Mastro Titta, il boia di Roma/Capitolo XI
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Erano trascorsi pochi anni. Perilli aveva scrupolosamente seguito il suo programma, per quanto concerne la metamorfosi. Mutato in frate francescano, s’era stabilito in una capanna, nel fondo di una piccola valle, addossata al versante di un colle, che aveva acquistata, con poche rubbie di terreno intorno, da un pastore. Meschinissimo era l’aspetto esteriore: curioso l’interno diviso in due scompartimenti. Il primo era una specie di laboratorio, con un fornello, il cui fumo usciva da un comignolo eretto sul tetto; e sul fornello, storte, lambicchi, fiale e fiaschi d’ogni genere. Nel secondo c’era un piccolo desco di legno, rozzamente lavorato e sovr’esso un boccale di terra per l’acqua; un sedile a tre piedi, sul quale posava un teschio umano e una lampada di bronzo a tre lucignoli; distesa per terra una stuoia di corteccie intrecciate, serviva per letto e un Cristo appeso alla parete, indicava il capo. In fondo uno sportello chiudeva una specie d’armadio, scavato nel muro, ingombro di involti, nei quali erano le raccolte d’erbe medicinali, che l’eremita soleva fare, per distribuirle ai contadini che gliele venivano a chiedere.
Ma quell’armadio dissimulava una porta, che girava sui cardini, insieme alle tavole traversali, sulle quali stavano gli involti delle erbe, e dava accesso ad un terzo compartimento segreto, molto più ampio dei due antecedenti presi insieme, che si internava nella collina, e faceva capo ad una grotta naturale, chiusa da una porta, coperta da un alto specchio di Venezia, con larga cornice intagliata e dorata.
La grotta serviva all’eremita di deposito delle sue dovizie e per un lungo corridoio, scavato nel tufo calcareo, si giungeva ad un’altra uscita, difesa da una porta sprangata di ferro, che si apriva dall’interno ed era al di fuori mascherata da grandi massi, rivestiti di verde musco. Questa uscita metteva nel folto della macchia, che si estendeva su tutto il versante dell’aspra collina. Il compartimento segreto della capanna era riccamente arredato e munito di tutti i conforti della vita: un ampio letto a colonne con cortinaggi di velluto e di trina, che lo chiudevano come un santuario; vasti armadi di legno dipinto e intarsiato, con fregi e dorature, una tavola rotonda col pedale di bronzo dorato e il piano di mosaico; sedie e divani coperti di velluto e di cuoio di Cordova impresso in oro, ne costituivano il mobilio sontuoso ed elegante ad un tempo, e chiarivano come fra Pasquale doveva aver passato i suoi primi anni nel lusso ed avervi affinato il suo gusto. Era quello scompartimento il suo piccolo paradiso; un paradiso che non aveva delle Urì come quello di Maometto, ma al quale non mancava di quando in quando il sorriso della donna.
La fama dell’Eremita si era diffusa a parecchia distanza; dai paesi circonvicini non solo, ma ben anco da lontani, gli giungevano clienti in cerca di semplici e di composti. Fra Pasquale non vendeva soltanto le medicine che manipolava co’ suoi lambicchi, e le erbe salutari, colte fra i boschi e fra gli sterpi del torrentello spumeggiante, che bagnava la valletta, dove aveva stabilito il suo domicilio: componeva altresì dei filtri portentosi che avevano la proprietà di far amar le persone tra loro e di disinnamorarle, di rendere più vigorosi od inetti all’azione genetica, e, quel che è peggio, di togliere alle donne, ed alle fanciulle in ispecie, l’incomodo della maternità, dissolvendo embrioni e feti ed espellendoli anzi tempo dall’alvo, perché non giungessero a maturità. Volevano anche taluni che più d’una vedova dovesse a’ suoi farmaci le anticipate, agognate gramaglie. Ma forse erano voci maligne e nulla più. Certo è vero che aveva nome di stregone: più di una vecchierella, scorgendo da lungi il tetto della sua capanna, o il sottile pennacchio di fumo che ne usciva, si faceva il segno di santa croce. I preti incontrandolo mormoravano: ite diabulis, ite ad inferi. I birri di campagna, per converso, non sdegnavano di soffermarsi sulla soglia del suo laboratorio, di chiedergli un boccale d’acqua fresca, e di accettare magari un boccale di vino, nonché di attingere da lui informazioni, intorno alla gente che batteva la campagna. Informazioni ch’egli era sollecito di fornir loro, studiando intanto di carpirne altre sul soggetto delle missioni ond’erano incaricati.
Avevano luogo fra loro dei dialoghi come questo:
- Fra Pasquale, s’è vista nessuna persona sospetta scorazzare per questi dintorni?
- Non mi pare. Però un povero ammalato che venne da me per soccorso, mi disse daver incontrato una comitiva di uomini, che tenevano i pistoni nascosti, sotto i ferraioli, i quali lo fermarono, gli fecero delle interrogazioni, poi lo lasciarono senza molestia.
- Da quale parte provenivano?
- Da Collevecchio.
- Ed erano diretti?
- Piegarono a manca, costeggiando la macchia.
- Era di notte?
- Di mattina verso l’alba. E dovevano aver fatto buon bottino, perché erano allegri e portavano delle bisaccie rigonfie. Il mio malato lo fermarono più per curiosità che per altro. Credo anzi gli regalassero qualche baiocco.
- Dovrebbero esser loro.
- Siete sulle traccia di qualche banda di grassatori?
- È stata assalita una vettura padronale di viaggiatori, che portavano di molto valsente. Dovrebbe essere la masnada del famoso Caciotaro.
- Non vorrei essere ne’ suoi panni.
- Perché?
- Perché non tarderà a cadervi nelle mani.
- Speriamolo.
- Siete soli?
- Abbiamo combinato un appostamento, col bargello di Collevecchio e le sue guardie, proprio nella macchia, costeggiata dalla vostra comitiva. C’è a scommettere che è quella del Caciotaro.
- Buona fortuna!
I birri se ne andavano, lieti e felici delle notizie avute da fra Pasquale. E fra Pasquale, che era in rapporti d’affari col Caciotaro, chiudeva la sua capanna e per la grotta si recava nella macchia, dove trovava tosto un messo da inviargli, per porlo sull’avviso; onde non avesse a cadere nell’agguato tesogli dal bargello.
Al Caciotaro e ad altri capi di banditi d’alta levatura, fra Pasquale porgeva eziandio informazioni sui viandanti, i corrieri e i viaggiatori di gran conto, che passavano, o dovevano passare, nei luoghi ove era agevole il grassarli. E su questi percepiva un quinto del bottino.
D’altra parte però, se qualche disgraziato, si buttava da novellino nella macchia, o spinto dal bisogno, o per aver commesso qualche delitto, per il quale era ricercato dalla giustizia, fra Pasquale non ritardava a saperlo: estendeva quanto più poteva le sue indagini, e ne faceva giungere notizie al Fiscale di Roma, che così gli conservava la sua protezione e non mancava di rimunerarlo lautamente. Così l’astuto eremita, faceva un doppio giuoco, ritraendone largo profitto ed assicurandosi l’impunità.
La sua clientela abituale era composta in gran parte di giovani sposi e di fanciulle innamorate ed a queste, specialmente se erano leggiadre, soleva imporre un tributo carnale. Le brine che l’età aveva deposte sul suo capo, non avevano spenta la sua foia, non avevano saziata la sua sete di femminei godimenti. Egli soleva attrarle con arte finissima nelle sue reti e una volta che vi erano incappate non gli sfuggivano di leggeri. Alcune cedevano riluttanti per tema di peggio; altre subivano la violenza, ma tacevano, un po’ per vergogna, un po’ per paura. Ed altre finalmente s’acconciavano con piacere, e queste erano ammesse alla sua intimità, nel terzo compartimento, passando pure qualche notte in orgie sfrenate, inebbriate dai vini generosi e dagli amplessi frenetici dell’eremita. E talora gli servivano eziandio da mezzane, inviandogli incaute giovinette, bisognose dei suoi molteplici ministeri, le quali, prima d’essere esaudite, dovevano subire l’oltraggio delle sue carezze e de’ suoi baci.