Questa pagina è stata trascritta, formattata e riletta. |
atto primo | 225 |
SCENA TERZA
Ciniro, Cecri.
Euricléa di svelarmelo costrinsi.
Ah! mille volte pria morir vorrei,
che all’adorata nostra unica figlia
far forza io mai. Chi pur creduto avrebbe,
che trarla a tal dovessero le nozze
chieste da lei? Ma, rompansi. La vita
nulla mi cal, nulla il mio regno, e nulla
la gloria mia pur anco, ov’io non vegga
felice appien la nostra unica prole.
Cecri Eppur, volubil mai Mirra non era.
Vedemmo in lei preceder gli anni il senno;
saggia ogni brama sua; costante, intensa
nel prevenir le brame nostre ognora.
Ben ella il sa, se di sua nobil scelta
noi ci estimiam beati: ella non puote
quindi, no mai, pentirsene.
Ciniro Ma pure,
s’ella in cor sen pentisse? — Odila, o donna:
tutti or di madre i molli affetti adopra
con lei; fa ch’ella al fine il cor ti schiuda,
sin che n’è tempo. Io t’apro il mio frattanto;
e dico, e giuro, che il pensier mio primo
è la mia figlia. È ver, che amico farmi
d’Epíro il re mi giova: e il giovinetto
Peréo suo figlio, alla futura spene
d’alto reame, un altro pregio aggiunge,
agli occhi miei maggiore. Indole umana,
e cuor, non men che nobile, pietoso
ei mostra. Acceso, in oltre, assai lo veggio
di Mirra. — A far felice la mia figlia,
scer non potrei piú degno sposo io mai;
V. Alfieri, Tragedie — III. | 15 |