Morgante/Cantare decimosettimo

Cantare decimosettimo

../Cantare decimosesto ../Cantare decimottavo IncludiIntestazione 22 settembre 2009 75% Poemi epici

Cantare decimosesto Cantare decimottavo

 
1   Virgine innanzi al parto ed ora e sempre,
     Virgine pura, Virgine beata,
     Virgine che ’l tuo figlio in Ciel contempre,
     Virgine degna, Virgine sacrata,
     Virgine ch’ogni cosa guidi e tempre,
     Virgine con Gesù nostra avvocata,
     Virgine piena di grazia e di gloria,
     Virgine etterna, aiuta la mia storia.

2   Sappi ch’i’ son colui per cui sospira
     nella città la figlia del Soldano;
     ma la Fortuna, che sue rote gira,
     m’ha qui condotto con gli sproni in mano,
     e di me fatto il berzaglio e la mira.
     Or pur torrai questa alfana, pagano,
     ché ’l mio cavallo ho perduto, Baiardo,
     e ’l mio cugin, che mai fu il più gagliardo:

3   nella città n’andrai sùbito a quella;
     di’ che Rinaldo in sul campo l’aspetta
     alla battaglia armato, non in sella,
     ché vuol de’ suoi prigion far la vendetta:
     vedrai che gli parrà buona novella. -
     Gualtier sopra l’alfana allor s’assetta
     e presto in Bambillona andava ’Antea,
     e quel ch’ha detto Rinaldo, dicea.

4   Diceva Antea: - Può farlo la Fortuna
     che sia Rinaldo, e sia così soletto
     sanza cavallo o compagnia nessuna? -
     e corse a Ulivieri e Ricciardetto,
     e disse: - Or non temete cosa alcuna -
     perché sapea che vivon con sospetto;
     e quanto più potea gli confortava;
     ché per amor di Rinaldo gli amava;

5   e Ricciardetto avea trattato in modo
     che mai nessun disagio comportòe:
     tanto la strigne l’amoroso nodo!
     Poi, fatto questo, al Soldan se n’andòe:
     - Voi non sapete - disse - quel ch’io odo:
     però quel c’ho sentito vi diròe:
     Rinaldo fuor m’aspetta delle mura,
     a piè, soletto, sol con l’armadura. -

6   Il Soldan disse: - Molto strano è il caso
     ch’un cavalier di tanta nominanza
     così sanza caval sia sol rimaso. -
     E disse: - Che di’ tu, Gan di Maganza,
     che se’ d’ogni scïenza e virtù vaso?
     Sai che Rinaldo ha pur molta possanza,
     né la fortuna ritentar vorrei.
     Pertanto il tuo consiglio caro arei. -

7   Forse che Gano ebbe a pensare a questo,
     ch’avea di tradimenti pieno il seno,
     e la risposta apparecchiata ha presto;
     disse: - Soldan, s’a mio modo fareno,
     non metteren così in un tratto il resto,
     ma minor posta ch’Antea mettereno.
     Se Rinaldo ama la donna famosa,
     credi per lei che farebbe ogni cosa.

8   E’ ci è quel Veglio antico maladetto,
     che sta nella montagna d’Aspracorte,
     e tutto il regno tuo tiene in sospetto:
     la tua fanciulla con parole accorte
     conchiugga con Rinaldo questo effetto:
     che s’a quel Veglio dar crede la morte,
     che rïarà i prigioni, e tutti i patti
     gli osserverai che in Persia furon fatti. -

9   Era il Soldano uom molto scozzonato,
     e ’ntese ben che lo manda alla mazza,
     e fra sé disse: «Ecco uomo scelerato!
     Ecco ben traditor di fine razza!».
     Rispose: - Io lodo quel c’hai consigliato:
     ogn’altra cosa sare’ forse pazza. -
     E la sua figlia confortò ch’andassi
     al suo Rinaldo e questo domandassi.

10 Ella rispose al Soldan ch’era presta,
     e quando più poté si facea bella:
     missesi indosso una leggiadra vesta
     ove fiammeggia d’oro alcuna stella
     nel campo azurro, molto ben contesta
     di seta ricca, e poi montava in sella
     con due sergenti, e non volle armadura;
     ed a Rinaldo andò fuor delle mura.

11 Quando Rinaldo Antea vede venire,
     sente nel cuor di sùbito un riprezzo
     d’amor, che gliel facea per forza aprire:
     «Ecco il sol» disse «fra le stelle in mezzo».
     Giunse la donna che ’l facea morire;
     vide che s’era a seder posto al rezzo
     appiè d’un moro gelso in su la strada,
     in sul pome appoggiato della spada,

12 e disse: - Mille salute a Rinaldo!
     Qual fato ingiusto o qual fortuna vuole
     ch’a piè soletto camini pel caldo? -
     Quando Rinaldo sentì le parole,
     non potea il cor nel petto stargli saldo,
     e disse: - Ben ne venga il mio bel sole!
     Qual grazia qui ti manda a confortarmi?
     Ma dimmi: dove hai tu lasciate l’armi? -

13 Rispose la fanciulla: - Ah, puro e soro!
     A quel che ci bisogna ogni arme è buona;
     ch’io doverrei, per uscir di martoro,
     far come Tisbe mia di Bambillona,
     poi che noi siamo appiè del gelso moro,
     della cui fede ancor la fama suona;
     e forse del mio amor costante e degno
     in qualche modo il Ciel farebbe segno.

14 Io son venuta perché il padre mio
     vuol ch’io ti dica quel che intenderai:
     ch’un nostro gran nimico antico e rio,
     se tu l’uccidi, i tuoi prigioni arai
     e ciò che in Persia già ti promissi io.
     Non so se ricordar sentito l’hai,
     ma molto suona la sua possa magna,
     e ’l Veglio appellato è della Montagna.

15 E statti d’ogni cosa alla mia fede,
     se tu farai, Rinaldo, quel ch’io dico.
     Ma dimmi come sia rimaso a piede,
     e ch’io non veggo Orlando qui, il tuo amico.
     Piglia questo caval, che, per mia fede,
     se non l’accetti sarai mio nimico. -
     Disse Rinaldo: - In un deserto folto
     rimase Orlando, e ’l destrier mi fu tolto.

16 E ’l me’ ch’io posso mi son qui condotto:
     l’amor ch’io porto ’Antea me lo fa fare,
     e son venuto a piè più che di trotto;
     né voglio altro caval mai cavalcare,
     insin che ’l mio Baiardo non m’è sotto.
     Or, perché sempre mi puoi comandare,
     colui che di’ di montagna o di bosco
     fammi assaper, ch’io per me nol cognosco.

17 E s’egli avessi la testa di ferro,
     per lo tuo amor due pezzi ne faròe:
     così ti giuro, e so che mai non erro.
     E d’ogni cosa in te mi fideròe
     di ciò che fu ne’ patti s’io l’atterro. -
     Rispose Antea: - Con teco manderòe
     un de’ miei mammalucchi, che là vegni
     e questo can malfusso te lo ’nsegni.

18 Io mi ritorno drento alla città,
     ché tempo non è or da far soggiorno.
     A’ tuoi prigion nïente mancherà,
     ch’io gli ho sempre onorati notte e giorno;
     e libero ciascun di lor sarà,
     Rinaldo, in ogni modo al tuo ritorno.
     Macon sia teco! - E poi voltò il cavallo,
     ché ’n volto più non sofferia guardallo.

19 E ritornossi sospirando drento,
     e ridiceva al Soldano ogni cosa.
     Non domandar come Gan fu contento:
     dell’alegrezza non trovava posa;
     e perché e’ fussi doppio il tradimento,
     disse così: - Se tu vuoi còr la rosa
     a tempo e sanza pugnerti la mano,
     un altro bel partito ci è, Soldano.

20 Rinaldo non arà col Veglio scampo;
     or mi parrebbe la tua figlia andassi
     a Monte Albano intanto a porre il campo,
     e bastere’ trentamila menassi,
     prima che sia raffreddo questo vampo.
     Orlando non v’è or, che rimediassi,
     ma sol Guicciardo, Alardo e Malagigi;
     e preso Montalban, preso è Parigi.

21 Questo Ulivieri e questo Ricciardetto
     de’ miglior paladin son ch’abbi Carlo:
     Carlo in Parigi è rimaso soletto,
     e per paura attenderà a guardarlo.
     Qui è il partito vinto e ’l giuoco netto,
     pur che tu sappi, signor mio, pigliarlo. -
     Donde al Soldan troppo la ’mpresa piace,
     e ciò c’ha detto Gan gli fu capace;

22 e la figliuola scongiurava e priega
     che ora è tempo acquistar qualche fama.
     Ma la fanciulla al principio ciò niega,
     come colei che Rinaldo molto ama;
     e molto saviamente al padre allega
     che sempre più l’onor che l’util brama,
     e che Rinaldo voleva aspettare
     e ciò ch’aveva promesso osservare.

23 Il padre rispondea: - Prima ch’e’ torni
     dal Veglio, o che gli dia sì tosto morte,
     saranno trapassati molti giorni:
     tu sarai a Montalban prima alle porte
     co’ tuoi stendardi e’ tuoi baroni adorni;
     ed oltre a questo, Orlando or non è in corte,
     né Ricciardetto, Ulivieri o Rinaldo:
     però battiamo il ferro mentre è caldo.

24 Quando Rinaldo sarà ritornato,
     perch’io m’avveggo tu gli porti amore,
     ciò che promesso gli hai fia osservato,
     e giusto mio poter farégli onore
     tanto che in Persia si fia ritornato:
     quivi si poserà, sendo signore.
     Diren che nella Mecche tu sia andata
     e ’n pochi giorni qui sarai tornata. -

25 Gano in sul fatto diceva parole
     ch’eran tutte de’ colpi del maestro.
     Quando Antea vide che ’l Soldan pur vuole,
     rispose che parata era a suo destro.
     Fannosi insegne, come far si suole,
     e fornimenti per luogo campestro;
     padiglioni e trabacche s’apparecchia
     e tutta l’arme si ritruova vecchia.

26 Non credo che mai tanto martellassi
     in Mongibello il gran fabbro Vulcano
     quanto per tutta Bambillona fassi;
     e chi portava l’arco sorïano
     racconcia le saette co’ turcassi;
     chi la sua scimitarra piglia in mano
     e vuol veder s’ella è di tutta pruova;
     chi briglie e selle e chi staffe rinuova.

27 In pochi giorni son tutti assettati,
     e diè il Soldan le sue benedizioni
     alla figliuola, e sono accomiatati,
     e dati tutti al vento i lor pennoni.
     Guardava Antea que’ cavalieri armati
     e tutti gli vagheggia in sugli arcioni,
     e dice: «Io vedrò pur Cristianitade,
     castella e ville e tutte le cittade,

28 le sue marine, i boschi, i monti e ’l piano,
     e ’l bel castel che guarda Malagigi
     del mio Rinaldo, detto Monte Albano;
     vedrò la bella chiesa San Dionigi;
     vedrò il Danese, Astolfo e Carlo Mano,
     quand’io sarò a combatter poi Parigi;
     e s’io torrò a Rinaldo il suo castello,
     potrò ciò ch’io vorrò poi aver da quello.

29 Combatterò co’ paladini ancora;
     Rinaldo tornerà, così Orlando,
     e proverrommi con lor forse allora:
     la fama insino al ciel n’andrà volando».
     Così di queste cose s’innamora
     mentre che a ciò pensava cavalcando,
     come colei che sol bramava onore
     e molto generoso aveva il core.

30 Gan per la via con lei molto parlava,
     ch’era con essa a fargli compagnia:
     - Così faremo - e molto confortava,
     dicendo spesso: - Per la fede mia,
     del traditor Rinaldo non mi grava.
     E’ non ci va due mesi, che in balìa
     arete tutto il reame di Francia
     sanza operare spada molto o lancia.

31 Io ho parenti, amici in ogni lato:
     e’ non ha Carlo sì fidata terra
     ch’i’ non sappi ordinar qualche trattato,
     come e’ vedranno appiccata la guerra. -
     Diceva Antea: «Guata uom bene ostinato!
     Chi dice traditor, certo non erra;
     ché, se di questo il mio giudicio è saldo,
     non vidi alla mia vita un tal ribaldo».

32 Così costor ne vanno a Monte Albano.
     Or ritorniamo un poco al suo signore.
     Rinaldo e ’l mamalucco del Soldano
     vanno a quel Veglio crudo e peccatore.
     Dicea Rinaldo allo scudier pagano:
     - Monta in su questa alfana per mio amore,
     ché insin che ’l mio caval non troverròe,
     altro destrier già mai cavalcheròe. -

33 Non voleva il pagan per riverenza,
     ma poi per riverenza anco l’accetta.
     Vanno parlando della gran potenza
     di quella aspra persona e maladetta.
     Diceva il mamalucco: - Abbi avvertenza
     che la sua branca addosso non ti metta. -
     Rinaldo rispondea: - Tu riderai,
     ché maggior bestia son di lui assai. -

34 Poi che furono entrati in un gran bosco,
     in mezzo a quel trovorno un gran burrone
     diserto, oscuro e tenebroso e fosco.
     Disse il pagan: - Qui sta quel can ghiottone
     in quel palagio che vedi; io il cognosco
     insin di qua, ch’io il veggo a un balcone. -
     E mostrò quello a Rinaldo, che stava
     alla finestra e pel bosco guardava.

35 Come e’ vide apparir Rinaldo, forte
     gridò da quel balcon: - Che gente è questa?
     Ch’andate voi cercando qua? La morte? -
     Venne alla porta con molta tempesta.
     Disse Rinaldo: - A te sanza altre scorte
     venuti siam per l’oscura foresta,
     e vengo a dare a te quel che tu ha’ detto,
     per onta e disonor di Macometto.

36 So che tu se’ del gran Soldan nimico,
     e son venuto qui per vendicallo
     di ciò che fatto gli hai pel tempo antico,
     ché contro a lui commesso hai più d’un fallo. -
     Rispose il Veglio: - Io fui sempre suo amico
     per ogni tempo, e tutto il mondo sallo;
     e perché cavalier mi par’ dabbene,
     vo’ che tu intenda onde tal cosa viene.

37 Questo Soldan già, sendo addormentato,
     una mattina in visïon vedea
     che, sendo sopra il suo cavallo armato,
     una montagna addosso gli cadea;
     ed ha per questo sogno interpetrato
     ch’io sia quel desso; e già ci mandò Antea
     a combatter con meco, e finalmente
     della battaglia si partì perdente.

38 Questo sospetto fa che mi persegua
     e cerchi quanto e’ può tòrmi la vita,
     sanza voler con meco accordo o triegua.
     Ma se questa sentenzia è stabilita
     in Ciel, se innanzi a me non si dilegua,
     convien che finalmente sia essaudita.
     Or se tu se’ venuto qua a sfidarmi,
     aspetta tanto ch’io prenda mie armi. -

39 Disse Rinaldo: - In ogni modo voglio
     che tu ti vesta tutta tua armadura,
     ché altrimenti combatter non soglio.
     Vedren come al mio brando sarà dura;
     e forse ti farò giù por l’orgoglio,
     e più il Soldan non istarà in paura. -
     Armossi il Veglio allor di tutta botta
     di pelle di serpente dura e cotta,

40 e tolse per ispada un mazzafrusto
     con tre palle di piombo catenate,
     ferrato e nocchieruto e grave e giusto;
     e ritornò a Rinaldo immedïate,
     e disse: - Io ti farò mutar di gusto,
     come tu assaggi di queste picchiate;
     ché, s’io t’accocco una palla di piombo,
     di Bambillona s’udirà il rimbombo.

41 Ma vo’ che tu mi dica, se ti piace,
     il nome tuo e se tu se’ pagano,
     poi che tu parli sì superbo e audace
     e vuoi far le vendette del Soldano. -
     Disse Rinaldo: - Ciò non mi dispiace.
     Io sono il gran signor di Montalbano;
     e per amor d’Antea vengo ammazzarti,
     ché lo farò pria che da te mi parti.

42 E so che per la gola, Veglio, menti
     ch’alla battaglia vincessi colei,
     non sette come te co’ tuoi parenti!
     Oltre, io ti sfido per amor di lei;
     ed hogli fatti mille sacramenti
     che sanza il capo tuo non tornerei;
     e nel partir mi donò questa stella
     d’una sua vesta ch’avea molto bella;

43 ed io gli donerò, per cambio a questo,
     il capo tuo, malvagio traditore. -
     Turbossi il Veglio nella fronte presto
     quando e’ sentì chi era quel signore;
     e se fussi il partirsi stato onesto,
     si dipartia, sì gli tremava il core;
     ma per vergogna il mazzafrusto alzòe
     e con Rinaldo la zuffa appiccòe.

44 Rinaldo aveva gli occhi a quelle palle:
     ch’un tratto ch’ell’avessin fatto còlta,
     gli facevon le gote altro che gialle;
     pur s’appiccorno alcuna, qualche volta,
     ché non poté così netto schifalle,
     tanto che l’elmo sonava a raccolta:
     dunque e’ convien ch’ogni suo ingegno adopre,
     e con lo scudo e col brando si cuopre.

45 E come e’ vede la mazza caduta,
     il me’ che può con la spada il punzecchia
     quando alle gambe, quando alla barbuta;
     con l’altro braccio lo scudo apparecchia
     per riparare, e ’n tal modo s’aiuta,
     ché lo schermire era l’arte sua vecchia;
     ma ogni volta riparar non puossi,
     e spesso con l’un piede inginocchiossi.

46 Quando ebbon combattuto un’ora o piùe,
     Rinaldo un tratto Frusberta sù alza
     per mostrare a quel colpo sua virtùe:
     un cappellaccio ch’egli avea, giù balza
     per la percossa, che sì aspra fue
     che ’l crudel Veglio la terra rincalza;
     e cadde come il tordo sbalordito,
     tanto ch’un pezzo stette tramortito.

47 E risentito, disse: - O cavaliere,
     io mi t’arrendo e dommi tuo prigione,
     ché mi potevi uccidere a giacere:
     da ora innanzi, famoso barone,
     di mia persona fanne il tuo volere. -
     Disse Rinaldo: - Per mio compagnone
     t’accetto, e tua persona franca e degna
     con meco in compagnia vo’ che ne vegna. -

48 Rispose il Veglio: - Io son molto contento
     seguitar cavalier tanto giocondo;
     e vo’ che tuo sia sempre a tuo talento
     questo palagio, e ciò ch’io ho nel mondo,
     e s’altro ci è che ti sia in piacimento. -
     Rinaldo disse: - A questo sol rispondo
     che tu ci dessi da far collezione,
     ch’ognun ci piglierebbe oggi al boccone.

49 Noi abbiam per un deserto caminato
     dove pan non si truova né farina,
     e so che ’l mio compagno anco è affamato,
     ch’era a caval: pensa chi a piè cammina!
     Abbiàn sanza vigilia digiunato,
     ché ci partimo per tempo ier mattina. -
     Il Veglio apparecchiar facea vivande
     e fece lor onor sùbito e grande;

50 e stanno così insieme a riposarsi.
     Or ritorniamo ove io lasciai Antea,
     ch’a Monte Alban cominciava appressarsi,
     tanto che un giorno alle mura giugnea
     e con sua gente comincia accamparsi;
     e poi mandò, come Gan gli dicea,
     un messaggier di sùbito al castello
     al buon Guicciardo e l’altro suo fratello.

51 Il messo andò con la imbasciata in fretta,
     e disse come del Soldan la figlia
     era venuta con molta sua setta;
     e che non abbin di ciò maraviglia,
     però che questo è fatto per vendetta
     del lor fratel contro alla sua famiglia:
     che mandin giù le chiavi del castello,
     o vengan sopra il campo a salvar quello.

52 Guicciardo a quel messaggio rispondea
     che non sa che vendetta o che cagione
     a questa impresa commossa abbi Antea,
     e che restava pien d’ammirazione;
     e che le chiavi ch’ella gli chiedea
     gli porterebbe lui sopra l’arcione,
     per dargliel colla punta della lancia,
     ché così era il costume di Francia.

53 Tornò il messaggio, e fece la ’mbasciata;
     della qual cosa Antea seco sorrise.
     Guicciardo con Alardo e sua brigata
     l’altra mattina ognun l’arme si mise;
     e tutta fu la terra rafforzata
     e con le sbarre le strade ricise;
     e vennono in sul campo armati in sella
     dove aspettava la gentil donzella.

54 La qual, come costor vide venire,
     fecesi incontro benigna e modesta,
     e dicea seco: «E’ non posson disdire
     che non sian di Rinaldo e di sua gesta,
     tanto sopra il caval mostran d’ardire:
     l’aspetto e ’l modo lor lo manifesta»;
     e di Rinaldo suo pur si risente.
     E salutògli grazïosamente,

55 e disse: - Tu, che innanzi agli altri guardo,
     sanza che ’l nome tuo più oltre dica,
     se’ quel gentil baron detto Guicciardo
     dove ogni gentilezza si nutrica;
     quell’altro cavalier chiamato è Alardo,
     in cui risurge ogni eccellenzia antica.
     Ma dimmi, ove hai tu lasciate le chiavi,
     che in su la lancia dicesti arrecavi? -

56 Guicciardo gli rispose: - O damigella,
     io non so la cagion della tua impresa;
     ma poi che così è, venuto in sella
     sono in sul campo per la mia difesa;
     e certo tu mi par’ donna sì bella
     che di combatter con teco mi pesa.
     Se ignun de’ miei t’ha fatto mancamento,
     per la mia fé ch’io ne son mal contento;

57 ed arei caro intender qual sia quello
     che t’abbi fatto ingiuria, ove o in qual parte,
     per darti poi le chiavi del castello;
     ché tu mi par’, quand’io ti guato, Marte,
     né altro, fuor ch’un mio carnal fratello
     e ’l mio cugin, maestro di questa arte,
     cioè Orlando e Rinaldo d’Amone,
     vidi star meglio armato in su l’arcione. -

58 Rispose allora a Guicciardo la dama:
     - Per gentilezza, e non per nimistate,
     per acquistar con teco in arme fama
     vengo a combatter la vostra cittate. -
     Disse Guicciardo: - Se questa si chiama,
     gentil madonna, come voi parlate,
     forse ch’ella è gentilezza in Soria,
     ma in Francia nostra mi par villania.

59 Pur, se con meco volete provarvi,
     contento son, ma facciàn questo patto:
     che a Bambillona dobbiate tornarvi
     con tutta vostra gente, s’io v’abbatto;
     se mi vincete, il castel vo’ donarvi. -
     Rispose Antea: - Per Macon, ciò sia fatto.
     Piglia del campo, gentil mio Guicciardo,
     ch’io proverrò come sarai gagliardo. -

60 Preso del campo, le lance abbassaro
     e vengonsi a ferir con gran fierezza;
     e poi che ’nsieme i destrier s’accostaro,
     il buon Guicciardo la sua lancia spezza,
     e molti tronchi per l’aria n’andaro;
     ma la fanciulla il colpo poco apprezza,
     e per tal modo Guicciardo ha ferito
     che di cadere alfin prese partito.

61 Disse la dama: - Tu se’ mio prigione.
     Io vo’ provarmi con quell’altro ancora. -
     E mandò via Guicciardo al padiglione;
     e inverso Alardo s’accostava allora,
     e disse: - Piglia del campo, barone,
     poi che Guicciardo della sella è fora. -
     Alardo presto allor del campo tolse,
     e l’uno incontro all’altro il destrier volse.

62 Vanno più presto ch’uccello o saetta
     di buon balestro o arco disserrata,
     e pensa ognun la lancia in resta metta
     quando fu tempo d’averla abbassata;
     e come insieme furono alla stretta,
     tremò la terra e parve impaürata,
     tanto Antea grida e ’l suo caval conforta
     che ’l suo signor come un dragon ne porta.

63 Alardo nello scudo appiccò il ferro
     e fece con la lancia il suo dovuto;
     ma poco valse il colpo, s’io non erro,
     ché nol passò, benché sia molto acuto,
     perché e’ non era una foglia di cerro;
     e finalmente restava abbattuto,
     ch’al colpo della donna non si attenne:
     tanto ch’a lui come a quell’altro avvenne;

64 e funne al padiglion preso menato.
     Quivi allor Ganellon con lei s’accosta;
     disse la dama a Gan: - C’hai tu pensato
     far di costor? Rispondimi a tua posta. -
     Quel traditor, che stava apparecchiato,
     non ebbe troppo a pensar la risposta,
     e disse: - Dama, a voler giucar netto,
     io gli farei impiccar: questo è in effetto. -

65 Rispose la figliuola del Soldano:
     - Non dubitate, cavalier, d’Antea:
     colui per cui tenete Montalbano
     giostrò con meco, e so che mi potea
     uccider con la lancia ch’avea in mano;
     ma nol sofferse il ben che mi volea;
     e per suo amor vo’ render guidardone,
     e non sarà contento Ganellone.

66 Io giostrai in Persia col vostro Ulivieri,
     e vinsilo, e così poi Ricciardetto,
     quantunque io nol facessi volentieri,
     e molto duol ne sento, vi prometto:
     però ch’io gli ho lasciati prigionieri
     al padre mio e stonne con sospetto.
     Rinaldo è ito acquistar pel suo meglio
     della Montagna quello antico Veglio;

67 e come questo acquistato sarà,
     gli renderà i prigioni il padre mio;
     e so che presto ne verranno in qua,
     della qual cosa io ho troppo disio,
     né insin che sia tornato, il cor mi sta
     contento drento al petto, pel mio Iddio.
     Or questo traditor Gan rinnegato
     si pentirà di quel c’ha consigliato. -

68 E fecegli imbottire il giubberello
     da quattro mamalucchi co’ bastoni;
     né mai campana sonò sì a martello
     quanto e’ sonavan le percussïoni:
     Guicciardo ne godea, così il fratello.
     Poi che battuto fu, que’ compagnoni
     lo rizzon sù con ischerno e con beffe,
     dicendo tutti: - Nasserì bizeffe. -

69 Non intendeva Gan questo linguaggio,
     se non che la fanciulla gliel chiarì:
     - I mamalucchi voglion per vantaggio
     per ogni bastonata un nasserì
     da ogni peccator che fanno oltraggio.
     Or vedi, Ganellon, la cosa è qui:
     il tradimento a molti piace assai,
     ma il traditore a gnun non piacque mai. -

70 Così in parte portò la penitenzia
     il traditor di Gan de’ suoi peccati,
     ché per occulta e divina sentenzia
     sono assai volte i nostri error purgati;
     ma voglionsi portar con pazïenzia,
     non come Giuda andar tra’ disperati.
     Dunque e’ si vede alfin la sua vendetta
     per qualche via, chi luogo e tempo aspetta.

71 Guicciardo ringraziò quanto più puote
     la damigella di quel ch’avea fatto;
     ma per dolore il petto si percuote
     ch’Ulivier di prigion non era tratto
     e Ricciardetto, e bagnava le gote,
     temendo che ’l Soldan non rompa il patto;
     ma quanto può dà lor costei conforto
     che ignun di lor non gli fia fatto torto.

72 Allor pregorno Guicciardo e ’l fratello:
     - Piacciati Antea venire, in cortesia,
     a star del tuo Rinaldo nel castello,
     tanto ch’e’ torni in qua di Pagania.
     Non ti bisogna omai combatter quello:
     ogni cosa ti diamo in tua balìa. -
     Della qual cosa fu costei contenta.
     E Ganellon nella prigione stenta.

73 Lasciamo Antea, che stava a suo piacere
     a Montalbano, e ’l suo Rinaldo aspetta;
     e molto onor, secondo il lor potere,
     fanno i cristiani a questa donna eletta.
     Orlando va con molto dispiacere
     con quella sventurata poveretta,
     come dicemo, che s’era fuggita
     da que’ giganti per campar la vita:

74 «Ove se’ tu», dicendo, «fratel mio?
     Ove lasciato m’hai così meschino?
     Ove vai tu? Perché non son teco io?
     Ove mi guidi, mio buon Vegliantino?
     Ove capiterem? Questo sa Iddio.
     Ove o in qual parte fia nostro cammino?
     Ove guido costei per questi boschi?
     Ove troviam qualcun che la conoschi?

75 Io maladico la fortuna ria;
     io maladico Persia e l’amostante;
     io maladico la disgrazia mia;
     io maladico la gente affricante;
     io maladico il Soldan di Soria;
     io maladico Antea che volle amante;
     io maladico Amor che n’è cagione;
     io maladico il nostro Ganellone».

76 Sentendo la fanciulla lamentare
     Orlando, gran pietà gli venìa al core,
     dicendo: - Lasso, non ti disperare,
     raccomàndati a Dio, giusto Signore,
     che non ci voglia così abandonare. -
     Orlando disse: - Dama, per mio amore
     cavalca innanzi un po’ col mio scudiere,
     ch’io vo’ soletto alquanto rimanere. -

77 Terigi e la fanciulla s’avvïòe;
     Orlando allor di Vegliantino scese
     e in terra nella via s’inginocchiòe;
     le braccia al cielo umilmente distese
     e ’l suo Gesù, come solea, adoròe,
     e la sua Madre, che in qualche paese
     lo conducessi fuor di quel burrone;
     e in questo modo fu la sua orazione:

78 O sommo Padre giusto onnipotente,
     o Virgine in cui sol sempre sperai,
     o Redentor della cristiana gente:
     io non mi leverò di terra mai,
     se prima non allumini la mente
     là dove il mio cugin condotto l’hai,
     o s’egli è vivo o morto o incarcerato
     o sano o infermo, o dove e’ sia arrivato.

79 Io te ne priego per quella virtute
     che tu donasti all’angel Gabriello,
     venendo annunzïar nostra salute,
     che tu mi guidi dove è il mio fratello;
     e perch’io vo per vie non conosciute,
     come a Tobia mi manda Raffaello
     che m’accompagni insin che me lo ’nsegni,
     se’ prieghi miei di grazia in te son degni.

80 Per l’amor che portasti al nostro Adamo,
     pel sacrificio che Abram già ti fe’,
     per ogni profezia che noi leggiamo,
     pel tuo Davìt e pel tuo Moïsè,
     per quella croce onde salvati siamo,
     pel tuo Iacobbe antico e per Noè,
     pel lamento che fece Geremia,
     per Giovacchin, Iosef e Zaccheria,

81 pe’ miracoli già che tu facesti,
     concedi tanta grazia ai tuoi fedeli
     che dove è il mio cugin mi manifesti:
     io te ne priego pe’ santi Evangeli. -
     In questo par ch’una voce si desti,
     molto soave, che parea da’ cieli,
     dicendo: - Al tuo camin va’ ritto e saldo,
     ché sano e salvo troverrai Rinaldo;

82 e troverrai il caval ch’egli ha smarrito,
     e che ’gli arà acquistato un gran gigante. -
     Poi fu sùbito un lampo disparito
     che prima agli occhi gli apparve davante.
     Orlando sopra il caval fu salito,
     e ringraziava le Potenzie sante;
     e la fanciulla e Terigi trovava,
     che poco a lui dinanzi cavalcava.

83 Usciron della selva, e capitorno
     a una gran città, che ’l re Falcone
     signoreggiava, ed all’oste smontorno.
     Apparecchiavan certa collezione,
     e due donzelli in questo vi passorno;
     quella fanciulla a sua consolazione
     all’uscio corse per voler vedégli;
     e l’un di lor la prese pe’ capegli.

84 Era del re Falcon costui nipote
     e Calandro per nome si diceva;
     le chiome sparse e le pulite gote
     vide, e con seco menar la voleva;
     la fanciulla gridava quanto puote;
     Terigi presto alle grida correva
     ed accostossi per tòrla al pagano;
     ma fugli dato un colpo assai villano,

85 tanto che cadde sbalordito in terra.
     Orlando intanto e l’oste era là corso,
     e Durlindana con grand’ira afferra,
     che mai non furïò sì tigre o orso:
     un manrovescio a Calandro disserra
     che lo tagliò nel mezzo come un torso,
     e Macometto nel cader giù chiama:
     così per forza lasciò andar la dama.

86 Era con lui parecchi schiere armate:
     corrono addosso sùbito a Orlando;
     ma poi ch’assaggion delle sue derrate,
     ognuno addrieto si viene allargando.
     Fur le novelle al re Falcon portate;
     vennene all’oste, e venìa domandando:
     - Che cosa è questa? O chi Calandro ha morto? -
     Fugli risposto: - E’ non gli è fatto torto. -

87 Orlando al re parlò discretamente:
     - Sappi ch’io l’uccisi io, santa Corona.
     Una fanciulla di nobile gente,
     ch’io ho con meco, onesta e cara e buona,
     volea con seco menar, quel dolente,
     e fargli villania di sua persona,
     e strascinava quella a suo dispetto.
     Or tu se’ savio, e ’l caso in te rimetto:

88 so che sicura vuoi che sia la strada,
     e non si sforzi ignun per nessun modo,
     ma che sicuro dì e notte vada. -
     Rispose il re Falcon: - Troppo ne godo.
     Rimetti, cavalier, drento la spada,
     ché quel ch’hai fatto, io ne ringrazio e lodo:
     giustizia sempre amai sopr’ogni cosa;
     questa è nipote mia, figliuola o sposa.

89 Vo’ che tu venga nella mia città,
     per ristorarti ancor di quest’oltraggio. -
     Guarda se questo era uom pien di bontà,
     guarda s’egli era un re discreto e saggio!
     Rispose Orlando: - Ognun di noi verrà;
     ma perché cavalier siàn di passaggio,
     un’altra gentilezza ancor farai:
     che l’oste, in cortesia, ci accorderai. -

90 Rispose il re Falcon: - Ben volentieri! -
     e sùbito chiamò lo spenditore
     e fece contentar del suo l’ostieri;
     poi rimontò ciascuno a corridore,
     Orlando, la fanciulla e lo scudieri.
     E ’l re Falcone a tutti fece onore.
     E mentre che ’l convito era più bello,
     sùbito venne un messaggiero a quello.

91 Era un pagan che pare un corbacchione,
     molto villan, superbo, strano e nero,
     coperto d’una pelle di dragone;
     e giunto, con un modo crudo e fiero
     diceva al re: - Distruggati Macone
     e Giupiter, che regge il grande impero.
     Tu dèi saper che ’l tempo è pur venuto
     ch’al mio signor tu mandi il suo tributo. -

92 Turbossi tutto il re Falcone e disse:
     - O mia figliuola, lasso! sventurata,
     quanto era meglio assai che tu morisse,
     anzi ch’al mondo mai non fussi nata! -
     Orlando lo pregò che gli chiarisse
     quel che importar volea quella imbasciata.
     Rispose il re Falcon: - Tu lo saprai,
     e meco insieme so che piangerai.

93 Un’isola è nel mar là della rena;
     otto giganti son, tutti frategli:
     ognun molta arroganza e rabbia mena,
     come ha fatto costui, ch’è un di quegli;
     hannoci dato per etterna pena
     ch’ogni anno di noi tristi e meschinegli
     una fanciulla lor tributo sia:
     tocca questo anno alla figliuola mia. -

94 E non poté più oltre dir parola.
     Colui pur la ’mbasciata sua replìca;
     il re Falcone abbraccia la figliuola.
     Orlando disse: - Vuoi tu ch’io gli dica
     quel che mi par per la mia parte sola?
     Ché di tener le lacrime ho fatica,
     tanto m’incresce di lei e di voi! -
     Onde e’ rispose: - Di’ ciò che tu vuoi. -

95 Orlando disse al superbo gigante:
     - Non so quel che ’l signor tuo si domanda,
     ma tu mi pari uom crudel e arrogante:
     la tua imbasciata minaccia e comanda
     che basterebbe al Soldan del Levante.
     Dimmi il tuo nome e di quel che ti manda;
     poi ti dirò quel che sarà dovuto,
     come tu abbi acquistare il tributo. -

96 Disse il pagan: - Se pur saper t’aggrada
     il nome mio, chiamato son Don Bruno,
     e Salicorno il sir della contrada. -
     Rispose Orlando: - Lecito a ciascuno
     è ciò che si guadagna con la spada:
     questo confessi tu? Donde io sono uno
     che vo’ questa fanciulla guadagnarmi
     con teco, con la spada o con altre armi. -

97 Disse Don Brun: - Per Dio, contento sono;
     andian, ché noi faren bella la piazza;
     e se tu vinci, va’, ch’io tel perdono. -
     Orlando aveva indosso la corazza,
     e disse al re Falcone: - E’ sarà buono
     ch’io ti gastighi così fatta razza. -
     Levossi ritto e missesi l’elmetto,
     e disse: - Andian, pagan, dove tu ha’ detto. -

98 Corsono in piazza ognun subitamente,
     e tutto fu conturbato il convito;
     salì Don Brun sopra un suo gran corrente,
     Orlando è sopra Vegliantin salito.
     Or qui si ragunò di molta gente,
     e la donzella col viso pulito
     era a vedere la sua redenzione,
     e per Orlando faceva orazione:

99 pure orazion s’intende alla moresca:
     pregava Macon suo che l’aiutasse
     e che di sua virginità gl’incresca,
     che ’l fer gigante non la vïolasse
     nella sua pura età fiorita e fresca.
     In questo i duoi baron le lance basse
     avieno, e tutta la piazza tremava,
     però che Vegliantin fólgor menava;

100 e ’l popol maraviglia avea di quello.
     Orlando truova Don Bruno alla peccia,
     ma pur lo scudo reggeva al martello:
     ruppe la lancia che parve di feccia,
     e tutto si scontorse il pagan fello;
     e la sua aste appiccava alla treccia,
     ma per quel colpo ne fe’ tronchi e pezzi:
     dunque lo scudo a Orlando fe’ vezzi.

101 Prese Don Bruno una sua scimitarra,
     la qual già disse alcun ch’era incantata,
     benché ’l nostro aüttor questo non narra:
     credo più tosto forte temperata;
     e par che ’nverso il ciel bestemmi e garra:
     dètte a Orlando una gran tentennata,
     gridando: - Se tu puoi, da questa guârti! -
     e dello scudo gli fece due parti,

102 perché con esso si volle coprire.
     Orlando dell’un pezzo ch’avea in mano
     dètte a Don Brun tal che gliel fe’ sentire:
     perché nel ceffo giugneva al pagano,
     e fecegli tre denti fuori uscire,
     e tramortito rovinò in sul piano;
     onde ciascun maravigliato fue
     che così presto il torrïon va giùe,

103 dicendo: «E’ basterebbe al conte Orlando!
     Quel colpo arebbe atterrato una ròcca!».
     Il saracin pur venne rispirando,
     e ritto, si mettea la mano in bocca
     e le sue zanne non venìa trovando,
     e ’l sangue giù pel petto gli trabocca:
     donde e’ si duol sanza comparazione,
     e sol si studia bestemiar Macone.

104 Poi disse al conte Orlando: - Assai mi duole
     dei denti e dello onor ch’io ho perduto;
     pur sempre la sua fé servar si vuole:
     comanda ciò che vuoi, ch’egli è dovuto. -
     Rispose Orlando: - E’ basta due parole:
     ch’a re Falcon mai più chiegga il tributo;
     ed ogni volta che tu mangerai
     della promessa ti ricorderai.

105 E vo’ che tu ti facci medicare,
     prima che tu ritorni a Salicorno,
     e statti qualche dì qui a riposare. -
     Così Don Brun si posava alcun giorno;
     alcuna volta che volea mangiare,
     dicieno i servi che stavan dintorno:
     - Che farebb’ei co’ denti che gli manca?
     Di Gramolazzo mangerebbe l’anca. -

106 Poi nel partir lasciò la fede pegno
     ch’al re Falcon mai più, come solea,
     darebbe oppressïon, ch’aveva il segno
     come con l’arme perduto lui avea
     il gran tributo; e tornossi al suo regno.
     Il re Falcon contento rimanea,
     e ringraziar non si saziava Orlando,
     dicendo ch’ogni cosa è al suo comando.

107 Giunto Don Brun dove la rena aggira
     al vento e come il mar tempesta mena,
     raccontò tutto, e molto ne sospira,
     a Salicorno, che n’ebbe gran pena;
     e fatto è scilinguato, e con molta ira
     diceva: - A desinar sempre ed a cena
     ricorderommi di quel c’ho perduto.
     Andrai tu, Salicorno, pel tributo. -

108 Rispose Salicorno: - Io v’andrò certo,
     a dispetto del Cielo e di Macone.
     Chi è quel cavalier che t’ha diserto?
     Non debbe esser di corte di Falcone. -
     Disse Don Bruno: - E’ non va pel deserto
     di Barberia sì possente leone,
     né leofanti, o per Libia serpenti,
     che non traessi a lor come a me i denti.

109 Non so ben chi si sia quel cavaliere,
     ma so ch’e’ sare’ ben buono erbolaio,
     ché sa cavare e denti, al mio parere:
     questo è il tributo ch’io t’arreco e ’l maio;
     e se tu vuogli andar, ti fo assapere
     che ne trarrà a te anco più d’un paio.
     Io gli promissi, se l’osserverai,
     che mai tributo al re più chiederai.

110 E per me tanto non vi vo’ venire,
     acciò che traditor non mi chiamassi. -
     Pur Salicorno tanto seppe dire
     che alfin Don Brun dispose che tornassi;
     e cinquecento d’arme fe’ guernire
     di ciò che gli parea che bisognassi;
     e in pochi dì ne venne al re Falcone
     come uom bestial sanza altra discrezione.

111 Sanza osservare o legge o fede o patto,
     con questa gente intorno s’accampòe;
     e manda un suo messaggio drento ratto.
     E ’l messo al re dinanzi se n’andòe
     e disse brievemente appunto il fatto,
     siccome il suo signor gli comandòe:
     che mandi presto al campo a sua difesa
     colui ch’al suo fratel fe’ tanta offesa.

112 E sta sopra una alfana e suona un corno
     e minacciava il cielo e la natura.
     Orlando, come inteso ha Salicorno,
     fece a Terigi darsi l’armadura;
     e la figliuola del re gli è dintorno,
     dicendo: - Iddio ti dia, baron, ventura,
     e in ogni modo vincitor ti faccia,
     poi che Fortuna ancor pur mi minaccia. -

113 Diceva Orlando: - Non temer, donzella,
     ché in ogni modo rimarren vincenti:
     ch’a Salicorno trarrò la mascella,
     s’al suo fratello ho tratto solo i denti. -
     E con Terigi suo montato è in sella.
     Ma la fanciulla, e certi suoi sergenti,
     volle con lui sino in sul campo andare;
     ché sanza lui non si fidava stare.

114 Disse il gigante: - Se’ tu quel pagano
     ch’al mio Don Bruno hai fatto villania?
     È questa la tua femina, ruffiano? -
     Rispose Orlando: - Per la testa mia,
     che gentilezza è teco esser villano!
     Così di te come dell’altro fia:
     quel ch’io gli ho fatto mi pare una zacchera;
     tanto è che preso non fia più a mazzacchera.

115 Questa fanciulla, ha cento servi il padre,
     che te per servo non vorrebbon, credi;
     e le sue membra, che son sì leggiadre,
     volevi pel tributo ch’ancor chiedi;
     e se’ venuto qua con queste squadre,
     e di’ ch’io son ruffian: néttati i piedi,
     ché, per voler bagasce e concubine,
     arà il peccato tuo sue discipline. -

116 Disse il gigante: - E’ non son sempre equali,
     come tu sai, le forze di ciascuno:
     i denti miei saranno di cinghiali:
     non ti parranno forse di Don Bruno.
     Otto giganti siàn, fratei carnali:
     signor là della valle di Malpruno
     cinque ne sono, e noi tre siamo insieme
     dove la rena come il gran mar freme. -

117 Rispose Orlando: - E cinque pel bollire
     sono scemati, e questo abbi per certo:
     con questa spada un ne feci morire,
     e l’altro un mio cugin ch’è molto sperto.
     Una fanciulla usoron già rapire
     al re Costanzo, e stavan nel deserto;
     quale ho con meco molto ornata e bella,
     e voglio al padre suo rimenar quella.

118 E s’io ritorno mai per quel paese,
     ch’io truovi ancor que’ tre nella foresta,
     io non sarò, com’io fu’ già, cortese,
     ch’a tutti a tre dipartirò la testa. -
     Or Salicorno tanta ira l’accese
     che cominciava a menar gran tempesta,
     quando e’ sentì ricordar tanti torti,
     e come due de’ suoi fratei son morti.

119 Traditor rinnegato, micidiale,
     piglia del campo! - con un grido disse.
     Orlando a Vegliantin fe’ metter ale;
     poi si voltava e l’aste in basso misse,
     ch’era uno abete saldo e naturale
     qual tolse alla città prima partisse;
     e giunse con la lancia dura e grave
     nel petto a quel, che gli parve una trave;

120 e disse: «Che dïavol fia, Macone!
     Questa mi pare un albero di fusta!».
     La lancia resse alla percussïone,
     perch’era dura e grossa e molto giusta;
     ma regger non poté quel compagnone
     né la sua alfana, benché sia robusta:
     dunque fu il colpo di tanta bontade
     che Salicorno e l’alfana giù cade.

121 La figliuola del re, che vide questo,
     fra sé disse: «Un miracolo ho veduto!».
     E ’l gran gigante feroce e rubesto
     disse a Orlando: - Tu non m’hai abbattuto! -
     e saltò della sella in terra presto.
     - Vedi che staffa non ebbi perduto:
     è stato sol difetto dell’alfana,
     e la tua lancia fu molto villana. -

122 Rispose Orlando: - S’ tu non se ben chiaro,
     io ti potrei col brando chiarir tosto:
     a ogni cosa troverren riparo. -
     Disse il pagan: - Per Dio, s’io mi t’accosto,
     io ti farò costar quel colpo caro. -
     Diceva Orlando: - E pagherai tu il costo. -
     E Durlindana sua fuori ha tirata,
     e Salicorno ha la mazza ferrata.

123 Qui si comincia a sentir vespro e nona;
     qui le dolente note cominciorno;
     qui innanzi mattutin già terza suona;
     qui non si poson le mosche dintorno;
     qui sanza balenar l’aria rintruona;
     qui purga i suoi peccati Salicorno;
     qui si vedrà chi saprà di schermaglia;
     qui mostra Durlindana s’ella taglia.

124 Il saracin talvolta alza la mazza,
     e dice: - Aspetta, ch’io ti forbo il nifo. -
     E ’l paladin rispondea: - Bestia pazza,
     che dirai tu se col brando lo schifo? -
     e ritrovava a costui la corazza,
     tanto che spesso scontorceva il grifo;
     ma non poteva colpirlo all’elmetto,
     però che allato gli pare un fiaschetto.

125 E Salicorno per la sua grandezza
     alcuna volta la mazza fallava:
     un tratto mena con tanta fierezza
     che, giunto a vòto, in terra rovinava.
     Orlando volle mostrar gentilezza:
     - Lieva sù! - disse; e ’l pagan si levava,
     e disse: - Dimmi, cavalier da guerra,
     per che cagion non mi feristi in terra?

126 Tu debbi esser per certo un uom gentile,
     di nobil sangue, tu non puoi negarlo:
     tu non volesti darmi come vile;
     se lecito, barone, è quel ch’io parlo,
     dimmi il tuo nome. - Orlando, come umìle,
     rispose: - Io son nipote del re Carlo,
     Orlando di Mellon figliuol, d’Angrante,
     nimico d’Apollino e Trivicante. -

127 Sentendo Salicorno dire «Orlando»,
     cominciò il cuore a tremargli e la mano
     e disse: - Onde venuto o come o quando
     se’, paladino, in questo luogo strano?
     Non vo’ con teco operar mazza o brando,
     ch’io so che ’l mio poter sarebbe vano;
     da ora innanzi sia come tu vuoi,
     ché la battaglia è finita tra noi.

128 Odo che ’l fior se’ di tutti i cristiani
     e che tu se’ fatato per antico.
     Io vo’ più tosto trovarmi alle mani
     col tuo cugin, ch’è molto mio nimico,
     e vendicarmi d’assai casi strani;
     e vo’ che mi prometta come amico,
     quando col tuo Rinaldo tu sarai,
     per qualche modo me ne avviserai:

129 ch’io son disposto rompergli la fronte,
     però che mio nimico è in sempiterno;
     e s’egli è della schiatta di Chiarmonte,
     ed io del sangue son di Salinferno,
     e non intendo sofferir tante onte:
     colui che ’l nome suo risuona etterno,
     Mambrin dell’Ulivante, anco era nato
     del sangue mio da ciascuno onorato. -

130 Disse Orlando: - Io non so dove si sia
     Rinaldo ancor; ma s’io lo troverròe,
     sùbito un messo a te mandato fia;
     e ’n questo modo andar ti lasceròe,
     ch’al re Falcon non dia più ricadia;
     benché malvolentier ti liberròe;
     ma so che tu darai nell’altra rete,
     se con Rinaldo mio vi proverrete. -

131 Il saracin promisse licenziare
     del tributo quel re liberamente,
     e fece il campo suo presto levare.
     Orlando al re Falcon subitamente
     nella città tornava a raccontare
     come egli è salvo, e libera sua gente;
     e dopo alquanti dì prese comiato,
     e lasciò quello al tutto sconsolato.

132 E cavalcando va per molte strade
     sanza posarsi mai sera o mattina,
     e domandando va per le contrade
     dove stia il re della Bellamarina;
     tanto che giunse un giorno alla cittade,
     e quella damigella peregrina
     rappresentava al suo doglioso padre,
     che l’ha gran tempo pianta, e la sua madre.

133 Era vestito a nero la città
     e ’l re con tutti i suoi, con molto affanno,
     né sopra i campanil gridando va
     ne’ suoi paesi più il talacimanno;
     per le moschee molti ufici si fa
     al modo lor, ché di costei non sanno
     dove perduta sia già stata tanto,
     sì che per morta n’avean fatto il pianto.

134 La novella n’andò con gran furore
     al re Costanzo, come la sua figlia
     era venuta: onde e’ gli crebbe il core,
     e corse incontro con la sua famiglia;
     e tutta la città trasse al romore,
     come avvien sempre d’ogni maraviglia:
     ognun voleva il primo abbracciar questa;
     pensa se ’l padre suo gli fece festa.

135 Ella gli disse: - Questo è il conte Orlando -,
     e dove e come e’ l’aveva trovata
     e da’ giganti tolta, e disse quando
     ed in che modo l’avevon rubata,
     e tutta la sua vita vien contando,
     e come pel cammin l’abbi onorata
     Orlando sempre, insin che l’ha condotta.
     Il re Costanzo così disse allotta:

136 Questo è colui che ti scampò da morte?
     Questo è colui che t’ha dunque prosciolta?
     Questo è colui ch’è tanto ardito e forte?
     Questo è colui ch’agli altri fama ha tolta?
     Questo è colui ch’allegra or la mia corte?
     Questo è colui per cui non se’ sepolta?
     Questo è colui ch’uccise il fer gigante?
     Questo è colui ch’è ’l gran signor d’Angrante?

137 Non cavalca caval miglior barone,
     né miglior cavalier porta elmo in testa;
     non cinse spada mai simil campione,
     né miglior paladin pon lancia in resta;
     non uom tanto gentil si calza sprone. -
     Ed abbracciava Orlando con gran festa,
     e la reina e lui lo ringraziorno,
     e tutto il popol suo che gli è dintorno.

138 Or lasciàn questi star così contenti;
     ritorniamo al Soldan di Bambillona,
     che non pareva già che si rammenti
     di quel ch’Antea promisse sua Corona
     de’ due prigion, ma pensava altrimenti
     di tòr sùbito a questi la persona,
     prima che sia Rinaldo a lui tornato
     dal Veglio, dove sa che l’ha mandato.

139 Mandò pel giustizier quel traditore;
     e scrisse un brieve per la gran letizia
     al re Costanzo, per mostrargli amore,
     che venissi a veder questa giustizia,
     dicendo: «Sappi, famoso signore,
     ch’io gli ho a punir di più d’una malizia»;
     com’io dirò nell’altro cantar bello.
     Guardivi sempre l’agnol Rafaello.