Mastro Titta, il boia di Roma/Capitolo XIII

Capitolo tredicesimo - Amori clandestini

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Continuo il corso cronologico delle mie "operazioni" colla 56ma, che eseguii in Viterbo il 18 dicembre 1802, mediante la forca, in persona di Domenico Guidi, al quale fu intimata la sentenza di morte alle 22 per le 23, rarissimo esempio nella storia della giustizia papale, che soleva lasciar sempre al reo il tempo per pentirsi e provvedere alla salvezza dell’anima sua. Era costui un giovinotto di venticinque anni pazzamente innamorato di una fanciulla benestante, appena quadrilustre.

I suoi amori erano stati sempre contrastati dai parenti della ragazza; ma questa gli voleva un bene dell’anima e non c’era stato verso di distoglierla dal suo divisamento di sposarsi il Guidi, volendo o non volendo i suoi genitori. Si vedevano di notte in una stalla, in casa della fanciulla, nascostamente di tutti, dove l’amante s’introduceva di soppiatto e restando per ore ed ore in attesa. La relazione fra i due continuava da parecchio con reciproca soddisfazione. Ma un giorno Pepita, tale il nome della donzella, fu avvertita dalla madre che suo padre l’aveva promessa in isposa a un campagnuolo, ricco ed anziano, ma fornito di molti beni immobili e di denaro.

- Siete matti? - gridò spaventata la giovinetta - io non isposerò il vostro burrino quattrinaio, nemmeno se m’aveste ad ammazzare.

- Perché? - le domandò dolcemente la madre.

- Perché... perché... perché non voglio sposare. Voglio restar zitella.

- Pepita, bada: tuo padre non ischerza. Vuole questo matrimonio assolutamente: se ti opponi t’incoglierà male.

La fanciulla non aggiunse verbo: non si mostrò né assenziente, né dissenziente. Per cui la madre la giudicò non lontana dall’arrendersi alla volontà paterna, e disse al marito: "Lasciamola stare per qualche giorno. Combatte le ultime ripugnanze". Pepita alla sera si trovò al solito convegno coll’amante e le prime parole che gli rivolse furono queste:

- Portami via.

- Perché? - chiese stupefatto Domenico Guidi.

- Portami via, se no mi uccido.

- Ma dimmi almeno in nome di Dio che cos’è avvenuto per determinarti a questa rischiosa proposta. Fummo scoperti?

- No.

- Dunque?

- Dunque, mio padre vuol maritarmi a tutti i costi. E quando s’è fitta in testa una cosa non è uomo da lasciarsi rimuovere dal proposito.

- Tua madre?

- È troppo debole per resistergli.

- Tuo fratello?

- È avido di danaro quanto e più di mio padre: lo sposo è ricco.

- Fanno conto di spogliarlo?

- No. Ma tu capirai che dove ce n’è ne gronda.

- Perfettamente. Ma dove ti devo condurre? Se restiamo a Viterbo saremo subito scoperti..

- Bell’affare.

- E d’altra parte, lasciando il paese, dove ti condurrò, come troverò da mangiare per me e per te?

- Lavoreremo.

- Non sarà la voglia che mi mancherà. Ma ci vorrà del tempo prima di trovar da occuparci. E intanto?

- Ci penserò io. Ho dei gioielli, ho della roba, ho pure qualche scudo da parte.

- Quand’è così, decidi tu. Io son pronto.

- Bisogna far presto.

- Questa sera, no, credo?

- Domani.

- E sia.

Per quella notte amore fu lasciato in disparte. I due giovani s’accomiatarono tosto. Pepita tornò su in casa, Domenico uscì, ma nell’uscire gli parve di aver veduta un’ombra fuggire sulla muraglia illuminata dalla luna. Ne fu un po’ scosso e stette qualche minuto in ascolto. Non vedendo nulla, mormorò:

- Mi sarò ingannato.

E uscì lesto dallo sportello del portone chiuso.