Mastro Titta, il boia di Roma/Capitolo XV
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Si fecero delle indagini per scoprire se qualche rapporto fosse interceduto fra l’ucciso ed il supposto uccisore e ne risultò nemmanco che si fossero conosciuti. La tresca fra la ragazza ed il Guidi era stata così abilmente condotta, che non ne era trapelato nulla. E a nessuno passò manco per la mente che vi potesse essere qualche punto di contatto fra Pepita e l’assassino di suo fratello. In una parola mancò alla giustizia il filo conduttore che la portasse alla scoperta dell’autore del misfatto.
L’ucciso era un bel giovane, aitante della persona, ben proporzionato e piacevole. Aveva anco fama di fortunato in amore. Si venne alla conclusione che il delitto doveva essere il portato di una vendetta personale. Qualche marito oltraggiato, aveva fatto il colpo, colla massima cautela, per rifarsi dell’onta patita. Il processo rimase aperto. Pepita intanto, accasciata dall’angoscia, aveva voluto entrare in un chiostro di clausura, per fare il suo noviziato e invano tentarono d’opporsi il padre e la madre. La perdita del fratello in così atroce modo avvenuta giustificava la sua determinazione. L’autorità non le rifiutò il suo appoggio. E per tal modo la fanciulla addolorata poté sottrarsi ad ogni pericolo e ad ogni seccatura. Domenico Guidi restava in prigione.
La giustizia non aveva potuto in verun modo assodare che esistesse una correlazione fra il misterioso assassinio e la sua fuga per le vie di Viterbo, nella stessa notte, insanguinato e armato di coltello. Ma nell’animo del giudice inquirente era radicato il convincimento che siffatta correlazione doveva esistere, e però decise di trattenerlo in carcere, finché il caso, o un accidente purchessia, fosse venuto a porgere un indizio, mediante il quale fosse dato riprendere l’istruzione del processo e dipanare l’arruffata matassa. Gli erano stati dati per compagni di cella degli spioni abilissimi, col mandato di estorcergli qualche confessione, qualche mezza confidenza, qualche imprudente rivelazione, sull’esser suo, sulle sue gesta, sui rapporti con terzi, e toccavia. Ma Domenico Guidi, o lo sapesse, o lo sospettasse, rimase ermeticamente chiuso in se stesso. Fu tormentato con improvvisi interrogatori di giorno e di notte, nella cella e fuori. Si adoperarono suggestioni d’ogni maniera e riuscirono frustate. L’inquirente aveva tenuto calcolo dei più minimi particolari e studiato tutti i versi per edificare un dramma, il cui epilogo fosse l’assassinio per opera del Guidi, e la sua fantasia si era esaurita senza raggiungere il suo intento.
Quand’ecco un giorno giungergli la notizia che Pepita, chiusa nel chiostro delle Clarisse, era stata riconosciuta gravida. Senza por tempo in mezzo, si reca al convento, ottiene di parlare alla superiora, e la interroga se credesse possibile che lo scandalo fosse avvenuto nel monastero. Ma questo venne assolutamente escluso. La vita claustrale era mantenuta con tale rigidità, che nessun trasporto, né estraneo, né interno, potevano aver le novizie e le monache con persone d’altro sesso. Doveva dunque essere avvenuto prima della sua entrata. Il giudice assunse altre informazioni in casa di Pepita e la madre della fanciulla accasciata dalla notizia dello stato in cui si trovava sua figlia, gli narrò il progetto del matrimonio fatto da suo marito per Pepita e le ripulse della fanciulla quando glie lo comunicò. Questo fu un raggio di luce per l’inquirente. Tornato al proprio ufficio e chiuso nella solitudine del suo gabinetto, con lunga e profonda meditazione riuscì a ricomporre la trama del delitto.