Memorie autobiografiche/Primo Periodo/I
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Capitolo I.
I miei genitori.
Io non devo dar principio a narrare della mia vita, senza far cenno de’ miei buoni genitori, il di cui carattere ed amorevolezza tanto influirono sull’educazione mia e sulle disposizioni del mio fisico.
Mio padre, figlio di marino e marino lui stesso dall’età più tenera, non avea certamente quelle cognizioni di cui sono fregiati gli uomini del suo ceto, nella generazione nostra.
Giovine avea servito sui bastimenti di mio avo; più avanti avea comandato bastimenti propri. Vari erano stati i periodi della di lui fortuna, e non di rado lo udii raccontare che più agiati avrebbe potuto lasciarci. Io però gli sono riconoscentissimo del come mi ha lasciato, ben persuaso ch’ei nulla trascurò per educarmi anche in tempi ove, scaduto di fortuna, l’educazione dei figli disagiava certo l’onestissima sua esistenza.
Se mio padre poi non mi fece dare più colta educazione, esercitare nella ginnastica, scherma, ed altri esercizi corporei, fu piuttosto colpa dei tempi, in cui, grazie agli istitutori chercuti, si propendeva piuttosto a far della gioventù tanti frati e legali anzichè buoni cittadini capaci di professioni virili ed utili ed atti a servire il loro devastato paese.
D’altronde era sviscerato l’amor suo pei figli e quindi temente non si spingessero a bellici divisamenti. Tale trepidazione dell’amato mio padre, prodotta da soverchio affetto, è forse l’unico rimprovero da fargli, giacché per timore di espormi troppo giovane ai disagi ed ai pericoli del mare, egli mi trattenne, contrariamente all’indole mia, sino verso i quindici anni senza permettermi di navigare.
E non fu savia determinazione, essendo io oggi persuaso che un marino deve cominciare la carriera giovanissimo, se possibile prima degli otto anni. Essendo in tale pratica maestri i Genovesi e gl’Inglesi massime. Far studiare i giovani destinati al mare a Torino o a Parigi, ed inviarli a bordo oltre i vent’anni, è sistema pessimo. Io credo meglio far fare i loro studi a bordo e la pratica di navigazione nello stesso tempo.
E mia madre! Io asserisco con orgoglio, potere essa servir di modello alle madri. E credo con questo aver detto tutto.
Uno dei rammarichi della mia vita sarà quello di non poter far felici gli ultimi giorni della mia buona genitrice, la di cui vita ho seminata di tante amarezze colla mia avventurosa carriera.
Soverchia è forse stata la di lei tenerezza per me. Ma non devo io all’amor suo, all’angelico di lei carattere il poco di buono che si rinviene nel mio?
Alla pietà di mia madre verso il prossimo, all’indole sua benefica e caritatevole, alla compassione sua, gentile per il tapino, per il sofferente, non devo io forse la poca carità patria che mi valse la simpatia e l’affetto de’ miei infelici ma buoni concittadini?
Oh! abbenchè non superstizioso certamente, non di rado, nel pili arduo della strepitosa mia esistenza, sorto illeso dai frangenti dell’Oceano, dalle grandini del campo di battaglia, mi si presentava genuflessa, curva al cospetto dell’Infinito l’amorevole mia genitrice, implorandolo per la vita del nato dalle sue viscere. Ed io, benché poco credente all’efficacia della preghiera, n’ero commosso, felice, o meno sventurato.