Meditazioni sulla economia politica/XV
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Come adunque potrà un governo ribassare gl’interessi del denaro operando su chi deve riceverlo? In ogni nazione vigono dei debiti pubblici, vi sono dei banchi, dai quali coloro che presteranno il denaro allo Stato ricevono l’annuo frutto. L’esperienza ha fatto vedere quanto provida sia l’operazione di ribassare gl’interessi di questi banchi, non solo per alleggerire i pesi del pubblico erario, ma altresì per livellare a un più basso prezzo indirettamente tutti gl’imprestiti della nazione.
È inutile ch’io qui soggiunga questo che la giustizia la più evidente suggerisce alla mente di ciascuno, cioè, dovere lo Stato avere in pronto una somma per offerire contemporaneamente ai creditori il rimborso del loro capitale, quando non si contentino del più basso interesse, il quale giustamente devesi ottenere da una spontanea adesione del creditore. Guai se una momentanea utilità prevalga sopra i veri interessi dello Stato! Guai se la fede pubblica s’oscuri! L’interesse dello Stato diventerà divergente dall’interesse di ogni privato. La sola simulazione coprirà l’indifferenza con cui ogni uomo rimirerà l’unione, di cui è parte; i principj morali si annienteranno, la nazione cadrà nella corruzione, stato peggiore assai dell’originaria vita selvaggia, tutto andrà deperendo, e alla prima urgenza, in cui la pubblica sicurezza esigerà il soccorso, si cercherà inutilmente. Ne’ secoli passati se ne videro gli esempj in molti luoghi d’Europa, ed alle miserie d’allora siam debitori d’essersi illuminata generalmente la politica degli Stati, ed essersi universalmente riconosciuto che la fiducia, e la sicurezza nel pubblico erario sono il Patrimonio più ricco ed inesausto di ogni Sovrano.
Ridotto che siasi dai banchi pubblici l’interesse del denaro a un più basso livello, se i creditori di questi banchi formano una parte sensibile degl’imprestanti che ritrovansi nella nazione, ne accaderà che quei che ricercano a mutuo la merce universale, coll’esempio de’ banchi pubblici non offriranno più l’interesse di prima, e quei che cercano di accomodarla non avendo più da sperare dai banchi il passato interesse, si contenteranno di ribassare. Se poi i creditori dei banchi pubblici avranno ricevuto il lor capitale, piuttosto che assoggettarsi al ribasso degl’interessi sarà cresciuto il numero degli offerenti, e in conseguenza tanto più ne sarà ribassato l’interesse.
Un altro mezzo hanno i governi per diminuire gl’interessi del denaro. Per conoscerlo basta il riflettere che due sono i principj per i quali l’offerente esige l’interesse. Il primo è per essere risarcito dell’utile, che ne ricaverebbe impiegandolo nell’agricoltura, o nel commercio; il secondo per ricompensarsi di quel grado di rischio, che può correre di perdere il suo capitale. Si è già veduto al paragrafo XIII. come i frutti del commercio e dell’agricoltura debbon esser ridotti a un basso livello in una nazione ove l’industria liberamente si muova in ogni sua parte; conseguenza di ciò ne viene, che quanto più si promoverà, e si lascerà agire nel cuore degli uomini la speranza di migliorare la sorte; quanto più s’interporranno quei mezzi che scatenano il principio vitale e attivo dell’industria ad accrescer l’annua riproduzione, tanto diverrà minore naturalmente quella porzione d’interesse che viene dai trattatisti chiamata lucro cessante. Sta poi in mano del legislatore il diminuire il rischio che i forensi chiamano danno emergente; s’otterrà questo fine con ottime leggi, con brevi e semplici forme giudiciarie, colla giudiziosa scelta d’incorrotti magistrati, cosicchè ognun possa facilmente, e sollecitamente far valere il proprio diritto; e la forza pubblica sempre pronta ad avventarsi contro l’usurpatore e il mancator di fede, renda stabile e soda la sicurezza de’ contratti.
Tanto è ciò vero che io ardisco dire che nessun paese, dove l’industria sia animata, e dove la buona fede sia rispettata, avrà interessi alti del denaro; ed all’incontro dovunque sia alto interesse del denaro sarà languida l’annua riproduzione, e assai dubbia la fede dei contratti. Dall’interesse del denaro si può calcolare la reciproca felicità degli Stati.
Gl’interessi del denaro si possono paragonare fra nazione e nazione, e fra secolo e secolo, per calcolare la felicità d’una società che pretenda allo stato di coltura; ma il valore di nessuna merce nè universale nè particolare potrà mai paragonarsi fra nazione e nazione, se fra di esse non abbiano una comunicazione immediata, ovvero con una terza nazione; essendo che il valore può esser basso tanto per mancanza di compratori, quanto per abbondanza di venditori, tanto per scarsezza del denaro, quanto per la rapidità colla quale i contratti si succedono, nè vi può essere misura fra due quantità distanti, e isolate. Lo stesso dico di chi voglia paragonare i valori d’un secolo all’altro: calcolo nel quale si potrà bensì rinvenire quante once di metallo si cedessero in cambio d’una data merce, non mai il vero valore di essa, se per nome di valore s’intenda il grado di stima ch’ella aveva nella comune opinione, essendosi variata coll’andar dei tempi la stima dei metalli preziosi a misura che lo divennero meno colle inesauste miniere, che vanno moltiplicando in Europa la merce universale. Per fare esattamente il calcolo del valore fra due società incomunicanti per distanza di luogo, o di tempo, converrebbe avere una terza quantità inalterabile a cui paragonarli come la inalterabile estensione del braccio e la gravità costante dell’oncia trasportate e paragonate daranno il mezzo per calcolare i veri rapporti fra due altezze o due pesi distanti; ma questa quantità inalterabile per paragonare i valori non vi è, nè è possibile che vi sia; perchè il denaro istesso sebbene sia merce universale è ora di maggiore ed ora di valor minore, e perciò è incapace di servir di misura. I pramatici stabilirono il principio che il valore del denaro dipendesse dall’impronto Sovrano ch’ei porta, e che il Principe fosse arbitro nell’assegnare il valore; e dato un tal principio chi debba redimire un capitale ricevuto ne’ secoli passati non è tenuto se non a sborsare un numero di lire eguale a quello che fu allora pagato; la conseguenza è ben derivata, ma da un falso principio. Si dimostrò che il valore del denaro dipende dal valore del metallo e che l’impronto è un semplice attestato del peso e della purità di esso, e da questo principio vero se ne derivò la conseguenza che per restituire un capitale ricevuto ne’ secoli trasandati si debbano pagare tante once d’argento quante ne furono allora consegnate; conseguenza che suppone una costanza nel valore del metallo che non si trova realmente. Finalmente vi fu chi tentò d’accostarsi a un calcolo più esatto e ciò paragonando il prezzo delle merci più comuni al vitto degli uomini ne’ due tempi distanti, e fissando una somma media in ciascuna epoca; indi calcolossi quante once d’argento debbansi oggi portare al mercato per acquistare le derrate che nell’epoca dell’imprestito si compravano colla somma ricevuta; e questo è il metodo che più s’approssima alla esattezza. Nelle restituzioni però i Tribunali si attengono al primo metodo del numerario che ha per se la lunga pratica, la semplicità, e forse ha cessato d’essere ingiusto dappoichè la costumanza essendo generalmente stabilita da’ secoli, quando si fece il prestito si assoggettò il capitalista alla eventuale diminuzione compensandosi sugl’interessi che correvano in que’ tempi e in meno di dieci anni facevano rimborsare il capitale.