Mirra (Alfieri, 1946)/Atto primo
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ATTO PRIMO
SCENA PRIMA
Cecri, Euriclea.
l’alba; e sí tosto a me venir non suole
il mio consorte. Or, della figlia nostra
misera tanto, a me narrar puoi tutto.
Giá l’afflitto tuo volto, e i mal repressi
tuoi sospiri, mi annunziano...
Euric. Oh regina!...
Mirra infelice, strascína una vita
peggio assai d’ogni morte. Al re non oso
pinger suo stato orribile: mal puote
un padre intender di donzella il pianto;
tu madre, il puoi. Quindi a te vengo; e prego,
che udir mi vogli.
Cecri È ver, ch’io da gran tempo
di sua rara beltá languire il fiore
veggo: una muta, una ostinata ed alta
malinconia mortale appanna in lei
quel sí vivido sguardo: e, piangesse ella!...
Ma, innanzi a me, tacita stassi; e sempre
pregno ha di pianto, e asciutto sempre ha il ciglio.
E invan l’abbraccio; e le chieggo, e richieggo,
invano ognor, che il suo dolor mi sveli:
io dal dolor strugger la veggio.
Euric. A voi
ella è di sangue figlia; a me, d’amore;
ch’io, ben sai, l’educava: ed io men vivo
in lei soltanto; e il quarto lustro è quasi
a mezzo giá, che al seno mio la stringo
ogni dí fra mie braccia... Ed or, fia vero,
che a me, cui tutti i suoi pensier solea,
tutti affidar fin da bambina, or chiusa
a me pure si mostri? E s’io le parlo
del suo dolore, anco a me il niega, e insiste,
e contra me si adira... Ma pur, meco
spesso, malgrado suo, prorompe in pianto.
Cecri Tanta mestizia, in quel cor giovenile,
io da prima credea, che figlia fosse
del dubbio, in cui su la vicina scelta
d’uno sposo ella stavasi. I piú prodi
d’Asia e di Grecia principi possenti,
a gara tutti concorreano in Cipro,
di sua bellezza al grido: e appien per noi
donna di se quanto alla scelta ell’era.
Turbamento non lieve in giovin petto
dovean recare i varj, e ignoti, e tanti
affetti. In questo, ella il valor laudava;
dolci modi, in quello: era di regno
maggiore l’un; con maestá beltade
era nell’altro somma: e qual piaceva
piú agli occhi suoi, forse temea che al padre
piacesse meno. Io, come madre e donna,
so qual battaglia in cor tenero e nuovo
di donzelletta timida destarsi
per tal dubbio dovea. Ma, poiché tolta
ogni contesa ebbe Peréo, di Epíro
l’erede; a cui, per nobiltá, possanza,
valor, beltade, giovinezza, e senno,
scelta di Mirra a noi pur tanto piacque;
quando in se stessa compiacersen ella
lieta dovea; piú forte in lei tempesta
sorger vediamo, e piú mortale angoscia
la travaglia ogni dí?... Squarciar mi sento
a brani a brani a una tal vista il core.
Euric. Deh, scelto pur non avesse ella mai!
Dal giorno in poi, sempre il suo mal piú crebbe:
e questa notte, ch’ultima precede
l’alte sue nozze, (oh cielo!) a lei la estrema
temei non fosse di sua vita. — Io stava
tacitamente immobil nel mio letto,
che dal suo non è lungi; e, intenta sempre
ai moti suoi, pur di dormir fea vista:
ma, mesi e mesi son, da ch’io la veggo
in tal martír, che dal mio fianco antico
fugge ogni posa. Io del benigno Sonno,
infra me tacitissima, l’aíta
per la figlia invocava: ei piú non stende
da molte e molte notti l’ali placide
sovr’essa. — I suoi sospiri eran da prima
sepolti quasi; eran pochi; eran rotti:
poi (non udendomi ella) in sí feroce
piena crescean, che al fin, contro sua voglia,
in pianto dirottissimo, in singhiozzi
si cangiavano, ed anco in alte strida.
Fra il lagrimar, fuor del suo labro usciva
una parola sola: «Morte... morte;»
e in tronchi accenti spesso la ripete.
Io balzo in piedi; a lei corro, affannosa:
ella, appena mi vede, a mezzo taglia
ogni sospiro, ogni parola e pianto;
e, in sua regal fierezza ricomposta,
meco adirata quasi, in salda voce
mi dice: «A che ne vieni? or via, che vuoi?...»
e l’abbracciava, e ripiangeva... Al fine
riebbi pur lena, e parole. Oh, come
io la pregai, la scongiurai, di dirmi
il suo martír, che rattenuto in petto,
me pur con essa uccideria!... Tu madre,
con piú tenero e vivo amor parlarle
non potevi, per certo. — Ella il sa bene,
s’io l’amo; ed anche, al mio parlar, di nuovo
gli occhi al pianto schiudeva, e mi abbracciava,
e con amor mi rispondea. Ma, ferma
sempre in negar, dicea; ch’ogni donzella,
per le vicine nozze, alquanto è oppressa
di passeggera doglia; e a me il comando
di tacervelo dava. Ma il suo male
sí radicato è addentro, egli è tant’oltre,
ch’io tremante a te corro; e te scongiuro
di far sospender le sue nozze: a morte
va la donzella, accertati. — Sei madre;
nulla piú dico.
Cecri ... Ah!... pel gran pianto,... appena...
parlar poss’io. — Che mai, ch’esser può mai?...
Nella sua etade giovanil, non altro
martíre ha loco, che d’amor martíre.
Ma, s’ella accesa è di Peréo, da lei
spontanea scelto, onde il lamento, or ch’ella
per ottenerlo sta? se in sen racchiude
altra fiamma, perché scegliea fra tanti
ella stessa Peréo?
Euric. ... D’amor non nasce
il disperato dolor suo; tel giuro.
Da me sempr’era custodita; e il core
a passíon nessuna aprir potea,
ch’io nol vedessi. E a me lo avria pur detto;
a me, cui tiene (è ver) negli anni madre,
ma in amore, sorella. Il volto, e gli atti,
mel dice assai, ch’ella Peréo non ama.
Tranquilla almen, se non allegra, ella era
pria d’aver scelto: e il sai, quanto indugiasse
a scegliere. Ma pur, null’uomo al certo
pria di Peréo le piacque: è ver, che parve
ella il chiedesse, perché elegger uno
era, o il credea, dovere. Ella non l’ama;
a me ciò pare: eppur, qual altro amarne
a paragon del gran Peréo potrebbe?
D’alto cor la conosco; in petto fiamma,
ch’alta non fosse, entrare a lei non puote.
Ciò ben poss’io giurar: l’uom ch’ella amasse,
di regio sangue ei fora; altro non fora.
Or, qual ve n’ebbe quí, ch’ella a sua posta
far non potesse di sua man felice?
D’amor non è dunque il suo male. Amore,
benché di pianto e di sospir si pasca,
pur lascia ei sempre un non so che di speme,
che in fondo al cor traluce; ma di speme
raggio nessuno a lei si affaccia: è piaga
insanabil la sua; pur troppo!... Ah! morte,
ch’ella ognor chiama, a me deh pria venisse!
Almen cosí, struggersi a lento fuoco
non la vedrei!...
Cecri Tu mi disperi... Ah! queste
nozze non vo’, se a noi pur toglier ponno
l’unica figlia... Or va; presso lei torna;
e non le dir, che favellato m’abbi.
Colá verrò, tosto che asciutto il ciglio
io m’abbia, e in calma ricomposto il volto.
Euric. Deh! tosto vieni. Io torno a lei; mi tarda
di rivederla. Oh ciel! chi sa, se mentre
io cosí a lungo teco favellava,
chi sa, se nel feroce impeto stesso
di dolor non ricadde? Oh! qual pietade
deh! non tardare; or, quanto indugi meno,
piú ben farai...
Cecri Se l’indugiar mi costi,
pensar tu il puoi: ma in tanto insolit’ora,
né appellarla vogl’io, né a lei venirne,
né turbata mostrarmele. Non vuolsi
in essa incuter né timor, né doglia:
tanto è pieghevol, timida, e modesta,
che nessun mezzo è mai benigno troppo,
con quella nobil indole. Su, vanne;
e posa in me, come in te sola io poso.
SCENA SECONDA
Cecri.
ch’io con lei mi consumo; e neppur traccia
della cagion del suo dolor ritrovo! —
Di nostra sorte i Numi invidi forse,
torre or ci von sí rara figlia, a entrambi
i genitor solo conforto e speme?
Era pur meglio il non darcela, o Numi.
Venere, o tu, sublime Dea di questa
a te devota isola sacra, a sdegno
la sua troppa beltá forse ti muove?
Forse quindi al par d’essa in fero stato
me pur riduci? Ah! la mia troppa e stolta
di madre amante baldanzosa gioja,
tu vuoi ch’io sconti in lagrime di sangue...
SCENA TERZA
Ciniro, Cecri.
Euricléa di svelarmelo costrinsi.
Ah! mille volte pria morir vorrei,
che all’adorata nostra unica figlia
far forza io mai. Chi pur creduto avrebbe,
che trarla a tal dovessero le nozze
chieste da lei? Ma, rompansi. La vita
nulla mi cal, nulla il mio regno, e nulla
la gloria mia pur anco, ov’io non vegga
felice appien la nostra unica prole.
Cecri Eppur, volubil mai Mirra non era.
Vedemmo in lei preceder gli anni il senno;
saggia ogni brama sua; costante, intensa
nel prevenir le brame nostre ognora.
Ben ella il sa, se di sua nobil scelta
noi ci estimiam beati: ella non puote
quindi, no mai, pentirsene.
Ciniro Ma pure,
s’ella in cor sen pentisse? — Odila, o donna:
tutti or di madre i molli affetti adopra
con lei; fa ch’ella al fine il cor ti schiuda,
sin che n’è tempo. Io t’apro il mio frattanto;
e dico, e giuro, che il pensier mio primo
è la mia figlia. È ver, che amico farmi
d’Epíro il re mi giova: e il giovinetto
Peréo suo figlio, alla futura spene
d’alto reame, un altro pregio aggiunge,
agli occhi miei maggiore. Indole umana,
e cuor, non men che nobile, pietoso
ei mostra. Acceso, in oltre, assai lo veggio
di Mirra. — A far felice la mia figlia,
scer non potrei piú degno sposo io mai;
giusto saria lo sdegno, ove la data
fe si rompesse; e a noi terribil anco
esser può l’ira loro: ecco ragioni
molte, e possenti, d’ogni prence agli occhi;
ma nulle ai miei. Padre, mi fea natura;
il caso, re. Ciò che ragion di stato
chiaman gli altri miei pari, e a cui son usi
pospor l’affetto natural, non fia
nel mio paterno seno mai bastante
contra un solo sospiro della figlia.
Di sua sola letizia esser poss’io,
non altrimenti, lieto. Or va; gliel narra;
e dille in un, che a me spiacer non tema,
nel discoprirmi il vero: altro non tema,
che di far noi con se stessa infelici.
Frattanto udir vo’ da Peréo, con arte,
se riamato egli s’estima; e il voglio
ir preparando a ciò che a me non meno
dorria, che a lui. Ma pur, se il vuole il fato,
breve omai resta ad arretrarci l’ora.
Cecri Ben parli: io volo a lei. — Nel dolor nostro,
gran sollievo mi arreca il veder, ch’uno
voler concorde, e un amor solo, è in noi.