Memorie inutili/Parte seconda/Capitolo VI

Capitolo VI

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CAPITOLO VI

Principio di turbolenze nella compagnia comica del Sacchi.

Mia costanza e miei eroismi ridicoli.

Dopo dieci anni della mia ricreazione comica, era tempo che ella dovesse essere intorbidata da qualche fastidioso principio.

Le due notti affannose, altro mio nuovo bizzarro aborto scenico, aveva data al Sacchi molta utilitá.

La compagnia da me soccorsa, fornita in quel tempo di buoni attori anche per le parti di seria passione, aveva incominciato ad alterare il costume morale; ma aveva l’arte tuttavia di mantenere un’apparente austera onestá, e la predicava. Parevami di rilevare in quella societá de’ modi differenti da prima, e sceniata la buona armonia de’ tempi anteriori.

La dissensione tra parenti aveva incominciato a scagliare i suoi semi. De’ comici forestieri, accettati per rinforzo, giovavano alle rappresentazioni, ma guastavano de’ cervelli della prima tanto pacifica brigata. Satireggiavano l’amministrazione degli utili e la condotta. Accusavano d’ingiustizia, di tirannia e anche di furto i disponitori. Commiseravano quelli che si credevano oppressi; gettavano le pietre e nascondevano le mani che le aveano scagliate. Piccandosi di sapienza con tutta la loro ignoranza, erano giunti a far credere a parte della societá che l’opere da me donate non erano di quel profitto che si credeva ciecamente. Attribuivano il concorso alle decorazioni e alle loro particolari bravure. Non dissimili dalla mosca d’Esopo, ferma sulla schiena del destriere in carriera, dicevano: — Vedi quanta polvere innalziamo dal terreno. — Con certi conteggi maliziosi di spese che costava la decorazione delle mie favole e con delle accuse agli amministratori dell’impresa comica, ammutinavano alcuni degl’interessati, sfumavano il merito mio nelle teste di [p. 276 modifica]quelli e innestavano l’ira e il sospetto contro al Sacchi direttore. Gli persuadevano a non resistere sozi all’impresa, e li ridussero a voler essere stipendiati e ad odiarsi perfettamente.

L’umanitá in generale non vorrebbe sentire il peso di alcun debito, e nemmeno quello della gratitudine che niente costa. L’amor proprio le suggerisce alcune strane teologie, da far divenir credito ciò ch’è debito. È da assicurarsi che in questo proposito l’umanitá comica sia molto peggiore di tutti gli altri ceti dell’umanitá. Niente alterava il mio risibile sulle mie osservazioni riguardo a me e riguardo al bene lucroso e al risorgimento che aveva proccurato a una societá comica oppressa e desolata.

I piú vecchi e piú accorti comici di quella non lasciavano però di coltivarmi e di pregarmi de’ miei poetici soccorsi.

Senza mostrar di sapere le opinioni offensive a’ miei doni sparse per la loro repubblica, e che invero saper non doveva, e senza dinotare il menomo disgusto, credei di dover sospendere per alcun anno di dar loro de’ nuovi miei scenici capricci. Non ho migliori maniere di tentare la guarigione delle teste pregiudicate, indiscrete e sconoscenti. Mi scansai con de’ pretesti di occupazioni famigliari dal donar loro de’ novelli drammi.

Le genti avvezze a’ nuovi generi, nel primo anno cominciarono a mormorare della mancanza. Nel secondo cominciarono a gridare. Scemava il pubblico favore. Il teatro del Sacchi diveniva un diserto, e non mancava chi dalle logge diceva altamente delle ingiurie a’ comici. La deiezione cresceva di giorno in giorno. Allora fu che tutti gli attori proruppero in espressioni affettuose universali ed in vive preghiere verso di me.

Aveva avvezzato il pubblico a de’ generi nuovi in quella compagnia. Quella compagnia aveva sostenuto il mio letterario puntiglio. Parevami d’averle fatto piú un male che un bene ad assisterla per dieci anni, indi ad abbandonarla. Io non mi degno di considerare affronto ciò ch’esce da’ comici. Averei potuto [p. 277 modifica]ridere loro in faccia e voltar loro le spalle. Risi tra me medesimo e rinnovellai la mia assistenza fervorosa con delle opere nuove che piacquero, come dirò.

I padroni degli altri teatri di Venezia, che si vedevano estremamente danneggiati dalle mie, quali si fossero, sceniche novitá, mi circuivano con delle esibizioni male a proposito, perché mi arrendessi a sostenere i loro ricinti; e le belle comiche di que’ ricinti non mancavano di ordirmi intorno de’ lacci e delle reti di vezzi. Meritavano tutto, ma io ero abbastanza faceto eroe per non disertare da’ miei protetti.

Il Sacchi si lagnava spesso d’essere co’ suoi campioni nei teatri piú lontani e piú incomodi alla popolazione, come sono quelli in San Samuele e in Sant’Angelo, ne’ quali ci volevano le mie novitá bizzarre e grandi per godere dell’utile d’un’attrazione efficace e d’un avviamento perseverante. Sospirava ognora per entrare nel teatro in San Salvatore, favoritissimo per essere piantato nel centro ed a portata della maggior popolazione di Venezia.

Perché le opere delli signori Goldoni e Chiari avevano un tempo sostenuti in dovizia i teatri non possessi dal Sacchi, e perché erano decaduti ad onta di molte traduzioni dal teatro francese e di molti pisciarelli scenici di alcuni poetuzzi sognanti coltura, introdotti a fronte delle mie poetiche fantasie, chiamate da quelli «bestialitá»; Sua Eccellenza Vendramini, proprietario del teatro in San Salvatore, mi fece assalire da un prete mio amico, appellato don Baldassare, con le esibizioni di molte cordialitá e molte utilitá se, abbandonando la compagnia del Sacchi, avessi voluto intraprendere di soccorrere il drappello comico del suo teatro in San Salvatore.

Risposi da Attilio Regolo, ch’io non scriveva prezzolato, ma per mio passatempo; che sino che la compagnia del Sacchi non si sciogliesse o riducesse all’impotenza, non averei composti e donati i miei scenici abbozzi che a quella; che se l’Eccellenza Sua aveva la condiscendenza di considerare per utili i miei mostruosi parti teatrali e li desiderava rappresentati nel suo teatro, poteva aver tutti quelli che l’estro e non mai il [p. 278 modifica]comando m’avesse suggeriti, col porre in possesso del suo ricinto la compagnia diretta dal Sacchi.

Non passarono molti mesi che fui scelto dal cavaliere mediatore de’ patti tra lui ed il Sacchi. Feci io da notaio, estesi la scrittura di locazione, e posi quel capocomico nel teatro che tanto desiderava.

Averei voluto abbandonare la comica poesia e attenermi a’ miei privati divertimenti poetici; ma oltre all’essere affogato dalle preghiere, stimolato dalla necessitá della compagnia in quel cambiamento di teatro da me proccurato e da me per un lungo corso d’anni soccorsa, mi pareva di mancare al cavaliere, che in parte a contemplazione all’opere mie novelle era disceso a concedere il suo teatro a’ miei protetti. Anche una lunga usanza fissata di conversazione famigliare e gioviale da me presa con quelle genti fu una delle ragioni della mia resistenza.

Tutti i sopraddetti miei delicati sentimenti non starebbero male, se tutti gli uomini fossero di quelli suscettibili. Le mie osservazioni mi fecero comprendere la ragione per cui gli uomini oggidí detti di spirito e grandi chiamano i riguardi di delicatezza d’animo, vergognosa miseria del cuore.

Siccome perseverai per forse altri quattordici anni all’assistenza e alla famigliaritá con que’ comici, averò argomento di scrivere parecchi capitoli di memorie relativi a cotesti quattordici anni della mia vita, che odoreranno di teatro, che saranno sincerissimi, riflessivi e lepidi per quanto potrò; e si rileverá in questi come la mia disinteressata eroica assistenza usata verso alle dette persone teatrali incominciò ad essere imbarazzata per de’ comici eventi, e come la mia buona fede mal impiegata si meritasse infine, piú che il titolo di buona fede, il titolo legittimo di sciocchezza.