Mastro Titta, il boia di Roma/Capitolo LXXXVIII
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Il 25 settembre 1852 decapitai sulla piazza di Spoleto Pietro Giammarese, detto Cascotta di Terni, domiciliato a San Gemini distretto di Terni, delegazione di Spoleto, reo di parecchie grassazioni ed omicidi; il 20 agosto 1853, mozzai la testa sulla piazza del ponte di Rieti a Sebastiano Proietti d’anni 25, pure condannato all’estremo supplizio per grassazione e ladrocinio. La sua morte fu edificantissima. Fece una sincera confessione de’ suoi misfatti e se ne mostrò pentito. Volle assistere alla santa messa e ricevere il cibo eucaristico prima di muovere al supplizio. Lungo il tragitto dalle carceri alla piazza continuò a pregare ad alta voce, coi confortatori. Salì sul patibolo cantando le litanie lauretane e morì come un santo.
Una doppia esecuzione ebbi a fare il dieci settembre dell’anno medesimo in piazza della Madonna dei Cerchi, nelle persone di Giacomo Biacetti, fu Carlo, romano, d’anni 26, gramiciaro, e Andrea Leveri del vivente Antonio, romano, d’anni 28, vaccinaro, rei ambedue di grassazione, furto qualificato ed omicidi. Mossero entrambi al supplizio, gioiosi e cantarellanti, quasi andassero a nozze. Giunti innanzi alla ghigliottina la guardarono sorridenti. Severi disse:
- Presto, mastro Titta, fammi la pelle, che poi penserà mio padre a conciarla.
- Raccomandagli anche la mia - aggiunse Biacetti.
La loro indifferenza per la morte suscitò l’ammirazione di tutti i facinorosi che assistendo all’esecuzione dicevano: "Così muoiono i veri romani".
L’8 ottobre, manco un mese dopo, mi dovetti trovare a Viterbo per una triplice esecuzione: due uomini, Vincenzo Iancoli di Ronciglione e Francesco Valentini di Letera, e una donna, Francesca Levante, vedova Ferruccini, che avevano combinato con molto accorgimento un omicidio a scopo di furto.
La Ferruccini era una bellissima donna, che aveva viaggiato il mondo e fatto un po’ di tutti i mestieri, segnatamente la danzatrice di teatro. Innamoratasi del Valentini lo aveva seguito a Viterbo, e quivi vivevano, come potevano. Ma presto le privazioni vennero a noia ad entrambi e la Francesca pensò a trar profitto dalla sua bellezza, col consenso dell’amante, che divideva il ricavo della di lei prostituzione.
Ne’ dintorni di Viterbo era venuto a stabilirsi, in una elegante casina, un signore francese, ex ufficiale dell’esercito, il quale pare avesse avuti dei gravi dispiaceri per causa di donne al suo paese, e si era recato colà, per godervi un po’ di pace e tranquillità, for’anche per sottrarsi a qualche possibile vendetta. Egli conosceva il paese, per esservi stato di guarnigione mentre era sotto le armi, e gli parve che nessun ritiro, gli potesse convenire meglio di quello. Veduta un giorno a Viterbo Francesca, ch’egli aveva conosciuta, mentre esercitava il suo mestiere di ballerina, le si accostò e l’abbordò così:
- Voi qui? Come mai? Mi pare d’avervi veduta sul teatro.
- Ci fui infatti.
- E vi siete ritirata?
- Son qui col mio uomo. - Così dicendo Francesca saettò con uno sguardo il giovane forastiero, che si chinò al suo orecchio e le susurrò una misteriosa parola.
- Perché no? - rispose la Levante.
- Quando?
- Stasera stessa.
- Sei libera?
- Perfettamente.
- Il tuo uomo?
- Chi si preoccupa di lui?
- Allora t’aspetto.
- Verrò. Preparatemi una buona cena e dello Champagne. Amo lo Champagne, sapete?