Memorie inutili/Parte prima/Capitolo XXX
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CAPITOLO XXX
Causa passiva fastidiosa.
Sarei presuntuoso se pretendessi che i lettori di queste inette Memorie dovessero ricordarsi che nel capitolo ventesimo secondo dissi che, tra i molti assalti forensi che mi furono fatti per sconfiggermi, la moglie di mio fratello aveva data una dimanda in giudizio d’una buona somma di ducati, pretendendo un credito sulla sua amministrazione vivente mio padre, e che questa sua pretesa niente era stata considerata nelle convenzioni tra fratelli, madre e sorelle. Parecchi anni trascorsi, la buona armonia, che pareva incominciata tra le famiglie sulle mie fatiche a pro di tutti, m’avevano fatto dimenticare quella mostruosa pretesa come pretesa spirata.
Le conseguenze sul teatro diretto col semplice nome di mio fratello Gasparo, furono relative alle predizioni comuni. Una tale intrapresa fruttò al pover’uomo, in iscambio degli utili che gli erano stati pronosticati, di quelle vessazioni e di quelle aggressioni che per l’animo suo e per le sue doti non meritava, ma che sogliono essere parti naturali di tali intraprese.
Il puntiglio e la vendetta occulti, uniti al bisogno, bruttissima sfinge, per i debiti incontrati nel disordine di quel negozio poco favorito dal pubblico, fecero che la di lui moglie suscitasse di nuovo le di lei pretese a’ tribunali, dell’avanzo (diceva ella) di quanto aveva speso nelle sue antiche amministrazioni.
Gli assaliti in questa lite eravamo soltanto noi tre fratelli, Francesco, Carlo ed Almorò firmatori de’ caratteri magici e de’ pentacoli di negromanzia della cognata, a solo fine ch’ella non dovesse temere pretese da noi. Il fratello maggiore, che aveva firmato il primo per dar buon esempio a’ fratelli minori, non era chiamato in giudizio dalla moglie.
I miei celebri avvocati signori Federico Todeschini e Francesco Massarini, uniti al signor Testa, dicevano per una apparente veritá che il fratello Gasparo faceva a noi tre quella lite.
Io conosceva l’indole pacifica del fratello e un animo in lui bensí capace di lasciar correre de’ disordini, o per aver la sua quiete o per la sua indolenza, ma non atto per se medesimo a promovere de’ litigi forensi.
Sapeva che non solo era disceso, per fuggire una tempesta di circuizioni, all’impresa teatrale, ma che dopo le divisioni seguite con noi, la moglie colla famiglia, senza rendere a lui conto alcuno, aveva cambiato d’abitazione piú di sei volte, per temperamento inquieto o, vogliamo dire, attivo, e ch’egli era andato a picchiare all’uscio degli alberghi primi, giá vuoti, per alloggiare, ricevendo le notizie, da’ vicini compassionevoli di vederlo stanco sul battitoio, che la di lui famiglia era uscita e andata ad abitare nella tale o tale contrada.
M’era noto che la moglie col suo nome aveva venduti de’ stabili sulla di lui vita di sua ragione, e che finalmente, per fuggire egli un vortice d’inquietudini, s’era prese due stanze in affitto lontane dalla sua famiglia, nelle quali, recato il monticello de’ libri suoi e sprofondato ne’ studi, cercava una pace che tuttavia non poteva avere, perocché un padre di famiglia che fugge da’ pensieri domestici non fa che tirarsi addosso de’ piú afflittivi pensieri di quelli che fugge.
Con questi ragguagli legittimi proccurava di assicurare i miei avvocati che il fratello non aveva parte alcuna nell’assalto delle pretensioni della moglie.
In questo piato quel Giovanni Antonio Gusèo, aderente della cognata, da me altre volte nominato, deponeva in giudizio colla esibizione d’un falsissimo giuramento, che noi tre fratelli avevamo ordinato e comandato a lui di rivedere e d’esaminare con tutto il rigore i conti dell’amministrazione tenuta dalla cognata, e che l’aveva ritrovata reale creditrice della somma ch’ella ci chiedeva.
Breve. Non valse nulla il profluvio delle nostre ragioni. Il dire che una femmina, entrata moglie in una famiglia senza alcuna dote o dimissoria, che s’era proccurato un maneggio e una disposizione delle rendite famigliari per una lunga serie d’anni per l’indolenza di chi doveva reggere, non poteva per una massima generale e salutare formarsi creditrice; il predicare la collusione d’un fratello colla moglie contro a tre innocenti fratelli, due de’ quali erano stati lontani parecchi anni senza aggravare la famiglia; il provare che il padre e la madre della pretendente sino dal punto del suo matrimonio erano stati accolti nella casa nostra, mantenuti per ben quindici anni sino alla morte loro, e che i parenti della cognata erano per lungo corso d’anni stati piú padroni nel nostro albergo de’ padroni legittimi; il mostrare i scartafacci informi, non intelligibili, da noi firmati dietro all’esempio del maggiore fratello col solo fine di calmare de’ spiriti turbolenti; il far vedere numeri viziati e ricomposti; l’esibire di pagare tutti que’ creditori che avessero dati danari o effetti alla nostra assalitrice per causa della sua casalinga amministrazione; furono favolette disputate da’ celebri nostri avocati signori Federico Todeschini e Francesco Massarini arringatori. Due avvocatuzzi screditati, degl’infimi del fòro veneto, poterono fare che i giudici sapientissimi col maggior numero de’ voti c’insegnassero che si deve molto bene aprir gli occhi prima di firmare de’ fogli. Da quel punto io leggo dieci volte sino le mie lettere prima di firmarle.
Le mie risa vennero in soccorso anche a quella perdita, né mi sognai di lagnarmi col fratello Francesco, che aveva voluta quella soscrizione ad oggetto di calma. Egli andava protestando mesto alle mie risa, che non averebbe mai potuto immaginare una tale sciagura, e le sue proteste raddoppiavano il mio ridere.
Si accordarono verso a settecento ducati di credito alla cognata, i quali non furon d’alcun soccorso alla famiglia del fratello.
De’ creditori, la maggior parte commedianti che avevano servito alla mal consigliata impresa, gli sequestrarono nelle mie mani, e furono da me pagati a’ famelici che avevano ragione, col consenso del fratello e della cognata.
Molti altri posteriori litigi, faceti ma fastidiosi, relativi a quella causa, mi molestarono. Per avvalorare il suo credito, la cognata aveva avuta l’abilitá di ridurre una lunga schiera di persone, che si dicevano suoi creditori per averle somministrato danari e robe a’ bisogni della nostra famiglia, e le avevano sottoscritti degli attestati di voler riconoscere lei sola per debitrice, ch’ella aveva presentati in giudizio.
Un vespaio di questi aventi credito, delusi nel loro pagamento, a litigio terminato e soluto sequestrò le migliori nostre sostanze per volere il pagamento da noi tre fratelli. Non dovevamo pagare doppiamente, ma per affogar l’idra e per fugare il vespaio ho dovuto molto correre e far molto disputare a’ tribunali.
A tali passive vessazioni s’aggiunse una mia grave infermitá a farmi ritardare la lite che aveva incominciata col signor marchese Terzi di Bergamo. Riservo a degli altri capitoli della materia, perché de’ sbadigli, che precedono quelli del mio lettore, m’impediscono il proseguire per ora.