Mastro Titta, il boia di Roma/Capitolo X

Capitolo decimo - La storia di un Eremita

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Inaugurai il 7 luglio 1802 la seconda cinquantina del primo centenario, impiccando a Collevecchio Felice Rovina, condannato alla forca per avere strozzato un Eremita, chiamato fra Pasquale, benché non fosse punto frate e meno Pasquale. La sua storia merita d’essere qui narrata. Fra Pasquale apparteneva alla piccola nobiltà di provincia; aveva ingegno fecondo e bel personale, appetiti smodati e un coraggio a tutta prova. Se la sua famiglia fosse stata più ricca e avesse potuto fornirgli denaro quanto esigevano le sue dissipazioni forse avrebbe avuto miglior ventura. Messo invece dalle sue passioni alle prese col bisogno, scartò dalla via retta e precipitò giù per la china del vizio, che mena al delitto. E se non lo avesse sorretto l’acutissimo ingegno e una furberia di primo ordine, sarebbe finito nelle mie mani, invece del suo assassino. Dopo una sequela di bricconerie e di violenze, fra Pasquale, avendo ucciso un rivale in amore, di gran casato, dovette buttarsi alla macchia e dedicarsi alla vita del bandito. Ce n’erano di molti a quell’epoca e accadeva spesso che si mettevano in lotta fra loro, con gran compiacimento del governo, al quale non pareva vero che i masnadieri si ammazzassero da sé, risparmiandogli la spesa e l’incomodo di farlo esso.

Fra Pasquale batté la campagna per molti anni, sfuggendo a tutte le trame, messe su per pigliarlo. I birri stessi lo aiutavano un po’ per paura, un po’ per simpatia, un po’ ancora per avidità di lucro, imperocché, soleva distribuire anche a loro una parte dei suoi bottini. Era così giunto a quell’età, in cui anco gli uomini più robusti, incominciano a sentire il bisogno del riposo, e andava mulinando nella testa come avrebbe potuto procurarselo, quando seppe che era stata messa un enorme taglia sulla testa di un altro bandito, contro il quale si erano spiegate tutte le maggiori energie, e le più grandi sottigliezze per agguantarlo. La taglia - ripeto, enorme a quei tempi - era di tremila scudi. Ma nessuno aveva abboccato: c’erano troppi pericoli da affrontare per conseguirla.

Fra Pasquale - continuiamo a chiamarlo così, benché tal nome non avesse ancora assunto, - ebbe un’idea luminosa e tosto s’accinse a tradurla in atto. Una sera, mentre Monsignor Fiscale aveva appena finito di cenare e stava facendo il suo chilo, con un fiasco di vino accanto e la tavola tuttora imbandita, gli fu annunziata la venuta di uno sconosciuto, che chiedeva di parlargli.

Monsignore, che era di buon umore e sapeva d’altronde di essere ben custodito, ordinò che lo facessero passare. Entrò un uomo sulla cinquantina, coi capelli spioventi sulle spalle, e la lunga barba, brizzolati e questa e quelli, vestito alla cacciatora, con una certa eleganza.

- Chi siete? - gli domandò il Fiscale, ostentando il piglio brusco, d’un uomo disturbato ed annoiato.

- Non vi servirebbe a nulla il mio nome per il momento, s’anco lo declinassi.

- Che volete?

- Desidererei da V. S. reverendissima degli schiarimenti.

- Sopra quale argomento?

- Sulla taglia imposta per la presa del bandito Lucarini.

- Vi sentireste in grado di guadagnarla?

- Perché no?

- Sapete che sono ormai tre mesi che si è pubblicata e nessuno si è lasciato sedurre dalla medesima?

- Lo so.

- E voi vorreste tentare?

- Vorrei riuscire.

Monsignor Fiscale si tolse gli occhiali e ne pulì con un lembo del tovagliolo le lenti, quindi se li ripose e guardò fissamente il nuovo venuto. Questi sostenne lo sguardo e non si mosse. Il giudizio del Fiscale parve favorevole, perché la sua fronte corrugata si spianò e sclamò:

- Benissimo: mi sembrate uomo più che di parole, di fatti.

- Purtroppo!

- Purtroppo? - ripeté il Fiscale aggrottando le ciglia, - Perché?

- Perché i fatti mettono spesso gli uomini in brutti impicci.

- Ho capito. Avete qualche conto da rendere alla giustizia.

- Può essere.

- Vi avverto che non mi piacciono le locuzioni ambigue - Monsignore pronunziò queste parole in tono severo, e quasi duro, guardandosi attorno come cercasse qualche cosa o qualcuno. Fra Pasquale non se ne diede per inteso e continuò:

- Chi vi portasse la testa di Lucarini...

- Avrebbe la taglia promessa in tanti scudi di zecca, fiammanti uno sopra l’altro.

- E se avesse de’ conti da rendere alla giustizia, come monsignore diceva poc’anzi?

- Non gli verrebbero domandati in quel momento.

- E se volesse l’assicurazione dell’impunità?

- Bisognerebbe esaminare prima la cosa.

- Se si trattasse d’un traviato desideroso di ritornare sulla buona via e di emendare i suoi errori, rendendo dei servigi al governo?

- Potrebbe ottenerla per tacito consentimento.

- Vale a dire?

- Mutando nome e non offrendo colla sua condotta nuove cagioni di perturbazione, si ignorerebbe chi fosse realmente e si dimenticherebbero i suoi antecedenti. Suppongo però che non siate venuto da me per farmi subire un interrogatorio. Non ho l’abitudine di lasciarmi invertire le parti. Come vi chiamate?

- Francesco Perilli.

- Dei conti di Casana?

- Per l’appunto.

- Una testa val l’altra. Vi garantisco che la vostra rimarrà al suo posto, se mi portate quella del Lucarini... Fra quanto?

- Fra otto giorni.

- E sia. Ma badate: tentando d’ingannarmi voi non uscireste di qui che per andar alle carceri, e dalle carceri che per andare alla forca.

- Alla mannaia! Monsignore, alla mannaia.

- È vero; siete di stirpe nobile; me ne dimenticavo. Ma questa è una questione di forma, che non muta la sostanza. Liberamente siete venuto, e liberamente ve ne andate. Siate però certo che se non tornate, saprò cogliervi.

Perilli si inchinò ed uscì. Otto giorni dopo all’ora stessa, il medesimo personaggio tornava a presentarsi al Palazzo del Fiscale e venne da Monsignore ricevuto immediatamente. Perilli vestiva ancora da cacciatore, e portava un canestro sotto il braccio.

- Mi recate la cacciagione? - chiese giocondamente il Fiscale, allontanando un po’ la sedia dalla tavola, tuttora imbandita, e coi resti del dessert.

- Sì, Monsignore. E precisamente il capo... di selvaggina che mi avete domandato.

- Vediamo, vediamo.

Il cacciatore, con rapidità fulminea, tolto dalla mensa un gran piatto d’argento cesellato, trasse dal canestro la testa del Lucarini e depostala sul piatto la presentò al Fiscale, come fu presentata ad Erodiade la testa del Battista. Monsignore volle mostrarsi forte, ma un lieve pallore si diffuse sul suo volto, denunziando la emozione disgustosa che gli suscitava tal vista in quel momento.

- Riponetela, mormorò poi, volgendo da altra parte lo sguardo.

E Perilli acciuffatala per i capelli, la ripose nel canestro, quindi la coprì con una salvietta tolta dalla tavola, nella quale si era pulita la mano lorda di sangue raggrumato.

- Monsignore, disse tranquillamente, ho mantenuto il mio impegno, posso contare sul vostro?

- Ne avete la mia parola. Il mio maestro di casa vi passerà i tremila scudi. Che contate di fare?

- Indosserò l’abito del mio protettore S. Francesco, se me ne dà licenza Monsignore.

- Volete entrare in un chiostro?

- No, non me ne sento degno.

Il Fiscale si accorse dell’ironia che era nel fondo, di queste parole e sorrise. Perilli continuò:

- Mi ritirerò in campagna, in un piccolo eremo, che mi servì già d’asilo, in una valletta amena e silenziosa, come quella ove sorgeva la Casa del Sonno, cantata da Messer Ludovico.

- Mi darete contezza di voi?

- Non mancherò, Monsignore.

- Ne avrete congrua ricompensa.

- Grazie.

Con profondo inchino il bandito si accomiatò dal Fiscale e recossi dal Maestro di casa a riscuotere la taglia.