Morgante/Cantare ventesimosettimo

Cantare ventesimosettimo

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Cantare ventesimosettimo
Cantare ventesimosesto Cantare ventesimottavo

 
1   Come posso io cantar più rime o versi,
     Signor, che m’hai condotto a scriver cose
     che per pietà il sol par lacrime versi,
     e già son le sue luce tenebrose?
     Tu vedrai tutti i tuoi cristian dispersi
     e tante lance e spade sanguinose
     che, s’altro aiuto qui non si dimostra,
     sarà pur tragedìa la istoria nostra.

2   Ed io pur comedìa pensato avea
     iscriver del mio Carlo finalmente,
     ed Alcuïn così mi promettea;
     ma la battaglia crudele al presente,
     che s’apparecchia impetüosa e rea,
     mi fa pur dubitar drento alla mente;
     e vo con la ragion qui dubitando,
     perch’io non veggo da salvare Orlando.

3   E benché e’ sia sopraggiunto Rinaldo
     e Ricciardetto, tuttavolta io temo,
     né posso ancor giudicio dar qui saldo,
     che non si vuol conducer mai in estremo.
     Marsilio è tanto cattivo ribaldo
     che e’ farà forza di vela e di remo,
     ché vincere o morir qui gli bisogna,
     se non che il danno abbraccia la vergogna.

4   Orlando, poi che e’ lasciò Buiaforte,
     pargli mill’anni trovar Baldovino,
     che cerca pure e non truova la morte,
     e ricognobbe il caval Vegliantino
     per la battaglia, e va correndo forte
     dove era Orlando, e diceva il meschino:
     - Sappi ch’io ho fatto oggi il mio dovuto,
     e contra me nessun mai è venuto.

5   Molti pagani ho pur fatti morire:
     però quel che ciò sia pensar non posso,
     se non ch’io veggo la gente fuggire. -
     Rispose Orlando: - Tu ti fai ben grosso!
     Di questo fatto s’ tu ti vuoi chiarire,
     la sopravvesta ti cava di dosso:
     vedrai che Gan, come tu te la cavi,
     ci ha venduti a Marsilio per ischiavi. -

6   Rispose Baldovin: - Se il padre mio
     ci ha qui condotti come traditore,
     s’i’ posso oggi campar, pel nostro Iddio,
     con questa spada passerògli il core!
     Ma traditore, Orlando, non sono io,
     ch’io t’ho seguito con perfetto amore.
     Non mi potesti dir maggiore ingiuria. -
     Poi si stracciò la vesta con gran furia,

7   e disse: - Io tornerò nella battaglia,
     poi che tu m’hai per traditore scorto.
     Io non son traditor, se Dio mi vaglia!
     Non mi vedrai più oggi se non morto. -
     E inverso l’oste de’ pagan si scaglia,
     dicendo sempre: - Tu m’hai fatto torto. -
     Orlando si pentea d’aver ciò detto,
     ché disperato vide il giovinetto.

8   Per la battaglia correa Baldovino,
     e riscontrò quel crudel Mazzarigi,
     e disse: - Tu se’ qui, can saracino,
     per distrugger la gente di Parigi?
     O marran rinnegato paterino,
     tu sarai presto giù ne’ bassi Stigi. -
     E trasse con la spada in modo a questo
     che lo mandò dove egli disse presto.

9   Fece Marsilio, come dotto e saggio,
     uno squadron ristretto di pagani,
     uomini tutti ch’avevon coraggio;
     e cominciorno a strignere i cristiani,
     sì che del campo piglioron vantaggio:
     quivi eran tutti quanti i capitani,
     e sopra tutti un infernal demonio
     ch’io dissi prima, appellato Grandonio.

10 E per ventura trovò Sansonetto
     che combatteva al conte Orlando appresso,
     e cavògli la muffa dall’elmetto,
     ché il capo gli ha come una zucca fesso;
     e come e’ cadde in terra il giovinetto,
     Gualtieri da Mulion quivi s’è messo
     per vendicar, se potea, la sua morte;
     ma non potea, ché non è tanto forte.

11 Ulivier s’accostòe con Altachiara
     e trasse al saracin di molte botte,
     che col bastone ogni cosa ripara,
     ed aveva a Gualtier le spalle rotte,
     tanto che e’ cadde per la pena amara
     e innanzi vespro gli parve di notte:
     sì che Grandonio col baston fa fiacco,
     che par quel d’Ercul quando uccise Cacco.

12 Orlando in altra parte combatteva,
     e Sansonetto non avea veduto;
     ed Ulivieri alla fine ne leva,
     tal che bisogna a questa volta aiuto,
     perché la scrima nïente valeva.
     Intanto quivi Marsilio è venuto,
     e mentre innanzi il suo cavallo sprona,
     si riscontrò col signor di Baiona.

13 Angiolin non aveva in man la lancia,
     sì che Marsilio allo scudo gli porse
     un colpo tal che gli passa la pancia.
     Orlando, poi che in più luoghi soccorse,
     di qua, di là, la sua gente di Francia,
     di Sansonetto alla fine s’accorse,
     e domandò Terigi ove sia quello:
     non sa che morto è questo meschinello.

14 Disse Terigi: - E’ combatteva dianzi
     dove tu vedi quella gente stretta. -
     Orlando sprona Vegliantino innanzi,
     e dove e’ vede il marchese si getta,
     ch’era già al resto, all’ultimo e gli avanzi,
     però ch’e’ v’era corso con gran fretta
     Marsilio e l’Arcaliffa e Zambugeri,
     e tutti son dintorno a Ulivieri.

15 Quando Orlando Ulivier vide soletto,
     maravigliossi che e’ si difendea;
     e Vegliantin gli metteva sospetto,
     perché più oltre passar non volea
     per non porre i pie’ addosso a Sansonetto.
     Ma quando Orlando lo ricognoscea,
     gridò: - Fortuna, tu m’hai fatto torto! -
     Disse Ulivier: - Questo ghiotton l’ha morto. -

16 Quando Grandonio questo gergo intese,
     e’ si fuggì che non fuggì mai vento;
     Marsilio e gli altri lasciorno il marchese,
     perché tutti d’Orlando hanno spavento.
     Orlando, poi che del cavallo scese,
     di Sansonetto facea gran lamento;
     poi lo cavò tra quella gente morta,
     sì che Terigi al padiglion nel porta.

17 Astolfo andava pel campo scorrendo,
     e riscontrossi con re Balsamino;
     e finalmente, l’un l’altro ferendo,
     un colpo trasse quel can saracino
     un tratto ’Astolfo, non se n’avvedendo,
     che la spada gli entrò pel gorzarino
     e rïuscì di drieto per la nuca,
     tanto che morto lo mandò alla buca.

18 Poi riscontrò quel pagan maladetto
     nella battaglia Angiolin di Bellanda,
     e con un colpo gl’intronò l’elmetto
     e come morto per terra lo manda.
     Intanto quivi giugnea Ricciardetto,
     ed Angiolino a lui si raccomanda,
     e per l’angoscia a fatica favella;
     e Ricciardetto lo ripose in sella.

19 Orlando aveva morto Chiarïello
     in questo tempo, re di Portogallo,
     e Fieramonte accompagnato ha quello;
     e in quella parte rivolse il cavallo.
     Astolfo giacea morto, il meschinello;
     Avino aveva veduto cascallo
     e veniva a cercar di far vendetta,
     ma non poteva aprir la calca stretta.

20 Orlando giunse e con gran furia aprilla,
     e fe’ de’ saracin di sangue un golfo,
     ché Durlindana ogni volta sfavilla,
     tanto che acceso si sarebbe il zolfo;
     e parve un toro bravo quando assilla,
     quando e’ vedeva in su la terra Astolfo:
     ché sempre amato assai l’aveva in vita;
     e pensa pur come la cosa è ita.

21 E ben cognobbe come Balsamino
     ucciso aveva il duca d’Inghilterra.
     Intanto si fe’ incontra il saracino,
     ed una punta per modo disserra
     ch’egli arebbe forato il serpentino;
     ma questa volta la scrima sua erra,
     però che Orlando nella prima giunta
     con Durlindana gli levò la punta;

22 e non gli aveva Chiron insegnato
     tanto che basti, ch’ogni scrima è invano:
     Orlando aveva l’occhio in ogni lato
     e terminò di tagliargli la mano,
     e trasse un colpo in modo misurato
     che Balsamin non se lo truova sano:
     perché le dita gli tagliava tutte,
     salvo che al primo resta il gammautte;

23 e non potrà, se volessi fare ora,
     levar più d’un con la mano, o dir sette
     al giuoco delle corna o della mora,
     o nasconder più in quella le buschette.
     Avin soggiunse, e con la spada ancora
     un vecchio colpo all’elmetto gli dètte,
     tanto che in terra se n’andòe cadavero,
     ché il capo gli spiccò come un papavero.

24 Rinaldo ritrovò quel Buiaforte,
     al mio parer, che sarebbe scoppiato
     se non avessi trovato la morte;
     e come e’ gli ebbe a parlar cominciato
     del re Marsilio e di stare in sua corte,
     Rinaldo gli rispose infurïato:
     - Chi non è meco, avverso me sia detto! -
     e cominciògli a trassinar l’elmetto,

25 e trasse un mandiritto e due e tre
     con tanta furia, e quattro e cinque e sei,
     ch’e’ non ebbe agio a domandar merzé
     e morto cadde sanza dire «Omèi»:
     e così Buiaforte il peggio fe’;
     e Squarciaferro co’ suoi farisei,
     come l’anima uscì del corpo fore,
     parve che un pollo ciuffassi un astore.

26 Ricciardetto era a Rinaldo daccanto,
     e non si potre’ dir quel ch’egli ha fatto;
     e dove e’ crede acquistar gloria o vanto,
     e’ si chiudea come un uccel di ratto,
     benché le starne gli dànno nel guanto.
     E Turpino ancor salta come un gatto
     e non si può tener con cento strambe,
     e spicca nasi, orecchi e mane e gambe.

27 Grandonio aveva trovato un bel giuoco:
     egli aveva un baston come una trave,
     tanto che l’arme e’ le stimava poco;
     e chi l’aspetta, per natura grave,
     un vespro canta che rimanea fioco
     e muto e sordo e smarrisce la chiave.
     Ma tanto infine poi s’andò aggirando,
     ch’un tratto pur l’ha ritrovato Orlando,

28 e gridò: - Guârti, ghiotton maladetto,
     che d’aver morto non ti vanterai
     il mio più caro amico Sansonetto,
     ma nello inferno la istoria dirai.
     Non mi potevi far maggior dispetto!
     Can, fi’ di can, tu te ne penterai!
     Volgiti a me; dunque tu vuoi fuggire?
     Cocchin pagliardo, e’ ti convien morire. -

29 Grandonio, perché Orlando avea veduto,
     volse fuggir, ché morto giudicossi,
     e per paura ogni orgoglio è caduto.
     Ma innanzi a Vegliantin fuggir non puossi,
     ché tigre o pardo, anzi un uccel pennuto
     non credo a tempo a questa volta fossi;
     parea che il suo signor quello intendessi
     che Sansonetto vendicar volessi.

30 E se fussi in quel punto lo iddio Marte
     per aiutar Grandonio in terra sceso,
     armato in sul caval da ogni parte,
     e’ non l’arebbe alla fine difeso
     né per sua deïtà né forza o arte:
     tanto si tien di Sansonetto offeso
     Orlando, che la spada aveva stretta,
     gridando forte ancor: - Malfusso, aspetta! -

31 E come il saracin fermo si volse,
     alzò la spada in alto quanto e’ puote
     e sopra l’elmo a traverso gli colse,
     tanto che tutte divide le gote
     e ’l petto e ’l corpo, onde l’anima sciolse;
     e poi la spada la sella percuote,
     sì che pel mezzo ricise il cavallo.
     Ma Vegliantin fe’ questa volta fallo:

32 perché la spada con tal forza viene
     che bisognòe per forza inginocchiarsi,
     tanto che quasi si ruppe le rene;
     e non poteva alla fine rizzarsi,
     ché Durlindana confitta lo tiene,
     ch’un braccio e mezzo si vide ficcarsi
     in su ’n un sasso che sotterra truova:
     per la qual cosa Vegliantin giù cova.

33 E con fatica Orlando la ritrasse,
     e gridòe: - Vegliantin, che hai tu fatto? -
     tal che e’ parve il caval si vergognasse,
     e saltò in quattro destro come un gatto.
     Credo che il Cielo Orlando suo aiutasse
     per grazia, come e’ fe’ già più d’un tratto,
     ch’aiuta sempre i buon quando e’ bisogna:
     però non sia quel ch’io dico menzogna.

34 Orlando fe’ da Grandonio partita
     per la battaglia sospirando forte,
     ché non aveva renduto la vita
     a Sansonetto però la sua morte;
     e parea quando l’orsacchia accanita
     abbatte i rami e sforza le ritorte
     ed ogni cosa si reca in dispetto;
     e gran vendetta fe’ di Sansonetto.

35 E per ventura Marsilio vedea,
     ed una lancia a un pagano arrappa,
     ché il cor con essa passar gli volea.
     Ma intanto un altro dinanzi gl’incappa,
     sì che la lancia nel petto giugnea,
     tal che di drieto rïesce la nappa
     e passa il corpo a un altro e la milza:
     e così fece di due una filza.

36 Poi disse al re Marsilio: - Il tempo è giunto
     a punir te dell’opere tue ladre,
     perché tu meritasti un capresto unto
     mentre tu eri in corpo di tua madre. -
     Ma Zambuger, che intese il caso appunto,
     volle coprir con lo scudo il suo padre;
     ma Durlindana il trattò come ghiaccio,
     sì che lo scudo gli tagliava e il braccio.

37 Zambuger cadde per la pena in terra,
     e calpestato fu poi, meschinello:
     il qual, nuovo tiron, questa volta erra,
     però ch’egli era un semplicetto agnello
     con un bravo leon ch’ognuno atterra.
     Marsilio sparì via come un uccello
     o come cervio spaventato in caccia;
     e Zambuger non farà più alle braccia.

38 Fece Marsilio del braccio cercare,
     acciò che questa reliquia devota
     per le moschee si potessi mostrare:
     non so s’ognun che legge intende e nota;
     e comincia Fortuna a bestemmiare
     che non volgeva a suo modo la ruota,
     Apollin, Belfagor e la sua setta,
     e minacciava di farne vendetta.

39 Ma non so come e’ sarà vendicato,
     ché poco il dì si partì poi da bomba,
     tanto era ancor d’Orlando impaürato:
     credo più tosto vorrebbe una fromba,
     come disse Trason già col suo Gnato
     per trar discosto al sicuro la romba;
     perché quanto è più il traditor sottile,
     tanto più sempre per natura è vile.

40 Un cerchio immaginato ci bisogna
     a voler ben la spera contemplare:
     così, chi intender questa istoria agogna,
     conviensi altro per altro immaginare;
     perché qui non si canta e finge e sogna:
     venuto è il tempo da filosofare;
     non passerà la mia barchetta Lete,
     che forse su Misen vi sentirete.

41 Ma perché e’ c’è d’una ragion cicale
     ch’io l’ho proprio agguagliate all’indïane,
     che cantan d’ogni tempo e dicon male,
     voi che leggete queste cose strane,
     andate drieto al senso litterale
     e troverretel per le strade piane:
     ch’io non m’intendo di vostro anagogico
     o morale o le more o tropologico.

42 In questo tempo il re Margheritonne
     con la sua iscimitarra non ischerza;
     ed avea seco quel gran Sirïonne
     con un baston ch’ognun fugge alla terza:
     per che i cristiani impaüriti sonne
     come il cane al sonaglio della sferza,
     ché si sentia le catene e le palle
     sempre quel dì sopra gli elmi sonalle.

43 Uccise questo Angiolin di Bellanda
     d’una percossa che fu sì crudele
     che ’l capo gli schiacciò come una ghianda,
     e Marco e il suo fratel da San Michele.
     Rinaldo è capitato in quella banda
     per aiutare il suo popol fedele:
     vede costui che menava la mazza
     e molta gente crudelmente ammazza,

44 e grida: - Ah, Saracin, che vuoi tu fare?
     Se’ tu venuto qua con una antenna
     per voler nostre gente mazzicare?
     Volgiti a me, ché la Morte t’accenna. -
     Poi lasciava Frusberta scaricare,
     e spezza l’elmo e truova la cotenna
     e parte il teschio e ’l collo e passa l’omero,
     e divise costui come un cocomero.

45 Margheriton con gran furor si getta
     addosso al prenze, e credette aiutallo;
     Rinaldo il capo pel mezzo gli affetta
     come si parte una noce col mallo;
     poi rovina la spada con gran fretta
     e trovava la testa del cavallo,
     tanto che morto col signor suo cade,
     perché Frusberta non taglia, anzi rade.

46 Bianciardin con gran gente venne avante,
     e Galleran, Mattafirro e Fidasso,
     l’Arcaliffa famoso e Balugante,
     Brusbacca il sire e Malducco di Frasso
     ed alcun capitano ed amirante;
     e cominciossi avvïare un fracasso
     che par che caggi o ruini la torre
     di Babel già, sì ch’ognun quivi corre.

47 Orlando corse alle grida e ’l romore
     e trovò Baldovino, il poveretto,
     ch’era già presso all’ultime sue ore
     e da due lance avea passato il petto;
     e disse: - Or non sono io più traditore! -
     e cadde in terra morto, così detto:
     della qual cosa duolsi Orlando forte,
     e pianse esser cagion della sua morte;

48 e fece al padiglion portarlo via.
     Poi si scagliò dove Rinaldo vide
     che con la spada gran cose facìa,
     e dove il popol de’ pagan più stride
     per la battaglia sanguinosa e ria,
     benché la parte de’ cristian non ride.
     Chi grida: - Carne! - e chi grida: - Vendetta! -
     Verso questo tumulto ognun si getta.

49 Quivi correva il buon duca Egibardo,
     Anselmo, Avino, Avolio e Guottibuoffi
     e Berlinghieri ed Ottone e Riccardo:
     ognun vuol la sua parte degl’ingoffi;
     e Ricciardetto par tanto gagliardo
     che i miglior cavalier parevon goffi;
     e sopra tutto il buon Turpin di Rana
     i saracin come i mattoni spiana.

50 E’ si vedeva tante spade e mane,
     tante lance cader sopra la resta,
     e’ si sentia tante urle e cose strane
     che si poteva il mar dire in tempesta.
     Tutto il dì tempelloron le campane
     sanza saper chi suoni a morto o festa;
     sempre tuon sordi con baleni a secco
     e per le selve rimbombar poi Ecco.

51 E’ si sentiva in terra e in aria zuffa,
     perché Astarotte, non ti dico come,
     e Farferello ognun l’anime ciuffa:
     e’ n’avean sempre un mazzo per le chiome,
     e facean pur la più strana baruffa,
     e spesso fu d’alcun sentito il nome:
     - Lascia a me il tale: a Belzebù lo porto. -
     L’altro diceva: - È Marsilio ancor morto?

52 E’ ci farà stentar prima che muoia.
     Non gli ha Rinaldo ancor forbito il muso,
     che noi portian giù l’anima e le cuoia? -
     O Ciel, tu par’ questa volta confuso!
     O battaglia crudel, qual Roma o Troia!
     Questa è certo più là che al mondano uso.
     Il sol pareva di fuoco sanguigno,
     e così l’aire d’un color maligno.

53 Credo ch’egli era più bello a vedere
     certo gli abissi, il dì, che Runcisvalle:
     ch’e’ saracin cadevon come pere
     e Squarciaferro gli portava a balle;
     tanto che tutte l’infernal bufere
     occupan questi, ogni roccia, ogni calle
     e le bolge e gli spaldi e le meschite,
     e tutta in festa è la città di Dite.

54 Lucifero avea aperte tante bocche
     che pareva quel giorno i corbacchini
     alla imbeccata, e trangugiava a ciocche
     l’anime che piovean de’ saracini,
     che par che neve monachina fiocche
     come cade la manna a’ pesciolini:
     non domandar se raccoglieva i bioccoli
     e se ne fece gozzi d’anitroccoli!

55 E’ si faceva tante chiarentane
     che ciò ch’io dico è disopra una zacchera,
     e non dura la festa mademane,
     crai e poscrai e poscrigno e posquacchera,
     come spesso alla vigna le romane;
     e chi sonava tamburo, e chi nacchera,
     baldosa e cicutrenna e zufoletti,
     e tutti affusolati gli scambietti.

56 E Runcisvalle pareva un tegame
     dove fussi di sangue un gran mortito,
     di capi e di peducci e d’altro ossame
     un certo guazzabuglio ribollito,
     che pareva d’inferno il bulicame
     che innanzi a Nesso non fusse sparito;
     e ’l vento par certi sprazzi avviluppi
     di sangue in aria con nodi e con gruppi.

57 La battaglia era tutta paonazza,
     sì che il Mar Rosso pareva in travaglio,
     ch’ognun per parer vivo si diguazza:
     e’ si poteva gittar lo scandaglio
     per tutto, in modo nel sangue si guazza,
     e poi guardar come e’ suol l’ammiraglio
     ovver nocchier se cognosce la sonda,
     ché della valle trabocca ogni sponda.

58 Credo che Marte di sangue ristucco
     a questa volta chiamar si potea;
     e sopra tutto Rinaldo era il cucco,
     che con la spada a suo modo facea.
     Orlando intanto ha trovato Malducco,
     che Berlinghieri ed Otton morto avea:
     ma questa morte gli saprà di lezzo,
     ché Durlindana lo tagliò pel mezzo.

59 Ed Ulivier riscontrava Brusbacca
     che per lo stormo combatteva forte,
     e ’l capo e l’elmo a un tratto gli fiacca;
     ma non sapea ch’egli ha presso la morte:
     ché l’Arcaliffa intanto di Baldacca
     lo sopraggiunse, per disgrazia o sorte,
     a tradimento, e la spada gli mise
     nel fianco sì che alla fine l’uccise.

60 Ulivier, come ardito, invitto e franco,
     si volse indrieto, e vide il traditore
     che ferito l’avea dal lato manco,
     e gridò forte: - O crudel peccatore,
     a tradimento mi désti nel fianco
     per riportar come tu suoli onore:
     questa sia sempiterna egregia lalde
     del re Marsilio e sue gente ribalde. -

61 E trasse d’Altachiara con tanta ira
     che gli spezzò l’elmetto e le cervella,
     sì che del saracin l’anima spira,
     ché tutto il fésse insino in su la sella;
     e come cieco pel campo s’aggira
     e con la spada percuote e martella,
     ma non sapea dove e’ si meni il brando;
     e non vorrebbe anche saperlo Orlando.

62 Orlando aveva il marchese sentito,
     e come il veltro alle grida si mosse.
     Ulivier tanto sangue gli era uscito
     che’ non vedeva in che luogo e’ si fosse;
     tanto che Orlando in su l’elmo ha ferito,
     che non sentì mai più simil percosse,
     e disse: - Che fai tu, cognato mio?
     Ora hai tu rinnegato il nostro Iddio? -

63 Disse Ulivier: - Perdonanza ti chieggio
     s’io t’ho ferito, o mio signore Orlando:
     sappi che più nïente lume veggio,
     sì ch’io non so dove io mi meni il brando,
     se non che presso alla morte vaneggio,
     tanto sangue ho versato e vo versando;
     ché l’Arcaliffa m’ha ferito a torto,
     quel traditor; ma di mia man l’ho morto. -

64 Gran pianto Orlando di questo facea,
     perché molto Ulivier gli era nel core
     e la battaglia perduta vedea,
     e maladiva il pagan traditore.
     Ed Ulivier, così orbo, dicea:
     - Se tu mi porti, come suoli, amore,
     menami ancor tra la gente più stretta:
     non mi lasciar morir sanza vendetta. -

65 Rispose Orlando: - Sanza te non voglio
     viver quel poco che di vita avanza:
     io ho perduto ogni ardir, ogni orgoglio,
     sì ch’io non ho più di nulla speranza;
     e perch’io t’amo, Ulivier, come io soglio,
     vienne con meco a mostrar tua possanza:
     una morte, una fede, un voler solo. -
     Poi lo menò nel mezzo dello stuolo.

66 Ulivier, sendo nella pressa entrato,
     come e’ soleva la gente rincalcia,
     e par che tagli dell’erba del prato
     da ogni parte menando la falcia,
     ché combatteva come disperato
     e pota e tonda e scapezzava e stralcia,
     e in ogni luogo faceva una piazza,
     ché come gli orbi girava la mazza.

67 E tanto insieme per lo stormo vanno
     Orlando ed Ulivier ferendo forte,
     che molti saracin traboccar fanno.
     Ma Ulivier già presso era alla morte;
     e poi che il padiglion ritrovato hanno,
     diceva Orlando: - Io vo’ che ti conforte:
     aspetta, Ulivier mio, che a te ritorno,
     ché in su quel poggio vo a sonare il corno. -

68 Disse Ulivieri: - Omai non ti bisogna:
     l’anima mia da me già vuol partire,
     ché ritornare al suo Signore agogna. -
     E non poté le parole espedire,
     come chi parla molte volte e sogna,
     e bisognòe quel che e’ voleva dire
     per discrezion intender: che Alda bella
     raccomandar volea, la sua sorella.

69 Orlando, sendo spirato il marchese,
     parvegli tanto solo esser rimaso
     che di sonar per partito pur prese,
     acciò che Carlo sentissi il suo caso;
     e sonò tanto forte che lo intese,
     e ’l sangue uscì per la bocca e pel naso,
     dice Turpino, e che il corno si fésse
     la terza volta ch’a bocca sel messe.

70 Il caval d’Ulivier nïente aspetta
     e ritornò nel campo tra’ pagani
     come chi fa del suo signor vendetta;
     e morde per tre lupi e per sei cani,
     e molta gente co’ calci rassetta
     e con le zampe s’arrosta i tafani.
     Ma Ricciardetto, come vide questo,
     giudicò d’Ulivieri il caso presto.

71 Rinaldo la battaglia ancor teneva.
     Balugante e Marsilio era fuggito,
     il qual con Bianciardin fece alto leva
     come il corno d’Orlando ebbe sentito;
     e drento nella mente si rodeva,
     ché del suo Zambuger nulla ha udito,
     qual per febbre leon si rode in gabbia:
     dunque giusto martìr par la sua rabbia.

72 Era tanto il terror ch’avean d’Orlando
     i saracin, che assai fuggiti sono
     per la campagna e per le selve quando
     sentito fu questo terribil suono.
     Dice Turpin che per l’aria volando
     molti uccelli stordirono a quel tuono,
     e maraviglia non fu Carlo udissi,
     ch’e’ si pensò che la terra s’aprissi.

73 Or quel che fece allo estremo Rinaldo
     non ardisce narrar più la mia penna:
     ché pareva un serpente irato in caldo,
     e questo e l’altro e poi quello scotenna
     e ributtava quel popol ribaldo,
     e non sapea del marchese di Vienna;
     e rompe e fiacca e sdruce e smaglia e straccia,
     e con gran furia innanzi se gli caccia.

74 Baiardo ritto le zampe menava,
     e come l’orso fa scostare i cani;
     talvolta un braccio o la coscia ciuffava
     e sgretola quelle ossa de’ pagani
     come pan fresco che allotta si cava:
     non fur tanto crudel mai tigri ircani;
     con tanta rabbia mordeva e dimembra,
     tanto che Ecùba forsennata sembra.

75 E Ricciardetto facea cose ancora
     che l’aüttor che le vide nol crede:
     egli avea fatto pel campo una gora;
     beato a chi potea studiare il piede,
     ché non uccide, anzi proprio divora:
     non fe’ pirrato di bestie mai prede
     qual fa costui de’ saracini il giorno,
     tanto ch’ognun gli spariva dintorno.

76 Dicemi alcun che la istoria compila,
     tra Rinaldo e Baiardo e Ricciardetto
     che n’uccison quel dì ben trenta mila:
     non so s’è vero o falso: io l’ho pur detto.
     Pensa che Orlando n’uccise una fila,
     ed Ulivieri, Anselmo e Sansonetto.
     Ma la spada del Ciel qui mi bisogna,
     che a torto il ver non riporti vergogna.

77 Chi sa se Miccael qui scognosciuto,
     come altra volta là a Gerusalemme,
     n’uccise il dì quanti egli arà voluto,
     ch’a ogni colpo può segnare un emme?
     Forse che e’ venne a’ cristiani in adiuto
     da quel Signor che nacque in Betleemme,
     il qual tien sempre degli amici cura;
     e la forza del Ciel non ha misura.

78 E bisognava e’ vi ponga le mani,
     ché i cristian son ventimilasecento
     contra secento migliaia di pagani:
     tanto è ch’io ci ho trovato fondamento,
     tutti degni aüttor, modesti e piani,
     che non iscaglion le parole al vento;
     e so che il nostro Turpino ed Ormanno
     iscrivon quel che è vero e quel che sanno.

79 E s’alcun dice che Turpin morisse
     in Runcisvalle, mente per la strozza,
     ch’io proverrò il contrario, e come e’ visse
     insin che Carlo prese Siragozza,
     e questa istoria di sua mano scrisse;
     ed Alcuïn con lui poi si raccozza
     e scrive insino alla morte di Carlo,
     e molto fu discreto ad onorarlo.

80 Dopo costui venne il famoso Arnaldo,
     che molto diligentemente ha scritto,
     e investigòe dell’opre di Rinaldo,
     delle gran cose che fece in Egitto,
     e va pel fil della sinopia saldo
     sanza uscir punto mai del segno ritto:
     grazie che date son prima che in culla;
     ché non direbbe una bugia per nulla.

81 Tornossi Orlando sbigottito in tutto
     al campo, poi che il marchese fu morto,
     come chi torna dal funereo lutto
     alla sua famigliuola a dar conforto;
     o come nave, sperando alcun frutto,
     con gran giattura è ritornata in porto,
     e duolsi ben di sua fortuna acerva,
     ma molto ancor più della sua conserva.

82 Non v’ha trovato il buon duca Egibardo,
     e Guottibuoffi è morto in su la terra,
     Avolio, Avino e Gualtieri e Riccardo:
     però tanto dolor lo strigne e serra
     che si fe’ più che l’usato gagliardo,
     e disse: «Omai questa è l’ultima guerra;
     fammi, Signore, tu allo estremo forte,
     ch’io ti sarò fedele insino a morte».

83 Restava Anselmo e Ricciardetto allora,
     Turpin, Rinaldo, e de’ pagan pur molta
     gente la qual si difendeva ancora,
     benché per tutto è sonato a raccolta.
     Orlando trasse Durlindana fora:
     non so se questa fia l’ultima volta
     (credo che sì, per non tener qui a bada)
     che trarrà fuor questa onorata spada.

84 Gran pianto fecion que’ pochi cristiani
     d’Ulivier che restati erano al campo,
     e cominciorno a straziare i pagani
     e far gran cose all’ultimo lor vampo;
     tal che fuggìen que’ miseri profani
     sanza trovar misericordia o scampo,
     e non è tempo da dire al cul: «Vienne».
     Ma la battaglia è già presso all’amenne.

85 E’ si vedea cader tante cervella
     che le cornacchie faran taferugia;
     chi avea men forate le budella
     pareva il corpo come una grattugia
     o da far le bruciate la padella,
     tanto che falsa sarà la minugia;
     e perché Orlando per grande ira scoppia,
     sempre la furia e la forza raddoppia.

86 E’ si cacciava innanzi quelle torme,
     ch’un superbo leon parea foresto
     che fa tremar con la voce e con l’orme;
     e dice: «In ogni modo fia pel resto
     a questa volta!» e fa svegliar chi dorme,
     anzi forse dormir chi era desto:
     ché viver non volea più con dispetto,
     poi che Ulivieri è morto e Sansonetto.

87 Egli arebbe il dì Cesare in Tessaglia
     rotto, e il Barchino a Transimeno o Canni:
     e’ si sentia rugghiar per la battaglia,
     tanto che un verro par ch’ognuno azzanni,
     e braccia e capi e mani in aria scaglia
     per finir con onor questi ultimi anni:
     ché il tempo è breve e pur la voglia pronta,
     e dolce cosa è vendicar giusta onta.

88 E dove e’ vede la gente s’aggruppa
     come aquila gentil si chiude e serra,
     sì che la schiera sbaraglia e sviluppa
     e tutti gli stendardi caccia in terra.
     Pensa, lettor, come il campo s’inzuppa!
     Alla turchesca si facea la guerra:
     abbatte ed urta e spezza e sbrana e strugge,
     tanto che solo sperar può chi fugge.

89 E’ si vedeva ora a poggia, ora a orza
     la battaglia venirsi travagliando:
     il campo de’ cristian facea gran forza,
     tanto l’alto valor, l’ardir d’Orlando
     folgore par che nulla cosa ammorza;
     ed ogni volta che menava il brando
     e’ rimanea del maestro la stampa,
     tanto che pochi di sua man ne scampa.

90 E non pareva né sorda né cieca
     certo quel dì quella vecchia scagnarda,
     che spesso affila la falce sua bieca,
     po’ raschia l’unghia, e d’Orlando pur guarda;
     talvolta drieto a Rinaldo si reca,
     e fassi quivi a suo modo gagliarda,
     ch’ognun s’appicca ove e’ vede guadagno;
     e Ricciardetto anche fu buon compagno.

91 Rinaldo fece al crudel Gallerano
     un tratto a caso il più bel moncherino,
     perché e’ parea sopra il popol cristiano
     un lupo in selva arrabbiato menino:
     ché gli trovò con Frusberta la mano
     e lo incanto gli fe’ del mal del pino
     e dell’abete e del faggio e del leccio,
     e non vi venne poi sù il patereccio.

92 E benché i saracin fugghino all’erta,
     un macco ne facea da Filistei,
     e quante volte calava Frusberta
     non ne faceva cader men che sei,
     tanto che fia più d’una tomba aperta,
     ché, come dice Benedetto Dei,
     e’ se n’andranno in qualche buco strano
     a sentir sotto come nasce il grano.

93 Mostrava ancor tutto affannato e stanco
     Anselmo pur la sua virtù perfetta;
     ma Mattafirro gli venne dal fianco
     e dètte al suo caval con una accetta,
     tanto che in terra il fece venir manco,
     e poi gli corse addosso con gran fretta,
     e finalmente gli cavò fuor l’elmo:
     e in questo modo uccise il conte Anselmo.

94 Rimontò a caval quel Mattafirro
     colpi menando disperati e forti;
     Rinaldo lo sgridòe poi come un birro,
     dicendo: - Fama a tuo modo riporti
     non altrimenti che Marcello o Pirro,
     uccider sanza elmetto uomini morti. -
     E trasse un tondo di maestro vecchio
     che il capo portò via sopra l’orecchio.

95 E poi trovò nella zuffa Fidasso,
     che faceva il leprone e ’l piccinaco
     tra gente e gente, e va col capo basso
     per la battaglia diguazzando il laco,
     perché e’ sentia di Rinaldo il fracasso,
     che par per Libia indiavolato un draco;
     ma pure un tratto Fidasso fidossi,
     tanto che in terra per sempre acquattossi.

96 Il caval si rizzò di Ricciardetto
     indrieto sì che e’ convien che rovesci,
     e con l’arcion se gli posa in sul petto;
     e’ pagan sotto frugavano a’ pesci
     con lance e dardi; e restava in effetto
     morto, ch’un tratto non potea dir: «Mesci!»,
     se non che Orlando le cinghie e ’l cavallo
     tagliò in un colpo, e poi fece rizzallo,

97 e gridòe: - Ricciardetto, hai tu paura?
     Piglia un altro caval, ché ce n’avanza. -
     E Ricciardetto a saltar s’assicura,
     come de’ paladin sempre era usanza,
     sopra un caval con tutta l’armadura.
     Ma qui resta il valor sanza speranza,
     benché il cor generoso si conforti,
     perché tutti i cristian quasi eran morti.

98 E’ saracin pochi restati sono,
     benché Rinaldo e Turpin gli persegua.
     Ah, Turpin vecchio, ah, Turpin nostro buono!
     Qui non si ragionava or della triegua!
     Bianciardin fuggito era come un tuono,
     Marsilio e Balugante si dilegua,
     e vorrebbon trovar qualche via mozza
     che gli guidi in due passi a Siragozza.

99 Terigi era rimasto per un piede
     in terra avviluppato in certa stretta,
     e il suo signore Orlando non lo vede,
     sì che nel sangue si storce e gambetta
     che pareva un tocchetto di lamprede;
     ma la gente pagana maladetta,
     come io dissi disopra, è già sparita,
     sì che per questo pur campò la vita.

100 Orlando per lo affanno ricevuto
     non potea sostener più l’elmo in testa,
     tanto aveva quel giorno combattuto;
     e perché molto la sete il molesta,
     si ricordòe dove egli avea beuto
     a una fonte, e va cercando questa;
     e ritrovata appiè della montagna,
     quivi soletto si riposa e bagna.

101 Vegliantin, come Orlando in terra scese,
     a’ pie’ del suo signor caduto è morto,
     e inginocchiossi e licenzia gli chiese,
     quasi dicessi: «Io t’ho condotto a porto».
     Orlando presto le braccia distese
     all’acqua, e cerca di dargli conforto;
     ma poi che pure il caval non si sente,
     si condolea molto pietosamente:

102 O Vegliantin, tu m’hai servito tanto!
     O Vegliantin, dove è la tua prodezza?
     O Vegliantin, nessun si dia più vanto.
     O Vegliantin, venuta è l’ora sezza.
     O Vegliantin, tu m’hai cresciuto il pianto.
     O Vegliantin, tu non vuoi più cavezza.
     O Vegliantin, s’io ti feci mai torto,
     perdonami, ti priego, così morto. -

103 Dice Turpin, che mi par maraviglia,
     che come Orlando: - Perdonami - disse,
     quel caval parve ch’aprissi le ciglia
     e col capo e co’ gesti acconsentisse;
     tanto che Orlando riprese la briglia,
     forse pensando che si risentisse:
     dunque Pirramo e Tisbe al gelso o fonte
     a questa volta è Vegliantino e ’l conte.

104 Ma poi che Orlando si vide soletto,
     si volse e guarda inverso la pianura,
     e non vede Rinaldo o Ricciardetto;
     tanto che’ morti gli fanno paura,
     ché il sangue aveva trovato ricetto,
     e Runcisvalle era una cosa oscura;
     e pensi ognun quanto dolor quel porta,
     quando e’ vedeva tanta gente morta.

105 E disse: «O terque, o quaterque beati»,
     come disse il troian famoso ancora,
     «e miseri color che son restati,
     come sono io, insino all’ultima ora!
     Ché, benché i corpi sien per terra armati,
     l’anime son dove Gesù s’onora.
     O felice Ulivier, voi siete in vita:
     pregate or tutti per la mia partita!

106 Or sarà ricordato Malagigi;
     or sarà tutta Francia in bruna vesta;
     or sarà in pianti e lacrime Parigi;
     or sarà la mia sposa afflitta e mesta;
     or sarà quasi inculto San Dionigi;
     or sarà spenta la cristiana gesta;
     or sara Carlo e il suo regno distrutto;
     or sara Ganellon contento in tutto».

107 Intanto vede Terigi apparito,
     che come il tordo pur s’era spaniato,
     e tanto il suo signor cercando è ito
     che finalmente l’avea ritrovato;
     e domandò quel che fusse seguito,
     e dove sia Rinaldo capitato.
     Disse Terigi: - Io non v’ho posto cura. -
     E raccontò poi ben la sua sciagura.

108 Dice la istoria che Orlando percosse
     in su ’n un sasso Durlindana bella
     più e più volte con tutte sue posse,
     né romper né piegar non poté quella,
     e ’l sasso aprì come una scheggia fosse;
     e tutti i peregrin questa novella
     riportan di Galizia ancora esplesso
     d’aver veduto il sasso e ’l corno fesso.

109 Orlando disse: - O Durlindana forte,
     se io t’avessi cognosciuta prima
     com’io t’ho cognosciuta ora alla morte,
     di tutto il mondo facea poca stima
     e non sarei condotto a questa sorte.
     Io t’ho più volte, operando ogni scrima,
     per non saper quanta virtù in te regna,
     riguardata, o mia spada tanto degna. -

110 Or ritorniamo a Rinaldo, che scaccia
     i saracini, e non truova più intoppo,
     che si ritorna, finita la caccia,
     come il can richiamato, di gualoppo,
     ovver segugio indietro per la traccia
     talvolta stanco, faticato e zoppo,
     per la fatica e pel sudore ansando;
     tanto che truova a quella fonte Orlando.

111 Gran festa Orlando al suo cugin facea,
     e domandò come la cosa è ita.
     Rinaldo tutto affannato dicea
     come la gente pagana è fuggita.
     E Ricciardetto e Turpin poi giugnea.
     E per far più la nostra istoria trita,
     dice Turpin che il dì di San Michele
     di maggio fu la battaglia crudele.

112 L’anno correva ottocentesmo sesto,
     dominante il pianeta che vuol guerra;
     e bisognòe che sia mezzo bisesto,
     perché un dì natural sopra la terra
     istette il sole, ond’io non so per questo
     se forse ancor lo astrolago qui erra:
     ciò è la terra lo emisperio nostro,
     ch’i’ non iscriva anche io con bianco inchiostro.

113 Non so chi leggerà come e’ consente
     che tanta gente però morta sia;
     ma perch’io ho quella parola a mente:
     «E Miccael vi farà compagnia»,
     io non credo che Orlando veramente
     avessi simulata la bugia,
     ma che e’ vi fusse il campion benedetto.
     E poi ch’e’ fu di maggio sia ridetto.

114 Sai ch’e’ si dice: «Noi non siàn di maggio»,
     e non si fa così degli altri mesi,
     perché e’ canta ogni uccel nel suo linguaggio
     e l’asin fa que’ suoi ragghi distesi,
     sì che la cosa ridire è vantaggio;
     ma non son tutti i proverbi compresi,
     come a dir che alla mensa non s’invecchia,
     ché poco vive chi molto sparecchia.

115 E per tornare alla materia mia,
     o vero o no, con pace si comporti:
     se Michel venne, il ben venuto sia;
     se non vi venne, e’ basta che son morti:
     colui che scrive istoria o comedìa
     convien che alla scrittura si rapporti
     o grido o fama, e quel ch’e’ truova dica
     in ogni cosa moderna o antica.

116 Or qui incomincian le pietose note!
     Orlando essendo in terra ginocchione,
     bagnate tutte di pianto le gote,
     domandava a Turpino remissione;
     e cominciò con parole devote
     a dirgli in atto di confessïone
     tutte sue colpe e chieder penitenzia,
     ché facea di tre cose conscïenzia.

117 Disse Turpin: - Quale è la prima cosa? -
     Rispose Orlando: - Maiestatis laesae,
     idest in Carlo verba iniuriosa;
     e l’altra è la sorella del marchese
     menata non aver come mia sposa:
     queste son verso Iddio le prime offese;
     l’altra un peccato che mi costa amaro,
     come ognun sa: ch’io uccisi Don Chiaro. -

118 Disse Turpino: - E’ ti fu comandato,
     e piace tanto a Dio la obbedïenzia
     che ti fia facilmente perdonato.
     Di Carlo e della poca riverenzia,
     io so che lui se l’ha sempre cercato.
     D’Alda la bella, se in tua conscïenzia
     sono state tue opre e pensier casti,
     credo che questo appresso a Dio ti basti.

119 Ha’mi tu altro a dir che ti ricordi? -
     Rispose Orlando: - Noi siàn tutti umani,
     superbi, invidïosi, irosi, ingordi,
     accidiosi, golosi e in pensier vani,
     al peccar pronti, al ben far ciechi e sordi;
     e così ho, de’ peccati mondani,
     non aver per pigrizia o mia secordia
     l’opere usate di misericordia.

120 Altro non so, che sien peccati gravi. -
     Disse Turpino: - E’ basta un paternostro
     e dir sol «Miserere» o vuoi «peccavi»,
     ed io t’assolvo per lo uficio nostro
     del gran Cefàs, che apparecchia le chiavi
     per collocarti nello etterno chiostro. -
     E poi gli dètte la benedizione.
     Allora Orlando fe’ questa orazione:

121 O Redentor de’ miseri mortali,
     il qual tanto per noi t’umilïasti
     che, non guardando a’ nostri tanti mali,
     in quella unica Virgine incarnasti
     quel dì che Gabrïel aperse l’ali,
     e la umana natura rilevasti,
     dimetti il servo tuo come a te piace:
     lasciami a te, Signor, venire in pace.

122 Io dico pace dopo lunga guerra,
     ch’io son per gli anni pur defesso e stanco:
     rendi il misero corpo a questa terra,
     il qual tu vedi già canuto e bianco,
     mentre che la ragion meco non erra,
     la carne è inferma e l’animo ancor franco;
     sì che al tempo accettabil tu m’accetti,
     ché molti son chiamati e pochi eletti.

123 Io ho per la tua fede combattuto,
     come tu sai, Signor, sanza ch’io il dica,
     mentre che al mondo son quaggiù vivuto:
     io non posso oramai questa fatica;
     però l’arme ti rendo, ché è dovuto;
     e tu perdona a questa chioma antica,
     ch’a contemplare omai suo uficio parmi
     la gloria tua, e porre in posa l’armi.

124 Porgi, Signore, al tuo servo la mano,
     tra’mi di questo laberinto fori,
     perché tu se’ quel nostro pellicano
     che pregasti pe’ tuoi crucifissori;
     perch’io cognosco il nostro viver vano,
     vanitas vanitatum, pien d’errori,
     ché quanto io ho nel mondo adoperato
     non ne riporto alfin se non peccato,

125 salvo se mai fu nella tua concordia
     di dover col tuo segno militare:
     per questo io spero pur misericordia;
     bench’io non possi Don Chiaro scusare,
     che forse or prega per la mia discordia;
     ma perché tu sol mi puoi perdonare,
     benché a Turpino il dissi genuflesso,
     di nuovo a te, Signor, mi riconfesso.

126 Quando tu ci creasti, Signor, prima,
     perché tu se’ magnalmo e molto pio,
     credo che tu facesti questa stima,
     che noi fussin figliuol tutti di Dio.
     Se quel serpente con sua sorda lima
     Adam tentò, tu hai pagato il fio,
     come magno Signor, non obligato,
     poi che pure era di tua man plasmato;

127 e perdonasti a tutta la natura
     quando tu perdonasti al primo padre;
     e poi degnasti farti sua fattura
     quando tu assumesti in terra madre:
     non so s’io entro in valle troppo oscura:
     dunque proprio i cristian son le tue squadre.
     Io ho sempre difese quelle al mondo:
     aiuta or me tu, mio Signor giocondo.

128 Le legge che in sul monte Sinaì
     tu désti anticamente a Moïsè,
     io l’ho tutte obedite insino a qui
     ed osservata la tua vera fé:
     però, giusto Signor, s’egli è così,
     giustizia fa’ pur con la tua merzé,
     perché a giusto Signor così conviensi
     che le sue petizion giuste ognun pensi.

129 Non entrare in iudicio, Signor, meco,
     ché nel cospetto tuo giustificato
     non sarà alcun se tu non vuoi già teco,
     perché tutti nascemo con peccato,
     e ciò che nasce al mondo nasce cieco,
     se non sol tu nascesti alluminato:
     abbi pietà della mia senettute;
     non mi negare il porto di salute.

130 Alda la bella mia ti raccomando,
     la qual presto per me fia in veste bruna,
     che, s’altro sposo mai torrà che Orlando,
     sia maritata con miglior fortuna.
     E poi che molte cose ti domando,
     Signor, se vuoi ch’io ne chiegga ancor una,
     ricòrdati del tuo buon Carlo vecchio
     e di questi tuoi servi in ch’io mi specchio. -

131 Poi che Orlando ebbe dette le parole
     con molte amare lacrime e sospiri,
     parve tre corde o tre linee dal sole
     venissin giù come mosse da Iri.
     Rinaldo e gli altri stavan come suole
     chi padre o madre ragguarda che spiri,
     ed ognun tanta contrizione avea
     che Francesco alle stimite parea.

132 Intanto, giù per quel lampo apparito,
     un certo dolce mormorio suave,
     come vento talvolta, fu sentito
     venire in giù, non qual materia grave.
     Orlando stava attonito e contrito;
     ecco quell’angel che a Maria disse «Ave»,
     che vien per grazia de’ superni Iddei,
     e disse un tratto: - Viri Galilei. -

133 Poi prese umana forma e in aria stette,
     e innanzi al conte Orlando inginocchiato
     disse queste parole benedette:
     - Messaggio sono a te da Dio mandato,
     e son colui che venni in Nazzarette
     quando il vostro Gesù fu incarnato
     nella Virgine santa, che dimostra
     quant’ella è in Ciel sempre avvocata vostra.

134 E perch’io amo assai la umana prole,
     come piace a Chi fece quel pianeta,
     ti porterò lassù sopra quel sole
     dove l’anima tua fia sempre lieta,
     e sentirai cantar nostre carole;
     perché tu se’ di Dio nel mondo atleta,
     vero campion, perfetto archimandrita
     della sua gregge sanza te smarrita.

135 Sappi che in Ciel fu bene essaminata
     la tua giusta devota orazion latria,
     ch’a tutti i santi e gli angeli fu grata,
     sendo tu cittadin di quella patria;
     e perché la sua insegna hai onorata
     e spento quasi in terra ogni idolatria,
     Iddio t’essaudirà pe’ tuoi gran meriti,
     ché scritti son tutti i tempi preteriti:

136 però che t’ha veduto giovinetto
     a Sutri, ove più volte perturbasti
     la corte del tuo Carlo a tuo diletto,
     e ciò che in Aspramonte adoperasti
     e in Francia e poi in Ispagna, e Sansonetto
     e tanti nella Mecche battezzasti,
     e reducesti al figliuol di Maria
     Gerusalem e Persia e la Soria;

137 e poi che Carlo intorno a Pampalona
     più tempo s’era indarno affaticato,
     venisti, e bisognòe la tua persona,
     ché così era già pronosticato,
     come a Troia d’Acchille si ragiona;
     e poi che e’ fu da Maccario ingannato,
     in Francia andò come fu tuo disegno,
     e racquistòe la sposa insieme e il regno.

138 E Pantalisse e ’l superbo Troiano,
     e ciò che tu facesti per antico,
     Ferraù, Serpentin, di mano in mano,
     notato è tutto; Adastro, il gran nimico,
     e ciò che già nel corno egizïano
     facesti, come a Dio perfetto amico,
     mentre ch’egli era il tuo Morgante teco,
     forse lo spirto del quale è qui meco:

139 il qual nel Ciel ti farà compagnia
     come soleva un tempo fare al mondo,
     perché tu il dirizzasti per la via
     che lo condusse al suo stato giocondo.
     E perch’io intendo la tua fantasia
     poi ch’io dissi «Morgante», io ti rispondo:
     tu vuoi saper di Margutte il ribaldo:
     sappi che egli è di Belzebù giù araldo;

140 e ride ancora, e riderà in etterno
     come solea, ma tu nol cognoscesti,
     ed è quanto sollazzo è nello inferno.
     Or perché a Dio la morte tu chiedesti
     come que’ santi màrtiri già ferno,
     non so se onestamente ti dolesti:
     ché per provarti nella pazïenzia
     ha di te fatta ultima esperïenzia.

141 Vuolsi a Dio inclinar le spalle gobbe
     e dir: «Signor, fammi constante e forte
     a patire ogni pena» come Iobbe,
     «sì ch’io sia obedente insino a morte»;
     il qual, poi che il voler di Dio cognobbe,
     contento fu d’ogni sua afflitta sorte;
     né cosa alcuna più gli era rimasa,
     quando e’ gli fece rovinar la casa;

142 e perché pur la moglie si dolea,
     e’ disse: «Donna mia, ora m’ascolta:
     Dominus dedit: lui data l’avea;
     Dominus abstulit: lui l’ha ritolta;
     sicut Domino placuit, in ea
     factum est: così fatto è questa volta»;
     e poi: «Sit nomen Domini» ebbe detto:
     «il nome del Signor sia benedetto».

143 Ma se tu vuogli ancor nel mondo stare,
     Iddio ti darà ben di nuovo gente,
     e tremerrà di te la terra e ’l mare.
     Ma perché il nostro Signor non si pente,
     que’ che son morti non posson tornare,
     ché tutti son mescolati al presente
     tra gli angeli e tra’ santi benedetti
     e nel numero assunti degli eletti.

144 Non creder che color che son nel Cielo
     volessin ritornar più quaggiù in terra
     e ripor le lor membra al caldo e ’l gelo,
     però che quivi è pace sanza guerra
     e non si muta più cogli anni il pelo;
     ma quel Signor che ’l suo voler non erra,
     ti manderà, poi che tu vuoi, la morte,
     com’io sù torno nella eccelsa corte.

145 Alda la bella, che hai raccomandata,
     tu la vedrai nel Ciel felice ancora,
     appresso a quella sponsa collocata
     che il monte santo Sinaì onora,
     e di gigli e di rose coronata
     che non creò vostro Arïete o Flora;
     e serverà la vesta oscura e ’l velo
     insin che a te si rimariti in Cielo.

146 Carlo pe’ merti suoi devoti e giusti
     confirmato è nel corno della Croce
     con Iosüè, con tutti i suoi robusti,
     d’accordo tutti in Cielo a una voce;
     e tu sarai con lui qual sempre fusti.
     Vedi quel sol, che parea sì veloce,
     che non si cala all’occeàn giù in fretta,
     e già venti ore il tuo signore aspetta.

147 E perché Carlo sarà qui di corto,
     il popol tuo fia tutto seppellito,
     ché e’ si partì da San Gianni di Porto
     come il suon tanto rubesto ha sentito.
     Al traditor che la tua gente ha morto
     perdona pur, ché sarà ben punito.
     E perché Iddio nel Ciel ti benedica,
     piglia la terra, la tua madre antica:

148 però che Iddio Adam plasmòe di questa,
     sì che e’ ti basta per comunïone.
     Rinaldo dopo a te nel mondo resta
     per difender di Cristo il gonfalone;
     e tosto faran sù gli angeli festa
     di Turpin vostro pien d’affezïone,
     e Ricciardetto anche al Signor mio piace.
     Rimanetevi, o servi di Dio, in pace. -

149 Così posto in silenzio le parole,
     si dipartì questo messaggio santo.
     Ognun piangeva, e d’Orlando gli duole.
     Orlando si levò sù con gran pianto
     ed abbracciò Rinaldo quanto e’ vuole,
     Turpino e gli altri; ed adorato alquanto,
     parea proprio Geronimo quel fosse,
     tante volte nel petto si percosse.

150 Era a vedere una venerazione:
     - Nunche dimittis - mormorando seco,
     come disse nel tempio il buon vecchione.
     - O Signor mio, quando sarò io teco?
     L’anima è in carcer di confusïone:
     libera me da questo mondo cieco,
     non per merito già, per grazia intendo;
     nelle tue man lo spirto mio commendo. -

151 Rinaldo l’avea molto combattuto,
     e Turpino e Terigi e Ricciardetto,
     dicendo: - Io son dello Egitto venuto;
     dove mi lasci, o cugin mio, soletto? -
     Ma poi che tempo era tutto perduto,
     inteso quel che Gabrïello ha detto,
     per reverenzia alla fine ognun tacque:
     ché quel che piace a Dio sempre a’ buon piacque.

152 Orlando ficcòe in terra Durlindana,
     poi l’abbracciava e dicea: - Fammi degno,
     Signor, ch’io ricognosca la via piana;
     questa sia in luogo di quel santo legno
     dove patì la giusta carne umana,
     sì che il cielo e la terra ne fe’ segno,
     e non sanza alto misterio gridasti
     «Elì, Elì», tanto martìr portasti. -

153 Così tutto serafico, al ciel fisso,
     una cosa parea transfigurata
     e che parlassi col suo Crucifisso.
     O dolce fine, o anima ben nata,
     o santo vecchio, o ben nel mondo visso!
     E finalmente, la testa inclinata,
     prese la terra come gli fu detto,
     e l’anima ispirò del casto petto;

154 ma prima il corpo compose alla spada,
     le braccia in croce e ’l petto al pome fitto.
     Poi si sentì un tuon, che par che cada
     il ciel, che certo allor s’aperse al gitto;
     e come nuvoletta che in sù vada,
     «In exitu ’Sraël» cantar «de Egitto»
     sentito fu dagli angeli solenne,
     che si cognobbe al tremolar le penne.

155 Poi apparì molte altre cose belle,
     perché quel santo nimbo a poco a poco
     tanti lumi scoprì, tante fiammelle,
     che tutta l’aria pareva di fuoco,
     e sempre raggi cadean dalle stelle;
     poi si sentì con un suon dolce e roco
     certa armonia con sì soavi accenti
     che ben parea d’angelici instrumenti.

156 Turpino e gli altri accesi d’un fervore
     eran, che ignun già non parea più desso:
     perché quel foco dello etterno amore,
     quando per grazia ci si fa sì presso,
     conforta e scalda sì l’anima e ’l core
     che ci dà forza d’oblïar se stesso;
     e pensi ognun quanto fussi il lor zelo
     veder portarne quell’anima in cielo.

157 E dopo lunga e dolce salmodia,
     ad alte voce udîr cantar «Te Deo»,
     «Salve Regina», «Virgo alma Maria»;
     e guardavano in sù, come Eliseo
     quando il carro innalzar vide d’Elia;
     o come tutto stupido si feo
     Moïsè, quando il gran rubo gli apparse;
     insin ch’alfine ogni cosa disparse,

158 sì che di nuovo un altro tuon rimbomba,
     che fu proprio la porta in sul serralla.
     Poi si sentì come un rombar di fromba,
     e pareva di lungi una farfalla:
     ecco apparire una bianca colomba,
     e posossi a Turpino in su la spalla,
     a Rinaldo, a Terigi, a Ricciardetto:
     or qui di gaudio ben traboccòe il petto!

159 Donde Turpino oppinïon qui tenne
     che questa fusse l’anima d’Orlando,
     e ch’e’ la vide con tutte le penne
     in bocca entrargli veramente, quando
     Carlo quel dì poi in Runcisvalle venne
     e che e’ richiese l’onorato brando:
     e bisognòe che Orlando vivo fossi,
     ché innanzi a lui ridendo inginocchiossi.

160 E poi che e’ son così soli rimasi
     Rinaldo e gli altri, dopo lungo pianto,
     e’ s’accordorno i dolorosi casi
     Carlo sentissi, benché e’ venga intanto;
     ma Terigi era come morto quasi
     per gran dolor; pur, riposato alquanto,
     a tutti parve che montassi in sella
     e che portassi la trista novella.

161 Dunque Terigi da lor s’è partito,
     e lascia il suo signore Orlando morto.
     Or ritorniam, ch’io non paia smarrito,
     a Carlo e la sua gente a Piè di Porto;
     che, come il corno sonare ha sentito,
     sùbito parve del suo danno accorto,
     e disse a Namo ed agli altri dintorno:
     - Udite voi com’io sonare il corno? -

162 Questa parola fe’ ch’ognuno ascolta;
     Gan si turbò, ché gli parve sentire.
     Orlando suona la seconda volta.
     Carlo dicea pur: - Questo che vuol dire? -
     Rispose Gan: - Suona forse a raccolta,
     perché la caccia sarà in sul finire.
     Da poi ch’ognun qui tace, io ti rispondo.
     Che pensi tu? Che rovini là il mondo?

163 E’ par che ancor tu non cognosca Orlando,
     tanto che quasi ci hai messo sospetto,
     ch’ogni dì debbe ir pe’ boschi cacciando
     con Ulivieri e col suo Sansonetto.
     Non ti ricorda un’altra volta, quando
     in Agrismonte, sendo giovinetto,
     ogni dì era o con orsi alle mani
     o porci o cervi o cavrïuoli o dani? -

164 Ma poi che Orlando alla terza risuona,
     perché e’ sonòe tanto terribilmente
     che fe’ maravigliare ogni persona,
     Carlo, il quale era a sua posta prudente:
     - Quel corno - disse alla fine - m’intruona
     l’anima e ’l cuore, e fa tremar la mente,
     ed altra caccia mi par che di bosco:
     duolmi che tardi i miei danni cognosco.

165 Io mi son risvegliato d’un gran sogno,
     o Gano, o Gano, o Gan! - tre volte disse.
     - Di me stesso e non d’altro mi vergogno,
     a non creder che questo m’avvenisse.
     D’aiuto e di consiglio è qui bisogno,
     ché s’apparecchian dolorose risse.
     Voi siete, dico, mondi, ma non tutti,
     e parmi or tempo a giudicare a’ frutti.

166 Pigliate adunque questo, traditore.
     Meglio era al mondo e’ non fussi mai suto.
     O scelerato, o crudel peccatore!
     Misero a me, che son tanto vivuto!
     O quanto ha forza un ostinato errore!
     O Malagigi, or t’avess’io creduto!
     Omè, tu eri pur del ver pronostico!
     Ed è ragion se il duol mi par più ostico. -

167 Disse il Danese: - O quante volte, Carlo,
     tel dissi pure, e Salamone e Namo,
     ch’a Siragozza non dovei mandarlo,
     che si vedea quasi scoperto l’amo!
     Ed Ulivier, quando io vidi baciarlo,
     io dissi: «O Giuda, noi ti conosciamo!
     O infamia del mondo e di natura,
     tu sarai infin la nostra sepultura!».

168 Ma tu non fusti da noi consigliato
     com’e’ si conveniva in questo caso,
     perché tu eri in quel tempo ostinato. -
     Intanto Gan si truova sanza naso,
     e come volpe da’ cani è straziato,
     e ’l capo e ’l ciglio pareva già raso;
     e chi gli pela la barba a furore
     - Crucifiggi - gridando - il traditore! -

169 Ma finalmente consigliato fu
     che incarcerato in una torre sia,
     dove si va per molti errori in giù
     e come un laberinto par che stia.
     E perché tempo non è da star più,
     Carlo partì con la sua baronia,
     e serra l’uscio ricevuto il danno;
     e così inverso Runcisvalle vanno.

170 E ben cognobbe che Marsilïone
     era venuto con le squadre armate
     come aveva ordinato Ganellone,
     e la sua gente è in gran calamitate:
     ch’Orlando non sonòe sanza cagione,
     però che in caso di necessitate,
     quando il suon troppo non fussi discosto,
     avea con Carlo quel segno composto.

171 Avea già il sol mezzo passato il giorno
     e cominciava a calare al Murrocco,
     quando Carlo sentì sonare il corno,
     e dipartissi dopo al terzo tocco,
     ché così Namo e gli altri consigliorno
     e tutti i lor pensieri furno a un brocco;
     e perché il tempo parea scarso forse,
     Carlo al suo Cristo all’usato ricorse:

172 O Crucifisso, il qual già, sendo in croce,
     oscurasti quel sol contra natura,
     io ti priego, Signor, con umil voce,
     insin ch’io giunga in quella valle oscura,
     che tu raffreni il suo corso veloce,
     acciò che al popol tuo dia sepultura,
     e che non vadi sì tosto all’occaso:
     non mi lasciare in così estremo caso;

173 non pe’ meriti miei, che non son tali
     che come Iosüè meriti questo,
     ma perché al volo mio son corte l’ali,
     acciò che in Runcisvalle io vadi presto,
     vinchino i preghi giusti de’ mortali,
     sì che più il tuo poter sia manifesto,
     l’ordine dato delle etterne rote,
     tanto ch’io truovi il mio caro nipote. -

174 Fermossi il sol, ch’era turbato prima
     per la pietà del suo popol cristiano,
     per tutto l’universo, in ogni clima;
     e dice alcun, ma par supervacano,
     benché e’ sia aüttor da farne stima,
     che le montagne diventorno piano,
     ché Carlo aggiunse al suo prego ancor questo.
     Ma io qui danno l’aüttore e ’l testo:

175 io me n’andrò con un mio carro a vela
     e giugnerò le lepre e’ leopardi;
     ché in picciol tempo la fama si cela
     degli scrittor, quando e’ son pur bugiardi,
     e rimangonsi al lume di candela
     la sera al fuoco annighittosi e tardi,
     e gente son prosuntüose quelle,
     tanto che Marsia ne perdé la pelle.

176 Basta che Carlo, dette le parole,
     sùbito il prego suo fu essaudito,
     sanza servar più l’ordine che suole
     quel bel pianeta etterno stabilito.
     O clemenzia del Ciel, tu fermi il sole
     a Carlo tuo! O amore infinito!
     O chiaro essemplo che quel dì ci mostra
     quanto Iddio ama la umanità nostra!

177 E cavalcando d’uno in altro monte,
     ecco Terigi doloroso e mesto
     che ne venìa diguazzando la fronte.
     Ma come Carlo ha cognosciuto questo,
     sùbito disse: - O mio famoso conte!
     La sua loquela mi fa manifesto
     ch’a nunzïar quel vien trista novella. -
     Perché e’ pareva un uom di carta in sella.

178 Giunto Terigi, a Carlo inginocchiossi,
     e disse: - O signor mio, tarde venisti:
     sappi ch’Orlando è morto, e più non puossi,
     e tutti i tuoi baron miseri e tristi. -
     Carlo, sentendol, con le man graffiossi.
     Disse Terigi: - Se tu avessi visti
     gli angeli i quali il portorno sù in cielo,
     non che graffiar, non torceresti un pelo.

179 Sappi che e’ chiese la morte lui stesso,
     e nel morir tanta [avea] contrizione
     che dal ciel Gabrïel, quel santo messo,
     venne, e rispose alla sua orazione;
     ed ogni cosa sentavàn dappresso,
     ché tutti savàn quivi ginocchione.
     Pensi ciascun quanto parea soave
     veder quell’angel che per noi disse «Ave».

180 Rinaldo era venuto insin d’Egitto
     e Ricciardetto, e fatto hanno oggi cose
     che il re Marsilio si fuggì sconfitto.
     Tu vedrai le tue gente dolorose
     per Runcisvalle, ognun nel sangue fitto,
     ché son tutte le rive sanguinose:
     non è ignun ch’a veder non lacrimassi;
     e piangon l’erbe ancor, le piante e’ sassi.

181 Io vidi Astolfo morto e Sansonetto,
     che ti sare’ paruto oggi gagliardo,
     tanto che Orlando per questo dispetto
     cacciò per terra a furia ogni stendardo;
     e Berlinghier fu morto, il poveretto,
     Anselmo tuo e ’l valente Egibardo,
     Gualtieri da Mulione, Avolio, Avino;
     non v’è, di tre, campato un Angiolino.

182 L’Arcaliffa ribaldo di Baldacco
     uccise Ulivier nostro a tradimento,
     e prima fe’ della tua gente un macco,
     tanto che molto ci dètte spavento;
     Riccardo cadde morto per istracco,
     Ottone e Guottibuoffi ognun è spento,
     Marco e Matteo del Monte a San Michele:
     non fu battaglia mai tanto crudele.

183 E Baldovin con certa sopravvesta
     oggi pel campo combatteva forte,
     e come e’ si cavòe di dosso questa,
     da un pagan gli fu dato la morte:
     ch’Orlando trasse l’elmetto di testa
     a quel figliuol del Veglio, Buiaforte,
     e intese appunto come il fatto era ito,
     e come Gan fu quel ch’avea tradito.

184 Turpin, Rinaldo e Ricciardetto solo
     campati son di tutta la tua gente:
     il resto è tutto morto dello stuolo;
     e in Runcisvalle gli lasciai al presente,
     però ch’io son venuto quasi a volo
     per recarti novella sì dolente,
     poi che stato non v’è, per mio dolore,
     oggi una lancia che mi passi il core,

185 da poi ch’io ho perduto il signor mio.
     Tanto è che più il tuo Gan non puoi scusarlo,
     e commettesti un gran peccato e rio
     quando a Marsilio lo mandasti, Carlo;
     e se tu vuoi placar nel cielo Iddio,
     fallo squartar. Ma, mentre ch’io ti parlo,
     sappi ch’io sento della morte il gelo -;
     disse Terigi, e poi se n’andò in cielo.

186 Carlo, ascoltata la trista novella
     e Terigi vedendo a’ suoi pie’ morto,
     per gran dolor fu per cader di sella,
     e disse: - Ignun non mi dia più conforto.
     O battaglia per me crudele e fella!
     O re Marsilio, tu m’hai fatto torto:
     ch’io avea fatto, come imperatore,
     pace con teco con sincero core;

187 ma non credetti un re di tanta fama,
     di tanto scettro e monarchia e regno,
     sendo antico proverbio amar chi ama,
     oscurassi così la gloria e ’l segno.
     O Ganellon ch’ordinasti la trama
     e conducesti il mio nipote degno
     in Runcisvalle aspettar la sua morte,
     maladetto sia il dì ch’io t’ebbi in corte!

188 Che faren noi, o Salamone, o Namo?
     O mia fortuna, ove mi guidi o meni?
     in Runcisvalle ove meschini andiamo
     come ciechi smarriti sanza freni?
     O morte, vieni a me, vien’, ch’i’ ti chiamo,
     ché tu se’ più crudel, se tu non vieni;
     ma se tu vieni a mia vita dogliosa,
     tu sarai detta ancor per me pietosa. -

189 Namo diceva, e Salamone ancora:
     - Maraviglia non è se Orlando è morto:
     con questi patti della terra fora
     trasse Iddio Adamo, e non gli è fatto torto;
     tanto un legno il gran mar solca per prora,
     che a qualche scoglio si conduce o porto:
     questa sentenzia è data pria che in fasce,
     che morte è il fin d’ogni cosa che nasce.

190 Veggiam se in questo tempo che ci resta
     qualche cosa ancor far siamo obligati,
     la qual sia proprio all’uom da Dio richiesta,
     ché per bene operar tutti siàn nati
     e d’ogni savio la sentenzia è questa.
     Tu sai ch’io ci ho quattro figliuol lasciati:
     facciàn che’ morti non restino al vento,
     però che il Ciel non ne sare’ contento. -

191 Disse il Danese: - In Runcisvalle andremo,
     la prima cosa, a ritrovare Orlando,
     e tutti i morti poi seppelliremo,
     sì che alle fiere non restino in bando.
     Poi con Rinaldo ci consiglieremo. -
     E così Carlo venien consolando,
     e cavalcavan via d’un buon gualoppo,
     quando e’ trovorno altro cattivo intoppo.

192 Aveva Orlando pel tempo passato,
     come altra volta in molte istorie è detto,
     il Sepulcro di Cristo racquistato;
     ed Ansuïgi, nobil giovinetto,
     con molta gente a guardar fu lasciato,
     sì che dieci anni lo tenne in effetto;
     poi gli fu tolto per forza di lancia,
     ed al presente si tornava in Francia;

193 e riscontrossi nello imperatore.
     Carlo, veggendo la gente venire,
     dubitòe di Marsilio nel suo core
     che nol venissi di nuovo assalire;
     ma non istette molto in questo errore,
     ché la bandiera si vide scoprire
     nel campo bianco con la croce negra,
     per dimostrar vittoria poco allegra.

194 Giunto Ansuïgi, per abbrevïare,
     gli disse come i Mori della Mec
     Gerusalemme vennono a scalare
     di notte, sanza dir salamalec:
     sì che il Sepulcro bisognòe lasciare
     a guardia d’altro che Melchisedec;
     e ch’avea ferma oppinïon che Gano
     a questo fatto tenessi la mano.

195 Disse Carlo: - Tu, Iddio, fa’ la vendetta,
     poi che il Sepulcro in tal modo si ruba!
     Sarebbe mai quel dì che il mondo aspetta,
     quando e’ verrà quella terribil tuba? -
     E ricordossi della poveretta
     afflitta, vecchia e sventurata Eccùba,
     che dopo al pianto d’ogni suo martoro
     ultimamente pianse Polidoro;

196 e disse: - Pazïenzia! - come Giobbe.
     - Or oltre, in Runcisvalle andar si vuole -,
     ché come savio il partito cognobbe
     per non tenere in disagio più il sole,
     il qual non va per le orbite sue gobbe
     per lo eccentrico il dì, come far suole,
     per obbedire il suo Signore e Carlo,
     perché Chi il fece, anche potea disfarlo.

197 E poi che in Runcisvalle andar vogliamo,
     e perché il sole aspetta, come è detto,
     dove era Orlando alla fonte arriviamo
     e Turpino e Rinaldo e Ricciardetto,
     ch’ognun piangeva doloroso e gramo
     e guardavan quel corpo benedetto.
     Ma, come Carlo in Runcisvalle è giunto,
     parve che il cor si schiantassi in un punto.

198 E ragguardava i cavalieri armati
     l’un sopra l’altro in su la terra rossa,
     gli uomini co’ cavalli attraversati;
     e molti son caduti in qualche fossa,
     nel fango in terra fitti arrovesciati;
     chi mostra sanguinosa la percossa,
     chi ’l capo avea quattro braccia discosto,
     da non trovargli in Giusaffà sì tosto;

199 tanti squartati, smozzicati e monchi,
     tante intestine fuor, tante cervella;
     parean gli uomini fatti schegge e bronchi,
     rimasi in istran modi in su la sella;
     tanti scudi per terra e lance in tronchi.
     O quanto gente parea meschinella!
     O quanto fia scontento più d’un padre!
     E misera colei che sarà madre!

200 Carlo piangeva, e per la maraviglia
     gli trema il core e ’l capo se gli arriccia,
     e Salamone strabuzza le ciglia,
     Uggieri e Namo ognun si raccapriccia:
     perché la terra si vede vermiglia
     e tutta l’erba sanguinosa, arsiccia;
     gli arbori, i sassi gocciolavan sangue,
     sì che ogni cosa si potea dir langue.

201 Ma po’ che Carlo ebbe guardato tutto,
     si volse, e disse inverso Runcisvalle:
     - Po’ che in te il pregio d’ogni gloria è strutto,
     maladetta sia tu, dolente valle!
     Che non ci facci più ignun seme frutto,
     co’ monti intorno e le superbe spalle!
     Venga l’ira del Cielo in sempiterno
     sopra te, bolgia o Caina d’inferno! -

202 Ma poi che e’ giunse appiè della montagna
     a quella fonte ove Rinaldo aspetta,
     di più misere lacrime si bagna
     e come morto da caval si getta;
     abbraccia Orlando e quanto può si lagna,
     e dice: - Anima giusta e benedetta,
     ascolta almen dal Ciel quel ch’io ti dico,
     perché pure ero il tuo signor già antico:

203 io benedico il dì che tu nascesti;
     io benedico la tua giovinezza;
     io benedico i tuoi concetti onesti;
     io benedico la tua gentilezza;
     io benedico ciò che mai facesti;
     io benedico la tua gran prodezza;
     io benedico l’opre alte e leggiadre;
     io benedico il seme del tuo padre.

204 E chieggo a te perdon, se mi bisogna,
     perché di Francia tu sai ch’io ti scrissi,
     quando tu eri crucciato in Guascogna,
     che in Runcisvalle a Marsilio venissi
     col conte Anselmo e ’l signor di Borgogna.
     Ma non pensavo, omè, che tu morissi;
     quantunque giusto guidardon riporto,
     ché tu se’ vivo, ed io son più che morto.

205 Ma dimmi, o figliuol mio, dove è la fede
     al tempo lieto già data ed accetta?
     O se tu hai di me nel Ciel merzede
     come solevi al mondo, alma diletta,
     rendimi, se Dio tanto ti concede,
     ridendo quella spada benedetta,
     come tu mi giurasti in Aspramonte
     quando ti feci cavaliere e conte. -

206 Come a Dio piacque, intese le parole,
     Orlando sorridendo in piè rizzossi
     con quella reverenzia che far suole,
     e innanzi al suo signore inginocchiossi
     (e non sia maraviglia, poi che il sole
     oltre al corso del ciel per lui fermossi),
     e poi distese ridendo la mana
     e rendégli la spada Durlindana.

207 Carlo tremar si sentì tutto quanto
     per maraviglia e per affezïone,
     ed a fatica la strinse col guanto.
     Orlando si rimase ginocchione,
     l’anima si tornò nel regno santo.
     Carlo cognobbe la sua salvazione;
     che, se non fussi questo sol conforto,
     dice Turpin che certo e’ sare’ morto.

208 Quivi era ognuno in terra inginocchiato
     e tremava d’orrore e di paura,
     quando vidono Orlando in piè rizzato,
     come avvien d’ogni cosa oltre a natura:
     però ch’egli era in parte ancora armato
     e molto fiero nella guardatura;
     ma perché poi ridendo inginocchiossi
     dinanzi a Carlo, ognun rassicurossi.

209 Poi abbracciâr molto pietosamente
     Carlo e tutti, Rinaldo e Ricciardetto,
     e ragionorno pur succintamente
     della battaglia e d’ogni loro effetto;
     ed ordinossi per la morta gente
     dove fussi il sepulcro e il lor ricetto.
     Ma Carlo un corpo era colmo d’angosce,
     ché tanta gente non si ricognosce,

210 e disse: - O Signor mio, fammi ancor degno,
     fra tante grazie che tu mi concedi,
     ch’io ricognosca in qualche modo o segno
     la gente mia, che quaggiù morta vedi,
     ch’io non so dove io sia né donde i’ vegno;
     e come in Giusaffà, le mane e’ piedi
     e l’altre membra insieme accozza, e mostra
     per carità qual sia la gente nostra. -

211 E poi che furon nella valle entrati,
     trovoron tutti i cristian c’hanno insieme
     i membri appresso e i volti al ciel levati,
     perché questo era d’Adamo il buon seme.
     O Dio, quanti miracoli hai mostrati!
     Quanto è felice chi in te pon sua speme!
     E tutti i corpi di que’ saracini
     dispersi son, co’ volti a terra chini.

212 Ringraziò Carlo Iddio devotamente
     che tante grazie gli avea conceduto.
     Or qui comincia un mar tanto frangente
     di pianto e duol, che non sare’ creduto:
     chi truova il figliuol morto e chi ’l parente,
     amico o frate; e quel ricognosciuto,
     abbraccia il corpo e l’elmo gli dilaccia
     e mille volte poi lo bacia in faccia.

213 Carlo si pose per dolor la mano
     agli occhi, quando Astolfo morto vide,
     e se potessi, come il pellicano
     quando la serpe i suoi nati gli uccide,
     lo sanerebbe col suo sangue umano.
     Così per tutto quel campo si stride:
     Rinaldo piange, Ricciardetto plora;
     pensa se Namo anche piangeva allora!

214 Qui ci bisogna più d’una carretta,
     e tempo non è più tener quel sole
     che per servire al suo Fattore aspetta.
     «O fidanza gentil, chi Iddio ben cole
     (o del nostro Ancisan parola eletta!),
     il ciel tener con semplici parole!».
     O sicuri cristian, gran parte è questa
     di quella fede che v’è manifesta.

215 Credo che quegli Antipodi di sotto
     dubitassin fra lor più volte, il giorno,
     che non fussi del ciel l’ordine rotto,
     ché il bel pianeta non facea ritorno,
     o che e’ fussi quel dì l’ultimo botto,
     e ritornassi all’antico soggiorno
     prima che fussi il gran caòs aperto;
     e in dubbio stessi lo emisperio incerto.

216 E’ se n’andò pure all’altro orizzonte,
     finito un giorno naturale appunto:
     forse la terra pensò che Fetonte
     avessi il carro nuovamente assunto.
     Carlo si stette con sua gente al monte
     la notte insin che il mattin poi fu giunto,
     ed ordinò che la gente cristiana
     portata fussi in parte in Aquisgrana.

217 E molti corpi furno imbalsimati,
     massime tutti que’ de’ paladini;
     ed alcun furno a Parigi mandati
     e per la Francia e per tutti i confini;
     e tanti padri furno sconsolati,
     e tante donne si stracciano i crini,
     e chi la faccia e chi il petto s’infranse,
     ch’Affrica tanto o Grecia mai non pianse.

218 E sopra tutto pianse Alda la bella,
     chiamando sé fra l’altre dolorosa
     d’Ulivieri e d’Orlando, meschinella,
     dicendo: - Omè, quanto felice sposa
     del più degn’uom che mai montassi in sella
     fui alcun tempo, or misera angosciosa!
     Già non invidio sua felice sorte,
     ma increscemi di me insino alla morte.

219 dolce sposo mio, signore e padre,
     or non ti vedrò io più fiero ed ardito,
     quando tu eri armato fra le squadre!
     Non creder che mai prenda altro marito;
     ma sopra il corpo e tue membra leggiadre,
     ché sento in Aquisgran se’ seppellito,
     giurerà come Dido Alda la bella. -
     E così fece a luogo e tempo quella.

220 Carlo fece il sepulcro al suo nipote
     in Aquisgrana, e ’l corpo quivi misse;
     ed onorar lo fece quanto e’ puote
     prima che inverso Siragozza gisse,
     dove poi furon le dolente note;
     e nel sepulcro lettere si scrisse,
     e conteneva in latino idïoma:
     «Uno Iddio, uno Orlando ed una Roma».

221 E tutta Francia pianse il suo campione,
     e spezialmente il popol di Parigi,
     che non pianse più Roma Scipïone;
     e fatte furno essequie in San Dionigi,
     vestite a nero tutte le persone,
     ch’usavan prima a’ morti i panni bigi
     come Pericle fe’ vestir già Atene,
     e parve annunzio di future pene.

222 Astolfo in Inghilterra fu mandato,
     e dice alcun che Ottone era già morto,
     e molto fu nella patria onorato.
     Né Sansonetto gli fu fatto torto,
     anzi un ricco sepulcro ha ordinato
     Carlo a San Gianni, per lui, Piè di Porto.
     E Berlinghieri e gli altri suoi fratelli
     ebbon tutti sepulcri antichi e belli.

223 Ulivier fu seppellito in Borgogna,
     e tutto il popol fe’ di pianger roco.
     Ma perché molte cose dir bisogna,
     a Balugante torneremo un poco,
     che va cercando trovare altra rogna:
     non so se poi il grattar gli parrà giuoco.
     E’ ritrovò la sua gente smarrita,
     ch’era per boschi e montagne fuggita;

224 e terminò tornare in Runcisvalle,
     ché non sapea s’Orlando fussi morto,
     e volea le sue gente sotterralle.
     E come e’ fu in su la montagna scorto
     che voleva calar giù nella valle,
     Rinaldo, come astuto e molto accorto,
     a Carlo disse: - Balugante viene:
     io lo cognosco a’ contrassegni bene.

225 Parmi che in punto tua gente si metta,
     da poi che Iddio per grazia ce lo manda,
     per cominciare a far nostra vendetta. -
     Il perché Carlo sùbito comanda
     che si dovessi armare ognuno in fretta.
     Era apparita l’alba a randa a randa,
     quando la schiera de’ pagan vien giùe
     il terzo dì che la battaglia fue.

226 E consiglioron Salamone e Namo
     e Ricciardetto e Turpino e ’l Danese:
     - O Carlo, poi che condotti qui siamo,
     e piacque sempre a Dio le giuste imprese,
     Balugante e sua gente seguitiamo
     tanto che alfine sien le fiamme accese
     e che si metta a sacco Siragozza,
     e Marsilio s’impicchi per la strozza.

227 E come fe’ Vespasïano e Tito,
     venderen per ischiavi que’ marrani
     a corsari o pirrati in qualche lito,
     perché e’ son peggio che porci o che cani. -
     E così presto si prese partito;
     e com’egli hanno scontrati i pagani,
     e’ cominciorno a gridar: - Carne, carne! -
     e - Morte! - e - Sangue! - ed ogni strazio a farne.

228 Rinaldo il primo calò giù la lancia,
     e grida a Balugante: - Ah, traditore!
     Già non è spenta la gloria di Francia! -
     e morto in terra il metteva a furore,
     se non che il ferro gli striscia la guancia
     e truova un altro pagan peccatore,
     sì che la lancia gli caccia per gli occhi,
     e bisognò che giù morto trabocchi.

229 Carlo aveva quel giorno Durlindana
     e vendicar volea con essa Orlando,
     e dice: - Ben che la mia forza è vana
     respetto al signor tuo, famoso brando,
     non perdonare alla gente pagana,
     ché teco insieme lo vo vendicando;
     e poi che e’ t’ha ridendo a me renduto,
     non è sanza cagion per certo suto. -

230 gloria al secol prisco, o lume, o specchio,
     o difensor della cristiana fede,
     o santo Carlo, o ben vivuto vecchio,
     dell’alta fama di tua stirpe erede,
     tu taglieresti a Malco l’altro orecchio!
     Così fa chi in Gesù si fida e crede;
     e bisognava al mondo tu venissi
     per cavarci di nuovo degli abissi.

231 Balugante transcorse tra’ cristiani
     perché il cavallo a forza Io transporta.
     Carlo, che il vide, con ambo le mani
     alzò la spada, e tanto sdegno il porta
     che disse: - Tu n’andrai fra gli altri cani! -
     tanto che cadde come cosa morta;
     e come Balugante in terra cade,
     sùbito addosso gli fur cento spade.

232 E’ non si vide mai più spade a Roma
     addosso a qualche toro, quando in caccia
     isciolto giù dal plaüstro quel toma
     quando si fa la festa di Testaccia:
     tanto che infine la barba e la chioma
     gli pela alcun, che l’elmo gli dilaccia;
     e chi voleva pur cavargli il core,
     ma non poteva, tanto era il furore.

233 E come Balugante morto fu,
     i saracin fuggivon d’ogni banda;
     e s’io non l’ho qui ricordato più,
     il valoroso Arnaldo di Bellanda
     molti pagani il dì in Cafarnaù,
     anzi più tosto allo inferno giù manda.
     E così fu questa nuova battaglia
     di Balugante un gran fuoco di paglia.

234 Furon costor presto abbattuti tutti,
     o fuggiron per boschi e per campagne;
     e Balugante andò cercando frutti
     che il punson più che ricci di castagne.
     E poi che Carlo gli vide distrutti,
     diterminò di passar le montagne;
     e inverso Siragozza cavalcorno,
     e in ogni luogo i paesi guastorno:

235 a fuoco, a sacco, a morte, in preda, in fuga,
     le donne, i moricini e le fanciulle,
     sanza trovare ignun dove e’ rifuga,
     ammazzavano insin drento alle culle.
     Carlo dicea ch’ogni cosa si struga,
     pur che Marsilio e ’l suo regno s’annulle.
     E così sempre per tutto il vïaggio
     parean corsari in terra a far carnaggio.

236 Hai tu veduto innanzi alla tempesta
     fuggir pastor con le lor pecorelle?
     Così fuggìen la morte manifesta
     quelle gente cacciate meschinelle.
     E insino a Siragozza ignun non resta,
     la notte e ’l giorno sempre in su le selle;
     e passan valle e piagge e colli e monti,
     e in ogni parte fêr tagliare i ponti.

237 Era la Spagna in parte battezzata,
     e inteso di Marsilio i tradimenti,
     e così tutti i mori di Granata,
     molti signor ne furon mal contenti,
     e Siragozza è quasi abbandonata.
     Marsilio v’avea drento poche genti,
     ché in Runcisvalle rimase eran morte,
     tanto che Carlo s’accostòe alle porte.

238 Re Bianciardin, che la novella sente,
     disse a Marsilio: - E’ fia Rinaldo questo. -
     Ma non potevon creder per nïente
     che Carlo fussi venuto sì presto
     ed avessi condotta tanta gente;
     e quel che più diventerà molesto,
     ch’e’ non sapean di Balugante il caso,
     che pel cammino indrieto era rimaso.

239 Atteson tutti a rafforzar le mura.
     Rinaldo a una porta appiccò il fuoco:
     or questo fece alla terra paura,
     tanto che drento entrorno a poco a poco.
     Era la notte nebulosa, oscura:
     pensa, lettor, come egli andava il giuoco!,
     e vento e pioggia e tempesta e furore,
     e tutto il popol levato al romore.

240 Il fuoco era appiccato in molte strade,
     e ’l vento certe fiamme in alto leva,
     e qualche tetto alle volte giù cade,
     e le moschee ed ogni cosa ardeva;
     e luccicar si vedea tante spade
     che Siragozza un inferno pareva.
     Marsilïone non sapea che farsi,
     e certo i suoi partiti erano scarsi;

241 e quando e’ sente gridar - Francia, Francia! -
     e - Carlo, Carlo! -, gli parve che il core
     gli passassi un coltello, anzi una lancia,
     tanto ne prese nel petto terrore:
     perché e’ cognobbe in su ’n una bilancia
     aver la vita e lo stato e l’onore;
     e Bianciardin, tanto mascagna volpe,
     a questa volta purgar le sue colpe.

242 Eran saliti sopra certe torri,
     gridando forte, alcun talacimanno,
     come dicessi: - Accorri! accorri! accorri!
     Aiuta il popol, Macon, mussurmanno! -
     Ma tutte alfine eran bucce di porri,
     ch’ogni cosa n’andava a saccomanno,
     ed urla e strida per tutto si sente
     e pianti assai commiserabilmente.

243 Rinaldo aveva sbarrata la piazza.
     Le donne e le tosette scapigliate
     correvan tutte come cosa pazza,
     ed eran dalle gente calpestate;
     ed ognun grida: - Ammazza, ammazza, ammazza
     queste gente ribalde rinnegate! -
     E così tutti parean di concordia
     sanza pietà, sanza misericordia,

244 Carlo aveva con seco uno squadrone
     e Durlindana sanguinosa in mano;
     corse al palazzo di Marsilïone
     gridando: - Ove è quel malvagio marrano? -
     E dismontato in sul primo scaglione,
     la scala combatté di mano in mano,
     e come Orazio gran punta sostenne,
     tanto che insino in su la sala venne.

245 Era apparita quasi l’aürora,
     quando il palagio di Marsilio è preso,
     e non si truova il traditore ancora;
     ma poi che ’l fuoco per tutto era acceso,
     alfin convenne ch’egli sbuchi fora,
     e funne a Carlo portato di peso.
     Carlo lo prese in quella furia pazza
     e d’un veron lo gittò in su la piazza;

246 e cadde quasi addosso a Ricciardetto;
     e Ricciardetto, come in terra il vede,
     gridò: - Ribaldo! - e presel pel ciuffetto,
     e poi gli pose in su la gola il piede
     e scannar lo volea come un cavretto;
     se non ch’e’ disse: - Abbi di me merzede
     tanto che Carlo da basso giù vegni
     e Bianciardin, che è nascoso, gl’insegni. -

247 Or chi volessi la città meschina
     in fuoco e in preda assimigliar la notte,
     imaginar conviensi una fucina
     giù nell’inferno in le più scure grotte:
     ognuno aveva una rabbia canina,
     che il sangue parea zuccher di tre cotte.
     O giustizia di Dio, tu eri appresso!
     Tu se’ pur giusto, e in Ciel tu se’ pur desso!

248 Credo Turpin con le sue mani uccise
     dugento o più, a non parer bugiardo:
     non domandar se nel sangue s’intrise!
     E’ parea più rubizzo e più gagliardo
     che que’ che avean le schiappe e le divise,
     come se fussi la notte col cardo
     renduto il pelo alla sua giovinezza,
     perché tener non si potea in cavezza.

249 In questo tempo la reina Blanda
     era con Lucïana strascinata:
     ella non ha più d’oro la grillanda;
     ella era dalla furia traportata;
     ella gridava, ella si raccomanda
     ch’almen come regina sia ammazzata,
     e che non era in questo modo onore
     d’un tanto degno e magno imperatore;

250 e pareva la furia di Ericonne,
     per modo eran le chiome scompigliate;
     e’ drappi ricchi e le purporee gonne
     eran tutte per terra scalpitate.
     O infortunata più che l’altre donne,
     venuta al fin d’ogni calamitate!
     Tanto ch’io credo questo essemplo basta
     della antica miseria di Iocasta.

251 Rinaldo già nel palazzo era entrato;
     e quando e’ vide Lucïana bella,
     come Corebo parve infurïato
     per Cassandra la notte meschinella,
     e comandò ch’ognun fussi scostato,
     tanto che porse la sua mano a quella
     e liberolla da sì stretta furia;
     e non sofferse e’ gli sia fatto ingiuria.

252 E poi ch’ognun fu ritirato addietro:
     - O Carlo, - disse - io vo’ che mi conceda,
     se mai grazia da te nessuna impetro,
     sì che tu sia di maggior gloria ereda,
     perché a tanto signor, tanto alto scetro
     femina pare alla fine vil preda,
     che la reina e Lucïana sia
     libera data nella mia balìa. -

253 Carlo rispose: - O figliuol mio diletto,
     come poss’io negar le cose oneste?
     Io vo’ che il fatto sia prima che il detto.
     Veggo che amore ancor ti sforza e investe. -
     E per venire, uditore, allo effetto,
     e’ perdonoron solamente a queste
     di tanta gente in tutta la cittade;
     il resto, al fuoco e ’l taglio delle spade.

254 Era a veder la notte Siragozza
     a fuoco, come Soddoma e Gomorra;
     e tanto più ch’ella è pel sangue sozza
     che par per tutto insino al fiume corra,
     però che alla franciosa qui si sgozza;
     e così arde, come al vento forra
     di secche piante, insino alle radice
     questa città che fu già sì felice.

255 Parea talvolta che si dividessi
     l’una fiamma dall’altra, come è detto
     de’ due teban già in una pira messi,
     e poi saltava d’uno in altro tetto,
     come se un fuoco distinato ardessi;
     e che Tesifo e Megera ed Aletto
     vi fusse, e Cerber latrassi, il gran cane,
     e vendicassin le ingiurie cristiane.

256 Già si vedevan per terra le case
     dirute ed arse e desolate tutte,
     che pietra sopra pietra non rimase.
     Quante magne ricchezze eran distrutte!
     quante colonne, piramide e base
     eran cadute! quanto parean brutte
     a veder, sotto rimase, la notte,
     quelle gente arrostite come bòtte!

257 Fammi Turpin maravigliar talvolta,
     se non ch’io veggo poi che e’ dice il vero
     quand’io ho questa istoria ben raccolta:
     che molte madre drento al fiume Ibero
     i propri figli in quella furia stolta
     gittâr la notte con istran pensiero:
     ché il furor tutto ministrava e guida,
     e non si scorge altro romor che strida;

258 ed altre in mezzo gli gittâr del foco
     per non venire alle man de’ cristiani,
     ne’ pozzi e nelle fogne e in ogni loco;
     altre gli uccison con lor proprie mani.
     O vendetta di Dio, qui sare’ poco
     agguagliar la miseria de’ Troiani
     a tante afflitte e sventurate donne,
     quando e’ mentì del gran caval Sinonne!

259 Credo che Tito con Vespasïano
     non fêr de’ Giudei tanto, s’io non erro,
     quanto costor di quel popol profano:
     pensa che insino a Turpin pare sgherro!
     Qual Sagunto, o Cartagin da Affricano,
     la cosa va tra l’acqua e ’l fuoco e ’l ferro,
     e ’l foco par, com’io dissi, penace:
     pigli ciascun qual de’ tre più gli piace.

260 E s’alcun pur si fuggiva, meschino,
     in ogni parte la morte rintoppa,
     ché Ricciardetto e il Danese e Turpino
     ed Ansuïgi per tutto gualoppa.
     Intanto è ritrovato Bianciardino,
     ch’era nascoso in un sacco di stoppa.
     Rinaldo far gli volea pure il gioco
     ed appiccarvi con sua mano il fuoco.

261 Carlo gli disse: - Io lo riserbo a peggio. -
     Marsilio intanto in sala era legato
     come un can per la gola, allato al seggio
     dove e’ fu già da sua gente onorato.
     E non poteva ignun pigliar pileggio,
     ché il palazzo era per tutto guardato,
     acciò che cosa nessuna si fugga,
     sì che la roba e la gente si strugga.

262 Aveva Carlo un suo certo schiavone
     lungo tempo tenuto, detto l’Orco,
     che godeva la notte, il rubaldone,
     nel sangue imbrodolato come un porco;
     e stava all’uscio con un gran bastone
     ch’egli avea fatto d’un certo biforco;
     e chi voleva fuggir dalle poste,
     convien che prima contassi con l’oste.

263 Non si potea qui dir, come Bïante:
     «Io me ne porto ogni mia cosa meco»:
     più tosto molto ben le rene infrante
     da quel baston se ne portava seco;
     e s’alcun pur gli scappava davante,
     «Calò, calò» si potea dire in greco,
     perché e’ faceva le persone destre,
     e bisognava calar le finestre.

264 E’ pareva ogni cosa vetro o ghiaccio
     dove e’ giugnevan quelle sconce botte.
     E scrive alcun di questo ribaldaccio
     ch’egli arrostì de’ moricin la notte,
     che gl’infilzava in quel suo bastonaccio,
     poi gli mangiò come porchette cotte;
     ma perché il caso non mi pare onesto,
     credo che Carlo non sapessi questo.

265 E così fu questa città dolente
     con fuoco e sacco rovinata tutta,
     sì che, a veder la rovina e la gente,
     una cosa pareva schifa e brutta.
     E non è maraviglia veramente
     che così in una notte sia distrutta,
     ché le moschee rovinavano a ciocca,
     tanto l’ira del Ciel sopra trabocca!

266 Avea già Anselmo e poi Chiron mandato
     Carlo a Marsilio, per quel ch’io ne ’ntendo;
     e fu ferito l’un, l’altro ammazzato,
     cioè Chiron, indrieto poi venendo;
     e Carlo aveva molto minacciato:
     - Gerusalem, Gerusalem, - dicendo
     - tu piangerai, Siragozza ribalda,
     né pietra sopra pietra in te fia salda. -

267 Ora ecco il re Marsilio innanzi a Carlo,
     e tutto il popol: - Crucifiggi! - grida;
     altri diceva e’ dovessi impalarlo:
     ognun volea ch’a suo modo l’uccida.
     Carlo rispose che volea impiccarlo,
     ché il traditor al capresto si fida,
     a quel carubbo, come Scarïotto,
     dove egli aveva ogni cosa condotto;

268 e disse: - Io vo’, Marsilio, che tu muoia
     dove tu ordinasti il tradimento;
     e Bianciardin, che è padre d’ogni soia,
     allato a te farà crucciare il vento. -
     Disse Turpino: - Io voglio essere il boia. -
     Carlo rispose: - Ed io son ben contento
     che sia trattato di questi due cani
     l’opere sante con le sante mani. -

269 E poi che furon drento al parco entrati,
     Carlo, veggendo intorno a quella fonte
     arsa la terra e gli arbori abbruciati,
     maravigliossi e cambiossi la fronte,
     e disse: - O Bianciardin, quanti peccati
     commessi hai qui con tue malizie pronte!
     O scelerato, abominevol mostro!
     O caso orrendo, o infamia al viver nostro! -

270 E quando e’ vide quel carubbo secco
     e quello allòr fulminato dal cielo,
     parve che ’l cor gli passassi uno stecco
     e che per tutto se gli arricci il pelo,
     e disse: - O traditor Marsilio, ora ecco
     dove tu commettesti il grande scelo!
     Ah, crudel terra che lo consentisti
     e come Curzio lor non inghiottisti!

271 Ecco ch’io ho pur ritrovate l’orme:
     però nessun con la coda le copra,
     ché la divina giustizia non dorme,
     e pure il fine è il testimon dell’opra;
     pensi ciascun, quando e’ fa cose inorme,
     che la spada del Ciel sia sempre sopra,
     e s’alcun tempo una cosa si cela
     nihil occultum, tutto si rivela.

272 Falseron, io ho pur finalmente
     qui ritrovati tutti i tuoi vestigi:
     l’anima forse or del tuo error si pente,
     tanti segni son qui, tanti prodigi!
     Tu abbracciasti come fraudolente,
     quando tu ti partisti da Parigi,
     oimè lasso, il mio degno nipote,
     poi gli baciasti, ribaldo, le gote.

273 Bianciardin, qui non bisogna essordia,
     però ch’egli è da corda e da capresti
     venuto il tempo, e non misericordia;
     ed è ragion che, come voi facesti
     a questa fonte insieme di concordia
     il tradimento, ognun l’aria calpesti,
     poi ve n’andiate nello inferno a coppia:
     ché la giustizia e la malizia è doppia. -

274 Quando Marsilio si vede condotto
     dove il peccato suo l’avea pur giunto,
     e che si truova a quel carrubbo sotto,
     si ricordò come il suo caso appunto
     predetto aveva un nigromante dotto,
     tanto che fu più di dolor compunto;
     perché e’ gli disse: - Non tagliar quel legno,
     che qualche volta sarà il tuo sostegno. -

275 E poi pregò, come malvagio e rio,
     che voleva una grazia chieder sola,
     cioè di battezzarsi al vero Iddio.
     Disse Turpin: - Tu menti per la gola,
     ribaldo: appunto qui t’aspettavo io. -
     Rinaldo gli rispose: - Omai cò’la!
     Non vo’ che tanta allegrezza tu abbi
     che in vita e in morte il nostro Iddio tu gabbi.

276 Sai che si dice cinque acque perdute:
     con che si lava all’asino la testa;
     l’altra, una cosa che infine pur pute;
     la terza è quella che in mar piove e resta;
     e dove gente tedesche son sute
     a mensa, sempre anche perduta è questa;
     la quinta è quella ch’io mi perderei
     a battezzare o marrani o giudei.

277 Io non credo che l’acqua di Giordano,
     dove fu battezzato Gesù nostro,
     ti potessi lavar come cristiano,
     non che questa acqua che mi pare inchiostro
     di questa fonte, o d’un color più strano
     pel miracolo ancor che Iddio ci ha mostro.
     Dunque tu pensi con questa malizia
     che non si satisfaccia alla giustizia?

278 Con Bianciardino e col tuo Falserone
     giù nello inferno ti battezzerai -
     disse Carlo - in quelle acque di Carone,
     quando la sua barchetta passerai.
     E manderotti presto Ganellone;
     e qualche tradimento ancor farai,
     acciò che l’arte non ispenta sia,
     ché so che tu n’hai in punto tuttavia.

279 E poi che Iddio ha per te riserbato
     questo arbor secco che ci è qui davante,
     dove ancor Giuda si fu attaccato,
     ci mostrerrai di colassù le piante. -
     Disse Marsilio: - Io mi son ricordato
     di quel che già previde un nigromante,
     ma non lo intesi, omè!, che questo legno
     disse ch’ancor mi sarebbe sostegno.

280 Io ti confesso d’averti tradito
     in molte cose già pel tempo antico.
     Ma poi ch’io sono alla fine punito,
     solo una grazia ti domando, e dico
     che gentilezza è d’avere essaudito
     l’ultimo prego d’ogni reo nimico:
     abbi pietà della mia afflitta moglie,
     ché morte ogn’odio, ogni cosa discioglie.

281 Perché, quando tu eri giovinetto,
     che tu togliesti poi la mia sorella,
     Galafro, il padre mio, n’avea sospetto,
     e sempre Blanda dicea, meschinella:
     «O re, che vuoi tu far del Maïnetto?
     Che colpa ha lui se la tua figlia è bella
     e per piacergli abbatte ognun in giostra?
     Ben sai ch’egli ama Gallerana nostra;

282 e sommene avveduta in mille cose
     ch’egli è tanto infiammato di costei
     che non può contra le fiamme amorose
     resister, che son date dagli iddei»;
     e così sempre in tuo favor rispose,
     tanto che pure se’ obligato a lei;
     e mentre, in verità, tu eri in corte,
     per molte vie già ti campò da morte.

283 Galafro fe’ mille volte disegno
     di gastigarti de’ peccati tuoi;
     ma tanto adoperò questa il suo ingegno
     che finalmente lo ritenne poi;
     e perch’io so, come gentile e degno,
     questo peccato all’anima non vuoi,
     per la corona che tu porti in testa
     ti raccomando e Gallerana e questa.

284 Del corpo mio, fa’ tu quel che ti pare;
     l’anima so nell’inferno è dannata. -
     Disse Turpin: - Non tanto cicalare!
     Questa è stata una lunga intemerata. -
     E cominciava il cappio a disegnare,
     e la cappa o la tonica avea alzata;
     ed accostossi a quel carrubbio presto,
     ed attaccollo a un santo capresto.

285 Poi Bianciardin con le sue mani assetta,
     che pareva il maestro lui quel giorno,
     ed appostò con l’occhio per giubbetta
     un nespol ch’era alla fonte dintorno;
     e l’uno e l’altro si storce e gambetta.
     Così Marsilio al carrubbo lasciorno
     e Bianciardino attaccato a quel nespolo;
     e Turpin gli levò di sotto il trespolo.

286 Poi ordinò che la reina Blanda,
     Carlo, al suo padre fussi rimenata,
     e molti in compagnia con essa manda,
     perch’ella era del regno di Granata.
     E poi che Siragozza d’ogni banda
     era per terra tutta disolata,
     rassettò il campo e sua gente il Danese,
     e inverso Francia il suo cammin riprese.

287 E come e’ fu l’alta vendetta e magna
     vulgata e sparta per tutta Araona
     e pe’ paesi dintorno di Spagna,
     laudava ognun di Carlo la Corona;
     né creder ch’un sol principe rimagna
     che a vicitarla non venga in persona;
     ed ognun par di tal cosa contento,
     e così biasimava il tradimento.

288 Vennon molti signor d’ogni linguaggio,
     mentre che Carlo indrieto si tornava,
     a giurar fede e tributo ed omaggio:
     e così questa gente cavalcava.
     Or, per non fare a’ miei lettori oltraggio,
     che spesso il troppo cantar lungo grava,
     convien ch’io chiami pur l’aiuto santo
     alla mia istoria nel seguente canto.