Mastro Titta, il boia di Roma/Capitolo LXVI

Capitolo sessantaseiesimo - L'assassinio e l'espiazione

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Sull’albeggiare la moglie si svegliò: si sentiva la testa pesante e indolenzita, pei fumi alcoolici. Lo disse al marito e questi le propose d’alzarsi e di andare a fare una passeggiata in montagna. L’aria fresca del mattino le avrebbe giovato. Conosceva un bugigattolo dove si vendeva dell’ottimo vino e avrebbero potuto fare un piccolo spuntino. Michelina aderì di grand’animo; balzò fuori dalle coltri e si vestì in fretta e furia. Domenico fece altrettanto e mezz’ora dopo, mentre Tolentino era ancora immersa nel sonno e non si vedeva per le strade anima viva, i due coniugi uscivano dalla città e si avviavano per la campagna ad un sentiero montano.

Man mano che salivano il sentiero si faceva sempre più ripido ed aspro, il paese fitto d’alberi, d’arbusti e di inestricabili liane. Usciti finalmente dalla macchia si videro aprirsi, innanzi uno stupendo panorama. Il sole ormai alto indorava una successione di colli digradanti verso la pianura per un lato. Sotto i piedi avevano un burrone profondo e nero; alle spalle l’erta scoscesa.

- Guarda - disse Domenico alla moglie - che bella vista.

- Stupenda! - esclamò Michelina, realmente ammirata.

In quell’istante si sentì afferrata per la vita. Credette ad un trasporto di voluttà del marito e gli si abbandonò volenterosa, benché sorpresa dal fatto inusitato.
Il merciaiolo, con uno sforzo prodigioso, la sollevò sulle braccia e la lanciò giù per il burrone. S’udirono due gridi contemporanei e nulla più. Il corpo bellissimo della donna appariva denudato, essendosele rimboccate le vesti nella caduta e precipitando sobbalzato di picco in picco, di sterpo in sterpo si tingeva di sangue, finché giacque esamine e disfatto sul fondo del burrone.

- Ecco fatto - mormorò tranquillamente il merciaiolo che aveva voluto veder gli effetti del suo colpo; quindi rifacendo la via percorsa s’avviò a casa, pensando con gioia al piacere che avrebbe fra pochi momenti provato, ficcando pur lui le mani nell’oro del bauletto, del quale aveva avuto cura di strappare la chiave alla vittima, mentre la scaraventava nel vuoto.

Egli aveva fatto i suoi calcoli con matematica precisione. La Michelina era ben nota per la sua vita avventurosa. Nessuno l’aveva veduto tornare la sera, e nessuno uscire la mattina. Egli avrebbe potuto mostrarsi ignaro di ciò che era avvenuto e mettere intanto in salvo i suoi valori. Forse lo avrebbero arrestato: ma non si sarebbe trovata né una prova, né una testimonianza ed avrebbero dovuto rilasciarlo, dichiarandolo innocente e attribuendo il delitto a qualche amante geloso e vendicativo.

In base a questi calcoli, rientrato nel proprio domicilio, si impossessò della preziosa cassetta, vi chiuse i gioielli che la moglie aveva lasciati nel canterano e avvoltala, a mo’ de’ soliti involti di merce che soleva portare da un paese all’altro, chiuse la porta di casa ed uscì. Giunto sulla via si vide venire incontro un personaggio che lo fece rabbrividire. Era il bargello, al quale s’unirono tosto due gendarmi, che lo ammanettarono e lo trassero in carcere coll’involto. Aveva creduto d’aver compiuto il misfatto senza testimoni ed era stato invece veduto da un giovane contadino, il quale s’era affrettato a portar l’avviso alla polizia.

Domenico Valeri tentò di adottare il sistema di difesa preventivamente architettato. Ma contro di lui stava la testimonianza del contadino e il corpo del delitto. Abilmente interrogato dal giudice finì per confessare, attribuendo alla infedeltà di sua moglie il movente del delitto, e così credette di poter salvare la testa. Ma il piano non gli riuscì.

Condannato nel capo dopo sei mesi di prigionia, il 15 febbraio 1830 io fui chiamato ad eseguire la sentenza. Benché munito dei conforti religiosi, morì vilmente, portato di viva forza sul palco fatale da me e dal mio aiutante.