Mastro Titta, il boia di Roma/Capitolo XXV
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Tommaso Grassi, sensale di bestiame, aveva per cognato un macellaro di Trastevere assai facoltoso. Aveva costui sposato sua sorella, una delle più leggiadre minenti di quel rione, per amore, benché non avesse il becco d’un quattrino e la trattava come una principessa. Ma questo invece di far piacere al cognato, lo irritava perché era di animo perverso ed invido. Avrebbe forse voluto che il macellaro se lo pigliasse con sé, lo mettesse a parte dei suoi affari e ne dividesse gli utili. Ma così non l’intendeva l’altro.
Pur agevolando al cognato l’esercizio del suo mestiere di mediatore e rimunerandolo largamente delle sue prestazioni, l’accorto macellaro lo teneva a debita distanza e quindi ne suscitava le bizze. Un giorno Tommaso Grassi si recò al negozio di sua sorella e trovatala sola, un po’ colle buone, un po’ colle minaccie le estorse duecento scudi. Risaputolo il marito abbordò il Grassi e gli disse seriamente:
- Senti, Maso, quando hai bisogno di quattrini, rivolgiti a me e non a tua sorella. Non amo che le donne si impiccino in queste cose. I duecento scudi te li regalo. Fa di non chiedermene altri per un pezzo, se puoi.
- Io me ne infischio dei due duecento scudi, - rispose arrogantemente il Grassi.
- Perché li hai dunque domandati a prestito?
- Non li ho cercati a te. Credevo bene che mia sorella potesse disporre di tale miseria.
- Una miseria che t’ha fatto comodo però.
- Ora che so che sono tuoi, non appena avrò riscosso te li schiafferò in faccia.
- Maso, bada a misurar le parole, perché non sono avvezzo a tollerare né prepotenze, né insolenze.
Il tono di voce del macellaro non era tale da ammetter repliche e tanto meno provocazioni nuove. Tommaso Grassi gli volse le spalle e se ne andò pe’ fatti suoi, covando in cuore la vendetta. Passò circa un mese. Il macellaro non aveva più riveduto il cognato, né sua moglie il fratello, quando sul far del mezzogiorno del 2 aprile, Tommaso Grassi capitò nel negozio, come se nulla fosse accaduto.
- Guarda chi si vede - esclamò il macellaro, che era un buon diavolo ed aveva dimenticato l’alterco.
- Giungi in punto, Maso, per mangiare un boccone con noi.
- No, grazie: son venuto per affari - rispose il Grassi.
- Ne discorreremo pranzando.
- Non ho fame.
- E allora fa come vuoi.
- Ci sarebbero delle vaccine da vendere ad un cascinale fuori di porta Cavalleggeri, che dovrebbero fare per te.
- Possiamo vederle domani.
- Perché no, oggi? È un figlio di famiglia, al quale è morto il padre di fresco e ha bisogno di far quattrini. Se perdiamo tempo qualcun altro ci porterà via il dolce.
- Allora andiamoci stasera. Le hai vedute tu le bestie?
- Sì.
- Come sono?
- Bellissime. Roba di provenienza perugina.
- Non resta dunque che conchiudere il contratto.
- Se ti fidi di me...
- E perché non dovrei fidarmi. Forse sei diventato un forestiero?
- Allora siamo intesi. Verso le sei vengo qui con l’amico che mi ha proposto l’affare.
- Montiamo sul carrettino e ce ne andiamo, per tornare a cena. Stasera avrai fame, credo?
- Speriamolo.
Così pattuito, Tommaso Grassi se ne andò. La sorella, visto che il fratello non aveva nemmeno portato alle labbra, per compiacenza, il bicchiere di vino offertogli dal marito, ne fu impensierita, ebbe una specie di vago presagio sinistro, e gli disse:
- Non ci andare.
- Perché?
- Non so. Di notte ci son sempre dei pericoli.
- Siamo in tre e non c’è a temere.
La bella trasteverina tacque, ma la sera quando vide il marito salir nel carrettino col fratello e il suo compagno, provò una stretta al cuore. Così depose in giudizio. Tommaso Grassi e l’amico occupavano i due lati del sedile, il macellaio nel mezzo guidava e chiacchierava allegramente. Ma ad un tratto la voce gli morì nella strozza: due coltellate una in un fianco che gli entrò in cavità, l’altra terribile nel collo, che gli recise la carotide, l’avevano colpito. Non ebbe il tempo di proferire una parola.
I due assassini lo accomodarono bene sul fondo del carrettino e gli legarono le guide del cavallo intorno al braccio destro, quindi rivoltatolo verso la città, con due frustate lo sospinsero a disperata corsa. Il carrettino non fu fermato che a porta Cavalleggeri, dove si accorsero del delitto. Tommaso Grassi e il suo complice si erano, impossessati del denaro che il macellaio aveva portato con sé per pagare le vaccine e speravano di poter uscire dallo Stato. Ma la pronta denunzia della moglie dell’ucciso, sventò i loro progetti e vennero arrestati in Roma stessa dove erano rientrati per altra porta.
Eretto il processo Tommaso Grassi confessò cinicamente il delitto, asserendo d’averlo commesso per vendetta. Il complice negò assolutamente d’aver partecipato e fu in questo sostenuto anco dal principale accusato. Disse che le coltellate le aveva date al macellaio il Grassi all’improvviso, e senza ch’egli potesse pensare a difenderlo; e per tal modo poté salvare la sua pelle, essendo stato condannato il Grassi all’impiccagione e lui a star sotto la forca durante l’esecuzione. Eseguii la sentenza la mattina del 15 aprile 1807, sulla piazza di Ponte Sant’Angelo con enorme concorso di gente, perché l’atrocità del misfatto e la notorietà delle persone, avevano suscitata una impressione profonda in città. Tommaso Grassi provvide alla salvezza dell’anima sua, confessandosi e parve negli ultimi momenti veramente pentito. Fu condotto in carretta insieme al suo complice, circondato da uno stuolo di confortatori.
Giunto al palco, scese prima il compagno, che fu assicurato con ferri allo sgabello dal quale doveva assistere alla impiccagione del Grassi. Questi salì un po’ vacillante e sorretto la scala, ma prima di essere lanciato nell’eternità, mentre aveva già il laccio al collo, disse addio al suo complice, il quale rimase impassibile, come se avesse assistito non ad una impiccagione, ma agli esercizi di qualche funambolo. Era proprio uno spirito forte.