I grandi matematici greci
Tutte le epoche hanno le loro guerre

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Ma non ho ancor finito di parlarvi del buon Gerone. Ai nostri tempi, si dice, passiamo da una guerra all’altra, e, mentre una finisce, un’altra se ne prepara. Ma anche a quei tempi non si scherzava. Guerre, guerre, guerre. Era il periodo delle guerre puniche, che Roma conduceva contro la grande rivale Cartagine: guerre che durarono la bellezza di 118 anni (264-146 a. C.), terminando con la distruzione di Cartagine. Siracusa, involontariamente, era stata la causa indiretta del conflitto fra i Romani e i Cartaginesi, che erano chiamati Puni (e di qui il nome di guerre puniche). Per liberare la Sicilia da un branco di masnadieri che, provenienti dalla Campania, dopo tante ruberie e saccheggi, avevano conquistato Messina, i Siracusani marciarono contro quella città, ponendovi l’assedio. I Mamertini, ch’erano appunto quei masnadieri, si divisero in due fazioni: l’una chiese aiuto ai Romani, e l’altra ai Cartaginesi.

Visto che le cose si stavano complicando, Siracusa si ritrasse dalla lotta, che proseguì fra i due maggiori contendenti: e, poiché già più volte, sotto il regno del tiranno Agàtocle aveva combattuto contro i Cartaginesi, si dichiarò fedele a Roma.

Col passar degli anni la guerra fra le due grandi città divenne più intensa, e con l’assunzione del supremo comando cartaginese da parte del grande condottiero ventenne Annibale, Roma subì disastrose sconfitte, che culminarono con la disfatta di Canne (2 agosto 216 a. C.).

Giunto al trono Gerone, molto si preoccupò della difficile posizione di Siracusa, che - a mezza strada marittima fra Roma e Cartagine - doveva temere gli attacchi dell’una e dell’altra, e ricorse al genio di Archimede, commettendogli l’incarico di creare armi nuove e potenti per poter difendere la città da qualunque attacco dal mare. (Come vedete, anche allora avevano grande importanza le armi segrete).

Nel segreto del suo studio, infatti, Archimede preparò alcuni ordigni che, alla prova pratica, si dimostrarono poi preziosi per chi li possedeva e terribili per chi li doveva subire. Tralasciando di parlarvi delle catapulte e delle baliste, vi voglio solo descrivere la mano di ferro e gli specchi ustorii. La prima serviva a combattere le navi che s’erano avvicinate alla città assediata: allora una formidabile morsa le afferrava a prua, le alzava e le rovesciava oppure le sbatteva sulle acque scardinandole. Gli specchi ustori servivano invece per le navi che si mantenevano al largo. Si trattava di specchi ricurvi che raccoglievano i raggi solari, e li concentravano sopra un punto della nave che, in breve, prendeva fuoco. Come si vede, erano due armi piuttosto pericolose: e il genio di Archimede aveva con esse previsto tutti i casi possibili.

Ma nell’anno della battaglia di Canne il re Gerone morì, e gli successe un periodo di confusione politica che fu molto dannosa per Siracusa. La disfatta romana di Canne aveva tolto un po’ di prestigio alla Città eterna, e i nuovi dirigenti della politica siracusana – a ciò incoraggiati anche da una prolungata permanenza di Annibale nella città, ch’egli aveva scelto per svernarvi dopo Canne - pensarono che sarebbe loro convenuto schierare Siracusa al fianco del giovane trionfatore, tradendo così i Romani. Ma questi non erano gente da prender allegramente simili cose. Volendo, anzi, dare un esempio a tutti i traditori, furono implacabili. Armata una grande flotta agli ordini del console Marcello, posero dal mare l’assedio a Siracusa. Gli abitatiti fecero prodigi di valore, e mirabilie fecero le macchine inventate da Archimede: ma contro la forza dei Romani a nulla valsero il valore e il genio. E dopo tre anni di resistenza, Siracusa fu messa a ferro e a fuoco. (Era il 212 a. C.)

La fama di Archimede era tanto grande, che Marcello aveva diramato uno speciale ordine perché il grande matematico fosse risparmiato, non solo, ma anzi rispettato ed onorato. Purtroppo il destino volle diversamente. Un soldato, entrato nella casa dello studioso, e non trovando alcuno nelle camere abbandonate, giunse fino allo studio, dove Archimede stava cercando la soluzione di un problema. Immerso nelle sue astrazioni e in profondi calcoli, nemmeno si accorse che il soldato era entrato nello studio, e che gli rivolgeva la parola. Il romano, fedele alla consegna ricevuta, voleva sapere il nome dell’uomo, onde salvarlo se fosse stato Archimede, o passarlo per le armi in caso contrario.

Ma lo scienziato non rispose alle sue domande, e il soldato, prendendo tale mancata risposta come una sfida, lo punì sull’istante, colpendolo a morte. In tal modo, il ferro ignaro di un povero soldato, tolse al mondo i benefici che ancora poteva avere da uno dei suoi figli, che è indubbiamente da annoverarsi fra i più grandi di ogni tempo.

Ho già fatto cenno di molte sue scoperte, sue invenzioni, sue precisazioni, e non voglio dilungarmi ad esporvene altre. In più di un capitolo avrò ancora occasione di parlarvi di questo grande, poiché vastissima è ancora la materia che si dovrebbe esporre per trattare anche modestamente dei doni ch’egli ha fatto alla scienza, all’umanità, alla civiltà.

La morte lo colse a 75 anni.

Si racconta che quando, riconosciuto il misero corpo, fu riferito a Marcello che Archimede era stato ucciso, il grande condottiero pianse calde lagrime e subito spedì un messaggio a Roma per giustificarsi dinanzi al Senato per la grave colpa del suo soldato. Ordinò quindi solenni funerali fra le rovine fumanti della città, e grandi sacrifici in suo onore.

Così i Romani - al contrario di quello che succede oggi - onoravano e rispettavano i grandi uomini nemici ed avversari.