Mastro Titta, il boia di Roma/Capitolo XC

Capitolo novantesimo - Il misfatto - La scoperta - La civetteria della morte

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Capitolo novantesimo - Il misfatto - La scoperta - La civetteria della morte
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Vincenzo Iancoli e Francesco Valentini erano stati introdotti dalla Levante nell’appartamento e già si accingevano a scassare il forziere, cogli arnesi che avevano portato con sé, quando il francese, il cui sonno, come avvertii, era agitato, aperse gli occhi. Stette un secondo in forse, ma la percezione del vero subito lo colse e si levò a sedere, per lanciarsi contro i ladri. Non ne ebbe il tempo. Francesca seguendo le istruzioni avute, gli immerse nella gola la larga lama di un coltello, di cui era munita.

Il francese proruppe in un grido: i due grassatori tosto accorsero a lei e tolto di mano alla Francesca il coltello fumante di sangue lo crivellarono di ferite. Compiuto il misfatto e rubato tutto il denaro dal forziere, del quale avevano ritrovato la chiave sul francese, se n’andarono tranquillamente.

Il mattino vegnente il domestico del francese, che aveva una chiave propria per entrare nella palazzina, trovando il padrone assassinato, andò alla polizia a denunziare l’orribile fatto. La polizia si recò sopra il luogo per le indagini, e trovò l’abito di baiadera, che Francesca si era dimenticata di portar via, nella furia dell’andarsene, dopo commesso il delitto. Assunte informazioni, seppe della notte passata tre giorni prima dall’ex ballerina alla palazzina e si decise ad arrestarla. Operata una perquisizione in sua casa trovarono tutto il denaro rubato. Mentre la perquisizione si eseguiva, capitò a casa del Valentini e della Levante il Vincenzo Iancoli, e fu arrestato anche lui.

Il processo non andò per le lunghe: le risultanze erano troppo positive e gli imputati dopo aver riluttato un po’, confessarono. Solo Francesca tenne duro: ammise di aver passato la notte col francese; ma disse d’esser stata sorpresa dal Valentini il quale ne era geloso; che lui insieme al compagno avevano assassinato il giovanotto, quindi, scassato il forziere e portata via la roba, minacciandola di morte se avesse parlato. Ma il suo sistema di difesa non approdò e venne condannata co’ suoi complici al taglio della testa.

Venuto l’8 ottobre, giorno dell’esecuzione, Iancoli e Valentini si confessarono ed invocarono i conforti religiosi. Erano disfatti dalla paura e furono portati sul palco più morti che vivi; la sola Francesca Levante, vedova Ferruccini, si mostrò, coraggiosa. Aveva voluto indossare i suoi abiti più belli, come se avesse dovuto recarsi ad una festa e non alla morte. Si acconciò la testa con grande cura e mi raccomandò che presentandola alla folla, quando glie l’avrei recisa, facessi in modo di non deturparla. Vedendola salire imperterrita sui gradini del patibolo, col capo alto, il petto torreggiante, lo sguardo superbo, il passo sicuro, le anche lievemente ondeggianti, sfuggirono al pubblico grida di ammirazione.

- Quanto è bella! - dicevasi da una parte.

- Che peccato ammazzarla! - si aggiungeva dall’altra.

Francesca udiva ed evidentemente se ne compiaceva. Non volle essere legata. E mentre porgeva la testa allo strumento mortifero, s’acconciava le pieghe delle veste.