante, non porria trovarsi

     Una ch’a te potesse mai agguagliarsi.

X.

Tu se’ viva fontana di bellezza,
     E d’ogni bel costume chiara luce:
     Tu se’ adatta e piena di franchezza,
     Tu se’ colei in cui sol si riduce
     Ogni virtù e ogni gentilezza,
     E quella che la mia vita conduce:
     Tu se’ vezzosa, e se’ morbida e bianca,

     E niuna bella cosa non ti manca.

XI.

Dunque, deh! non voler, Mensola mia,
     Guastare una sì bella e tanta cosa
     Chente tu se’, con tua malinconia
     Nè con niun’altra cosa iniquitosa:
     Ma da te caccia ogni rio pensier via,
     E non istar con meco più crucciosa,
     Ch’esser non può non fatto quel ch’è fatto,
     Perch’io con teco ancor fussi disfatto.

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XII.

Però ti prego che tu ora facci
     Sì come savia, e di questi partiti
     Il miglior prendi, e gli altri da te cacci;
     E gli spiriti tuoi ispauriti
     Conforta un poco, e fa’ che tu m’abbracci,
     E bacia me con baci saporiti,
     Anima mia, sì com’io bacio te;

     Prendi diletto se tu vuoi di me.

XIII.

Amor legava tuttavia il core
     Colle parole ch’Affrico diceva
     Di Mensola, sì che in parte il dolore
     S’era partito, già perchè vedeva
     Ch’altro esser non potea, e poi l’amore
     Ch’ad Affrico portò, quando credeva
     Che ninfa fosse, or più forte s’incende

     Quando le sue dolci parole intende.

XIV.

E per volerlo in parte contentare
     Gli gittò al collo il suo sinistro braccio,
     Ma non lo volle ancor però baciare,
     Forse parendole ancor troppo avaccio
     Di doversi con lui sì assicurare,
     E disse: oimè tapina, ch’io non saccio
     Com’io possa campar, se tal peccato
     Sarà a Dïana giammai palesato.

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XV.

Nè ardirò giammai con ninfa alcuna,
     Com’io solea, nell’acqua più bagnarmi,
     Nè anche, poichè vuol la mia fortuna,
     Dove ne sia alcuna ritrovarmi,
     Che s’elle ciò sapesson, ciascheduna
     Tosto a Dïana andrebbono a accusarmi;
     Onde pur sola mi converrà stare,

     Fuggendo quel che già solea cercare.

XVI.

E ben conosco che s’io m’uccidessi,
     Che ’l mio peccato minor non sarebbe,
     E quel che tu hai fatto non avessi,
     Son molto certa ch’esser non potrebbe:
     E se ’l contradio di questo credessi,
     A quest’ora doman non giugnerebbe
     La vita mia, che di cotal fallenza

     M’arei ben data degna penitenza.

XVII.

Ma poichè i tuoi conforti son sì buoni,
     Che rivolto hanno tutto il mio pensiero,
     E sì legato m’hanno i tuoi sermoni,
     Che ’l mio voler tanto crudele e fiero
     Ho via levato: ma quel che ragioni,
     Di rimanerti meco, a dirti il vero
     Non consentire’ mai, perchè sarebbe
     Mal sopra male, e saper si potrebbe.

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XVIII.

Perchè riconosciuto tu saresti
     Da tutte quelle ninfe che veduto
     Questo di t’hanno, e forse che potresti
     Esser morto da lor, se conosciuto
     Fussi da loro; e creder lor faresti
     Quel che non è ancor da lor saputo,
     Ch’io dirò sempre a chi di lor mi trova,

     Ch’io abbia teco vinta la mia prova:

XIX.

Come che lor compagnia sempre mai
     A giusto mio potere io fuggiroe.
     E prego te, o giovane, che hai
     Toltomi quel che giammai non riavroe,
     Che tu ne vada, e me con questi guai
     Lascia star sola, che ’l me’ ch’io potroe
     Mi passerò, dandomi di ciò pace:

     Deh fallo, io te ne prego, se ti piace.

XX.

Affrico aveva molto ben compreso,
     Per le parole sue, che già il foco
     Amor l’aveva dentro al petto acceso,
     Ma pure ancor si vergognava un poco:
     E poi ch’egli ebbe tutto bene inteso,
     Disse fra sè: prima che d’esto loco
     Mi parta, tu farai meco ragione,
     E farotti cantare altra canzone.

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XXI.

Poi baciandola disse: o saporita
     Dolce mia bocca, cor del corpo mio,
     O faccia bella fresca e colorita,
     Nella quale i’ ho messo il mio disio;
     Tu donna sola se’ della mia vita,
     E amo te più ch’io non faccio Iddio:
     I’ son risuscitato, poi ch’io veggio

     Che pigli il meglio, e lasci andare il peggio.

XXII.

Ma come potre’ io mai sofferire
     Di partirmi da te, che t’amo tanto,
     Che senza te mi pare ognor morire?
     Essendo teco, non so giammai quanto
     Più ben mi possa avere o più disire,
     Ma sallo bene Amore in quanto pianto
     Ista la vita mia la notte e ’l giorno,

     Mentre non veggo questo viso adorno.

XXIII.

E pognam pur che partir mi potessi,
     Come tu di’, mai non sare’ contento
     Che sì malinconosa rimanessi,
     E gissi a mia cagion facendo stento;
     E non so se mai più ti rivedessi,
     Onde la vita mia maggior tormento
     Non sentì mai quant’allor sentirei,
     E più che vita morte bramerei.

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XXIV.

Ma poichè tu non vuoi che io con teco
     Rimanga qui, venir te ne potrai
     Qui presso a casa mia: con esso meco
     E colla madre mia lì ti starai,
     La qual, mentre che tu starai con seco,
     Sempre come figliuola tu sarai
     Da lei trattata, e da mio padre ancora,

     E potrai d’amendue esser la nuora.

XXV.

Cotesto ancor per nulla non vo’ fare,
     Mensola disse, ch’io teco ne venga
     A casa tua, per voler palesare
     Il mio peccato, e ancora mi convenga
     In questo sì gran mal perseverare:
     Prima la vita mia morte sostenga
     Ch’io vada mai là dove sia persona,

     Poi c’ho perduto sì bella corona.

XXVI.

Io non mi missi a seguitar Dïana
     Per al mondo tornar per niuna cosa;
     Che s’io avessi voluto filar lana
     Colla mia madre, e divenire sposa,
     Di qui sarei ben tre miglia lontana
     Col padre mio, che sopra ogn’altra cosa
     M’amava e volea bene, ed è cinqu’anni
     Che mi fur messi di Dïana i panni.

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XXVII.

Però ti prego, se ’l mio prego vale,
     Per quell’amor che tu ora m’hai detto
     Che fu cagion di far far questo male,
     Che te ne vadi a casa tu soletto,
     Ed io ti giuro per colei, la quale
     Tu di’ che ti ferì per me nel petto,
     Ch’io bramerò la vita per tuo amore,

     Ed amerotti sempre di buon core.

XXVIII.

Se io ’l credessi, disse Affrico allora,
     Che tu facessi quel che mi prometti,
     E che nel cor m’avessi ciascun’ora,
     Andrebbon via alquanto i miei sospetti:
     Ma quel che più m’offende e più m’accora
     Sì è ch’io temo, se ’n questi boschetti
     Ti lascio sola, di mai ritrovarti,

     E però temo senza me lasciarti.

XXIX.

Mensola disse: io verrò molto spesso
     In questo loco, sì che tu potrai
     Meco parlare, e vedermi d’appresso
     Onestamente quanto tu vorrai:
     E certamente quel ch’io t’ho promesso
     Io t’atterrò se tu ci tornerai,
     Però che tu m’hai già mezza legata,
     E parmi esser venuta innamorata.

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XXX.

Affrico quando tai parole intende,
     In fra sè stesso si rallegra molto,
     Veggendo che Amor forte l’accende,
     E che il pensier suo rio avea rivolto:
     Più stretta nelle braccia allor la prende,
     E poi baciando l’angelico volto
     Le disse: intendi un poco mia parola,

     Poichè disposta se’ di star pur sola.

XXXI.

Io vo’, se t’è in piacer, rosa novella,
     Da te una grazia prima ch’io mi parti:
     Tu sai quanto la tua persona bella
     I’ ho bramata, e quanti ingegni ed arti
     Usati ho per averti, o chiara stella;
     Or per piacerti mi convien lasciarti,
     Però ti prego sia di tuo volere

     Ch’io teco prenda un poco di piacere.

XXXII.

E più contento poi mi partirò,
     Poichè pur vuoi ch’io mi parta da te:
     Or dammi la parola, ch’io farò
     Cosa che fia diletto a te e a me:
     E poi doman qui a te tornerò
     A rivederti, perocchè tu se’
     Colei in cui ho messi i miei diletti:
     Deh di’ ch’io prenda gli amorosi effetti.

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XXXIII.

Oimè, dolente, che vuo’ tu più fare,
     Mensola disse, o che altro diletto
     Puo’ tu di me sventurata pigliare,
     Che t’abbi preso? e però, giovinetto,
     Ti prego ch’oramai ne deggi andare,
     Ed io mi rimarrò com’io t’ho detto:
     Tu vedi che del giorno ormai c’è poco,

     E potremmo esser giunti in questo loco.

XXXIV.

Tu sai ben che ’l diletto ch’io ho avuto,
     Di te infino a qui, chent’egli è stato,
     E quel che tra noi due è addivenuto,
     E con quanto dolor s’è mescolato,
     Che ’n verità poco piacer m’è suto;
     Ma or ch’ognun di noi è consolato,
     Sarà ’l nostro diletto assai maggiore,

     E più compiuto e con maggior dolciore.

XXXV.

Deh non volere, o giovane piacente,
     Che sopra ’l mal c’ho fatto i’ faccia peggio:
     Che se io fossi di ciò consenziente
     Grave pena n’avrei, e chiaro il veggio,
     Se mai Dïana ne saprà niente;
     Però di grazia questo don ti cheggio
     Che ti piaccia partir, come che a me
     Non sia forse minor doglia che a te.

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XXXVI.

Anima mia, quel male avrai di questo
     Ch’aver tu dei di quello che abbiam fatto,
     Affrico disse, benchè manifesto
     Non fia a Diana mai questo misfatto,
     Nè a persona mai, onde molesto
     Per questo non arai, che tanto piatto
     È suto, e sì nascoso, che veduti,

     Se non da Dio, non possiamo esser suti.

XXXVII.

E certissima sii che s’io ne voe,
     Senza di te aver niun’altra cosa,
     Per gran dolor tosto me ne morroe.
     Deh sii un poco inverso me pietosa:
     E una volta e due la ribacioe,
     Dicendo: or bacia me, o fresca rosa:
     Assicurati meco, e prendi gioia,

     E non voler che per amarti io muoia.

XXXVIII.

Molte lusinghe e molte pregherie,
     Più ch’io non dico ben per ognun cento,
     Affrico fece a Mensola quel die,
     Baciandole la bocca il viso e il mento
     Sì forte, che più volte ella stridie,
     Come che ciò le fosse in piacimento:
     Ancor la gola le baciava e il seno,
     Il qual pareva di viole pieno.

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XXXIX.

Qual torre fu giammai sì ben fondata
     In su la terra, ch’essendo ella suta
     Da tanti colpi percossa e scalzata,
     Poi non si fusse piegata o caduta?
     O qual fu quella mai sì dispietata,
     Col cor d’acciaio che non fusse arrenduta
     Per le lusinghe d’Affrico e al baciare,

     Che arebbon fatto le montagne andare?

XL.

Mensola che d’acciaio non avea il core,
     S’era gran pezzo scossa e ancor difesa,
     Ma non potendo alle forze d’Amore
     Resister, fu da lui legata e presa;
     Ed avendo ella il suo dolce sapore
     Prima assaggiato con alquanto offesa,
     Pensò portar quel poco del martire

     Mescolato con sì dolce disire.

XLI.

E tant’era la sua simplicitade,
     Che non pensò che altro ne potesse
     Addivenir, come quella che rade
     Fiate, o forse mai nessuna, avesse
     Giammai udito per qual dignitade
     L’uom si creasse, e poi come nascesse:
     Nè sapea che quel tal congiugnimento
     Fosse il seme dell’uomo e il nascimento.

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XLII.

Ella il baciò, e disse: o amor mio,
     Io non so qual destino o qual fortuna
     Vuol pur ch’io faccia tutto il tuo disio,
     Nè vuol ch’io faccia più difesa alcuna
     Contra di te, e però m’arrend’io,
     Come colei che non ha più nïuna
     Forza a poter contastare ad Amore,

     Che per te m’ha ferita a mezzo il core.

XLIII.

Però farai omai ciò che ti piace,
     Che tu puo’ far di me ciò che tu vuoi,
     Poich’i’ ho perduto ogni mia forza audace
     Contro ad Amore, e contro a’ preghi tuoi:
     Ma ben ti prego, se non ti dispiace,
     Che poi ne vadi il più tosto che puoi,
     Che mi par esser tuttavia trovata

     Da mie compagne, e da loro cacciata.

XLIV.

Senti Affrico allora gran letizia,
     Udendo che di ciò era contenta,
     E donandole baci a gran dovizia,
     A quel che bisognava s’argomenta;
     Più da natura che da lor malizia
     Atati s’alzar su le vestimenta,
     Facendo che lor due parevan uno,
     Tanto natura insegnò a ciascheduno.

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XLV.

Quivi l’un l’altro baciava e mordeva,
     Stringendo forte, e chi le labbra prende:
     Anima mia, ciascheduno diceva,
     All’acqua, all’acqua, che ’l fuoco s’accende:
     Macinava il mulin quanto poteva,
     E ciascheduno si dilunga e stende:
     Attienti bene: oimè, oimè, oimè,

     Aiutami, ch’io moro in buona fè!

XLVI.

L’acqua ne venne, e il fuoco si fu spento,
     E ’l mulin tace, e ciascun sospirava:
     E come fu di Dio in piacimento
     Mensola allor d’Affrico ingravidava
     D’un fantin maschio di gran valimento,
     Che di virtute ogn’altro egli avanzava
     Al tempo suo, siccome questa storia

     Più innanzi al fine ne farà memoria.

XLVII.

Il giorno quasi tutto se n’era ito,
     E molto poco si vedea del sole,
     Quando ciascuno ha il suo fatto fornito,
     E preso quel piacer che ciascun vuole:
     Affrico poi ch’avea preso partito
     Di doversene andar, forte si duole,
     E Mensola tenendo fra le braccia,
     Dicea baciando l’amorosa faccia:

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XLVIII.

Maladetta sie tu, o notte scura,
     Tanto invidiosa de’ nostri diletti,
     Perchè mi fai da sì nobil figura
     Partir sì tosto? come ch’io aspetti
     Ancor riaver questa cotal ventura:
     E con cotali e molti altri suo detti
     Quanto poteva il più si dolea forte,

     Parendogli il partir più dur che morte.

XLIX.

Mensola bella tutta vergognosa
     Istava, e parle aver fatto gran fallo,
     Come che non le fosse sì gravosa,
     Come la prima volta in contentallo:
     E che paruta le fosse la cosa
     Molto più dolce senza rissa il gallo;
     Pur di non esser trovata col frodo

     Avea paura, e parlò in questo modo:

L.

Or non so io che ti possa più fare,
     E che di non partirti abbi cagione,
     Però per lo mio amor ti vo’ pregare,
     Dapoi che interamente tua intenzione
     Da me ha’ avuta, te ne deggi andare
     Senza far meco più dimoragione,
     Perchè sicura non mi terrò mai,
     Se non quando tu gito ne sarai.

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LI.

Come io veggo menare una foglia,
     Le mie compagne mi credo che sieno:
     Però il partir da me non ti sia doglia,
     Che sopra me le colpe tornerieno.
     Come che sia ’l partir contro mia voglia,
     Pur io ’l consento perchè ’l mal sia meno;
     E perchè si fa sera, e noi abbiano

     Andar di qui assai ciascun lontano.

LII.

Ma dimmi prima, giovane, il tuo nome,
     Che accompagnata mi parrà con esso
     Esser, e più leggier mi fien le some
     D’amor, che non sarien sendo senz’esso.
     Affrico disse: anima mia, or come
     Potrò io viver non sendoti presso?
     E ’l nome suo le disse e fece chiaro,

     E mille volte insieme si baciaro.

LIII.

Io non potrei giammai raccontar quante
     Fiate fur per partirsi i due amanti,
     Nè i baci e le parole, che fur tante
     Che non si potrien dire in mille canti,
     Ma puollo ben saper ciascun amante
     Se di questi piaceri ebbe mai tanti,
     E che gran doglia sia e che martire
     Il partirsi da sì dolce disire.

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LIV.

E’ si baciaron non solo una volta
     Ma più di mille; e poi che dipartiti
     S’erano un poco, indietro davan volta,
     Dandosi baci a’ visi coloriti:
     Anima mia, perchè mi se’ tu tolta,
     Diceva l’uno all’altro, ed infiniti
     Sospir gittando e partir non si sanno,

     Ma or si partono, or tornano, or vanno.

LV.

Ma poi che vidon che più dilungare
     Non si potea il partir, alle gavigne
     Si presono amendue, ed abbracciare
     Si cominciaro, e l’un e l’altro strigne,
     Che furon presso che per iscoppiare,
     Sì forte amor di pari gli costrigne;
     E così stetton gran pezza abbracciati

     Insieme i due amanti innamorati.

LVI.

Pure alla fine l’un l’altro ha lasciato,
     E per partirsi le man si pigliaro,
     E poi ch’alquanto s’ebbon rimirato,
     Il modo di trovarsi lì ordinaro;
     Così l’un prese dall’altro commiato,
     Sendo a ognuno di lor molto discaro:
     Vaiti con Dio, Mensola mia, addio:
     Va’, che Dio mi ti guardi, Affrico mio.

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LVII.

Affrico se ne giva inverso il piano,
     Mensola al monte su pel colle tira,
     Molto pensosa col suo dardo in mano,
     E del mal fatto forte ne sospira:
     Affrico, ch’era ancor poco lontano
     Da lei, con gli occhi la segue e la mira,
     A ogni passo indietro si voltava

     A rimirar colei che tanto amava.

LVIII.

Mensola ancora spesso si volgeva
     A rimirar colui che a forza amava,
     E che ferita sì forte l’aveva
     Che poco altro che lui desiderava:
     E l’uno all’altro di lontan faceva
     Ispesso cenni ed atti e salutava,
     Infin che non fu lor dal bosco folto

     E dalle coste e ripe il mirar tolto.

LIX.

Affrico si tornò dove nascoso
     Aveva il suo vestir quella mattina,
     E quivi giunto, senz’altro riposo
     Si vestì la gonnella masculina:
     Poi verso casa si tornò gioioso,
     E giunto là, la veste femminina
     Ripose nel suo luogo, che la madre
     Non se ne accorse nè ancora il padre.

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LX.

E come che assai malinconia
     Avesse avuto il giorno Giraffone
     Ed Alimena, mirando la via
     Se ritornar vedeano il lor garzone,
     Quando da lor tornato si vedia
     Amendue n’ebbon gran consolazione,
     E domandarlo, perchè tanto stato

     Fosse, che a casa non era tornato.

LXI.

Molte bugie e scuse Affrico fece
     Per ricoprir l’occulto suo disire,
     Il qual più che non fa ’l fuoco la pece
     L’ardeva più che mai a più mentire;
     E pareagli aver fatto men ch’un cece,
     E fra sè stesso incominciava a dire:
     Sarà mai domattina, ch’io ritorni

     A baciare il bel viso e gli occhi adorni!

LXII.

Così ogni cosa venia ricordando
     Con seco stesso di ciò ch’avea fatto,
     Molto diletto di questo pigliando,
     Rammentandosi ben di ciascun atto
     Ch’avean insieme fatto: ma poi quando
     Il tempo fu, per dormir n’andò ratto,
     Come che punto dormir non potette,
     Ma tutta notte in tal pensiero stette.