Mastro Titta, il boia di Roma/Capitolo XX
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Una mattina di dicembre, fredda ma bella, entrava in una osteria di Porto Recanati un uomo sui trentacinque, dalle forme atletiche, con lunga barba castano rossiccia fluente sul petto e lunghi capelli spioventi sulle spalle naturalmente inanellati; vestiva di velluto marrone alla cacciatora, con grandi stivali di pelle che gli salivano sin oltre il ginocchio; una larga cinta pure di pelle gli cingeva la persona e un fazzoletto di seta rosso il collo. Un cappello molle ad ampia tesa, gli ombreggiava il volto maschio ma bello, e sotto le folte sopracciglia dardeggiavano due occhi di falco, neri a volte, a volte gialli e iridescenti. Portava il fucile sulle spalle; ma non avea cani con sé. Dopo aver data una rapida occhiata nel primo ambiente del locale, passò nel secondo, e fece altrettanto, quando uscì dalla porta posteriore che dava sopra una stradicciuola deserta, un rezde-chaussée, come dicono i francesi, e guardò nella via.
Finalmente rientrò, soddisfatto del suo esame, a quanto parve, poiché battendo sulla spalla dell’oste, che aveva seguito un dietro l’altro i suoi passi, gli battè famigliarmente sulla spalla dicendogli:
- Oste di Satanasso, avrai bene da darmi da mangiare: ho una fame da arrabiato e ti assicuro che mangerei ancora la tua carcassa, se non m’avesse l’aria d’essere tigliosa, come quella di un vecchio caprone.
L’oste sorrise beatamente. Forse aveva in serbo qualche cadavere quattordicenne di animale più o meno domestico e pensava essere venuta la buona occasione per disfarsene, traendone lauto compenso.
- Bada però, ripigliò l’incognito, che la fame non esclude il gusto, che se mai avessi qualche vecchio gatto scorticato e ti promettessi di ammannirmelo, avresti sbagliato i tuoi calcoli.
L’oste ne fu sgomento.
- Che sia proprio il diavolo in persona costui? - si chiese mentalmente - ha indovinato il mio pensiero.
L’esitanza dell’oste persuadeva sempre più il cacciatore, che questi aveva delle perfide intenzioni a suo riguardo. Lo prese quindi delicatamente per un orecchio e gli intimò:
- Portami in cucina.
- A quest’ora non c’è nulla di pronto ancora - balbettò l’infelice - ma posso servirvi da principe se avete un po’ di pazienza.
E si diede a chiamare a squarcia gola:
- Marianna! - Marianna!
Marianna era la rispettabile sua metà, una specie di bomba, che si rotolava sul suolo, poiché non sembrava che camminasse. Giunse frettolosa alla chiamata del marito, miagolando con flebil voce:
- Menicuccio mio, che vuoi?
- Il signore vuol mangiare e mangiare bene - mormorò l’oste, sottolineando le parole.
- Così mi piace! - esclamò l’incognito sogguardandoli entrambi.
- Le farò un brodetto.
- Benissimo, purché il pesce sia fresco.
- Altro che fresco! Menicuccio vallo a pigliare da Petronio, che è arrivato stamani colla paranzella.
L’oste se ne andò via, ben felice di sottrarsi allo sguardo indagatore del forestiero.
- Poi, continuò Marianna, le darò un pollo alla cacciatora.
- Morto da quanti mesi?
- Mi meraviglio. Lo prenderò dalla stia e se vostra Eccellenza vuol ammazzarlo con una fucilata, lo troverà più frollo e saporito.
- Accettato. Intanto?
- Intanto le affetterò un salame di Fabriano che fa la goccia. Me lo manda mio fratello, che provvede per la cucina di Sua Santità e di parecchi Cardinali.
- Ottimamente! esclamò il cacciatore, facendo scoppiettar la lingua in bocca, quasi ne pregustasse il sapore.
In un batter d’occhio la rotonda ostessa apparecchiò, stendendo una candida tovaglia sul rozzo desco e sovrapponendovi delle stoviglie grossolane, ma pulite e quasi luccicanti. Quindi recò del pane tolto di fresco dal forno e ancora caldo, un boccale di vino e un piatto di salame.
- È cotto questo vino? domandò l’incognito versandone nel bicchiere.
- Mi meraviglio. È Sangiovese di Romagna e del migliore.
Il forestiero tracannò il bicchiere e facendo scoppiettar la lingua, disse:
- Eccellente! Farete bene a preparar per due, perché aspetto un amico, il quale mi ha dato convegno qui.
- Segno che ci conosce. Non faccio per dire, ma come al Caval Marino non si mangia, non si beve e non si alloggia in tutte le Marche.
- Avete camere d’alloggio?
- Con dei letti, nei quali potrebbero dormirvi degli sposi. Se vuol vedere...
- Dopo, dopo.
- Dunque, tiro il collo al pollo, o vuol ammazzarlo col fucile?
- Il rumore del colpo chiamerà gente.
- Manco per sogno: qui non c’è nessuno.
- Allora vediamo.
- Stia pronto che glielo mando. Badi a non fallire: se no la povera bestia si spaventa, gli vien la febbre e la carne perde il sapore.
- Non dubitate.
L’ostessa passò in cucina e aprì la stia: due giovani polli scapparono fuori e s’avviarono alla camera vicina. S’intesero subito due colpi e Marianna accorsa, li trovò entrambi stesi al suolo col capo fracassato. Il viaggiatore stava ancora colle due pistole in mano, che si era tolto dalla cinta.
- Come! Li avete ammazzati colle pistole? domandò la donna, sbarrando gli occhi esterefatti.
- Credo bene.
In quel mentre rientrava Menicuccio con un canestrello piatto, coperto di fronde.
- Ecco il pesce: è ancora vivo, disse sorridendo e guardando il viaggiatore. E col pesce vi porto un amico.
Seguiva infatti l’oste un uomo sulla cinquantina, basso tarchiato, panciuto, col naso rotondo, gli occhietti piccoli, vivi e mobilissimi, la bocca larga, con piccole basette brizzolate, come le ciocche dei capelli inanellati, che gli coprivano le tempie, uscendo di sotto il cappello di feltro nero, duro, a larga tesa, che completava il suo vestito da agente campagnuolo.
Egli mosse difilato al forestiere e gli sporse la mano, dicendogli: - Sapevo che eri già venuto.
- Te ne avvertì l’Oste? Scommetto che fra un’ora ne saranno informati tutti coloro che si trovano nel perimetro di dieci miglia. Ha la lingua lunga quell’oste.
- Non temere, Paolo.
- Ho forse avuto paura mai, io?
- Non inquietarti, insomma. Sei più sicuro qui che sull’altare di S. Pietro in Roma. Di Menicuccio rispondo io.
- Mangiamo, allora. Ho una fame maledetta.
- A tavola si concludono meglio gli affari.
Menicuccio aveva già recata la posata e il piatto. Il campagnuolo si assise di fronte all’incognito e incominciarono a far sparire il salame.
- Sarà dunque per stanotte senza fallo, disse sommessamente il nuovo venuto. Sei pronto?
- Prontissimo.
- I tuoi?
- Fa assegnamento sopra di me.
- Non hanno scorta. Ma sono gente deliberata e fors’anco ben armata.
Il cacciatore sbozzò un sorriso di scherno.
- Della somma si faranno tre parti.
- Due per me.
- Per te solo?
- Per me e pe’ miei, l’altra per te.
- E le gioie e i valori personali che potranno avere con sé?
- Incerti del mestiere.
- Voglio parteciparvi.
- Ed è giusto. Ma se per avventura qualcuno di noi avesse a finire nelle mani di Mastro Titta, avrai pure la tua parte di corda.
- Vi rinunzio.
- Hai torto; porta fortuna.
- Porta al Diavolo.
- Un giorno o l’altro ci si deve andare.
- Più tardi che sia possibile.
Menicuccio aveva intanto servito; prima il brodetto, poi i polli e riempito tre volte il boccale. Il benessere e col benessere la giocondità incominciava a diffondersi sul volto dell’onesto campagnuolo.
- Mandaci Marianna, che vogliamo fare un brindisi alla sua salute, dissegli questi. Cucina in modo ammirabile.
Marianna comparve, umile in tanta gloria, e partecipò al brindisi in suo onore. Il campagnuolo le disse poi:
- Ora ci condurrete di sopra e ci darete due buoni letti.
E così fu fatto.