Mastro Titta, il boia di Roma/Capitolo XIX

Capitolo diciannovesimo - La colpa e il castigo

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Anche nella bottega del marito non le mancavano gli adoratori. Ma forse non sarebbe venuta meno ai suoi doveri di moglie se il Rinaldi non avesse commesso l’errore di metterle accanto per garzone un giovinetto biondo, roseo, dagli occhi cerulei; una specie di cherubino in grembiale bianco, spesso chiazzato di sangue e sparso di penne di polli e di gallinacci. Questi incominciò a farle lo spasimante. Giacinta ne rise sulle prime. Ma poi, nelle lunghe ore in cui restava sola con lui, mentre il marito andava fuori per le compere, incominciò ad ascoltarlo per rompere la noia, e, travolta dalla passione, finì per darglisi, là nel negozio stesso, colle imposte socchiuse, nelle ore calde del giorno, e alla sera, mentre attendeva il ritorno di Gioacchino. Amore è imprudente di sua natura e in breve la tresca della bella abbacchiara col garzone, fu nota non solo ai bottegai, ma ben anco a tutte le serve, che frequentavano Campo de’ Fiori. Solo ad ignorarla era il marito. Ma ci fu chi si prese il triste incarico di avvertirlo, con una lettera anonima, nella quale gli si fornivano tutte le indicazioni particolari per sorprenderla.

L’abbacchiaro che non aveva mai avuto neppure il più piccolo sintomo di gelosia e che attendeva con ansia il giorno in cui la Giacinta gli avrebbe dato un figlio, fu terribilmente colpito dall’annunzio fatale. Tutta la sua felicità era distrutta: l’avvenire non esisteva più per lui. Il frutto che la sua donna portava in seno forse non era suo. Nella sua casa, se non l’avvertivano, sarebbe entrato un bastardo. E se era suo, chi gli avrebbe potuto togliere il dubbio straziante? Bisognava finirla. Uccidere l’amante, la moglie e il suo portato. Uscì, dicendo che sarebbe tornato a sera tarda. Invece sull’imbrunire s’appostò in luogo dove poteva vedere ciò che succedeva in negozio. Quando la gente incominciò a diradarsi sulla piazza e nella sua bottega fu acceso il lume, vide Giacinta e il garzone che si scambiavano delle moine e delle tenerezze. Poi il garzone s’avanzò sul limitare del negozio, diede un’occhiata di fuori e chiuse le imposte, lasciando aperto uno spiraglio, d’onde filtrava un filo di luce. Gioacchino frenò la propria impazienza, e attese altri cinque minuti, che gli parvero, nell’angoscia disperata in cui versava, cinque secoli. Poi attraversò la strada e irruppe nel negozio come una bomba.

I due amanti erano là, nel fondo, abbracciati, deliranti. Il Rinaldi non aveva pensato a munirsi del coltello, ma ne trovò uno sul banco: l’afferrò, e avanti che potessero rinvenire dalla sorpresa terribile, sgozzò prima il garzone, come un abbacchio, recidendogli quasi la testa, poi l’immerse reiteramente nel petto e nel ventre della sua donna, perché voleva distruggere lei ed il feto. E i feti erano due! Alle grida dei morenti, accorsero i passanti, quindi le guardie, le quali arrestarono il Rinaldi, che pazzo di furore continuava a menar coltellate nel ventre alla moglie, come l’amante, già estinta. Eretto il processo, Rinaldi confessò tutto, non mostrandosi punto pentito del suo misfatto, anzi affermando d’essere felicissimo di aver ucciso la moglie e i due bastardi che portava nel ventre. Condannato alla mazzolatura ed allo squarto, non volle conforti religiosi e morì stoicamente.