Lo schiavetto/Atto quinto/Scena V

Atto quinto - Scena V

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Prudenza, Fulgenzio, Alberto

Prudenza.
Fuggi pure; ti vuo’ levar la vita, s’a me levasti l’onore.
Fulgenzio.
Fermatevi signora, non s’affatichi correndo di tôr la vita a chi la vita dar le vuole in potere, se d’ascoltar due parole sole si farà degno chi, per sentenza sua, debbe morire.
Prudenza.
Il mio rapito onore non merita tanta dilazion di tempo. Ah rapitore di femminil pudicizia, tu fuggi?
Fulgenzio.
Non fuggo per tema ch’io m’abbia d’essere piagato, ma per lo disgusto ch’io sento di non esser da lei ascoltato.
Prudenza.
Pur bene sarà ch’io l’ascolti, e poi che ’l ferro nel l’empio io rivolti.
Or che saprai dire, che dir vuoi? Ohimè comincia, che tanto m’è caro l’indugio, quanto che doppo l’aver ragionato precipitosa esser dovrà la mia vendetta.
Fulgenzio.
Eccomi a’ piedi suoi, con il ginocchio del core assai più chino, che con le ginocchia del corpo. Ah Prudenza, ad altro fine (e mi si creda) adornata di tal nome di Prudenza non fu, se non perché, dal nome suo ella fatta oggi prudente, dovesse dal petto sbandire l’ira, il furore; e considerare che pure, me uccidendo, uccideva con un colpo solo e ’l servo suo, e ’l suo amante, e ’l suo consorte. Sù, Prudenza, che s’indugia? m’è caro per lo suo ferro, per la sua mano, di morire! Ecco ch’io m’apro il seno, ecco ch’io le facilito, ecco ch’io le agevolo la via, acciò che mi conduca a morte. Trafigga, e m’apra pur questo petto, ché ben so che rimirandosi ella stessa nel mio cuore, non sarà così cruda, che non si dolga d’aver atterrato quel petto che natura fece erario della imagine bellissima sua. Non meritava, così pregiata effige, d’essere scolpita in oro, overo in gemma, ma in un côr vivo e inamorato, e perciò cortese natura il mio elesse fra molti amatori, come il più puro nelle fiamme de’ miei sospiri purgato, e nell’acque del mio pianto lavato. Or se nemica alla natura, ad Amore e a lei stessa esser vuole, atterri questo corpo, laceri la bella imagine sua. Sù, che s’indugia? Prudenza, m’è caro il morire, per non vivere in disgrazia sua ogn’or morendo. Ecco le testimonie del dolore, che a mille a mille da gli occhi io spargo! Pure la vindice mano è di ferro e di vendetta armata, pure la vittima a’ piedi suoi mirasi prostrata.
Prudenza.
O Prudenza, o Prudenza, da quanti varii affetti combattuta se’! Pietade e vendetta in te ragionano, ciascuna oratrice faconda, e ti persuade alla vendetta e dalla vendetta ti dissuade. Or l’una t’acquista, or l’altra dall’acquistante ti ruba; or questa fuggi, or questa segui; or vuoi, or disvuoi; or obliando in tutta la pietà, movi la mano, drizzi il ferro, vibri il colpo; ma mentre l’acuta punta precipitar nell’inimico seno vedi, ecco Imeneo che fa il colpo arrestar così dicendomi: «Che farai micidiale? Al fine dura forza ti sforza a chiamarlo consorte, e come tale a bramar anche la salute sua; ond’ha che prima il ferro giunga al suo petto, tu il colpo nel mezo del cuore senti». Lassa, che far mi deggia non so. Vendetta di nemico, voglia dell’amante mio ingiuriato, vorrebbe che sparger li facessi il sangue. Pietà poi di colui, che consorte oggi chiamar debbo, m’impone ch’io, lagrime spargendo, da terra lo sollevi e mio consorte il chiami. Nell’uno avampo d’amore, nell’altro per l’odio aghiaccio; nell’uno tutto mèle d’Ibla, nell’altro tutto veleno libico i’ sono. E in queste mie strane e tante irresoluzioni, né cedo, né m’avaloro; né perdono, né vendico; né getto il ferro, né ferisco; né do vita, né uccido; ma io sola, piena di pace e di guerra sono, e io sola ferita. Tale è cacciatore, che la foresta scorrendo, scorge la fèra. Ella sorge e lo fugge, ei la segue, ambe le mani di dardo acuto armate avendo, ed eguali al ferrire esperte. Qua la fiera s’incespa, là subito smacchia, qua alla diritta corre, là alla sinistra fa mille volte, e tanto qua e là s’aggira, ch’or bramoso il cacciatore con la destra, or con la sinistra di ferirla, mai non la ferisce, ond’ella libera al fine sen’ fugge. La fiera se’ tu, la cacciatrice io sono, i duo dardi acuti, che nella destra, che nella sinistra mano io stringo, l’uno è ’l dardo della pietà, l’altro della vendetta. Ferir ti vorrei, ma qua t’aggiri alla sinistra con diversi giri d’una profonda umiltà, colà alla destra fuggi e inselvi come fèra da me odiata; qua alla sinistra ti dimostri ingannatore, colà alla destra ti discopri amatore; or qua nemico, or là consorte, sì che l’una mano all’altra il colpo cedendo, e l’altra all’una, fa ch’io giamai ferisca, e tu illeso ti trovi. Ma perché è meglio che donna rimanga più tosto onorata e invendicata, che vendicata e disonorata, Fulgenzio, pace trovando ne’ miei interni contrasti, io ti perdono. Ed ecco, che la mano disarmata tanto ora verso di te io movo, nunzia di pace, di vita e di fede maritale, quanto già contro di te la spinsi, ministra di guerra e di morte.
Fulgenzio.
O cuore generoso, o anima gentile! Scusa, scusa l’amoroso fallire, cagionato da quella dolce violenza che da te ne’ cuori far si sente, con isforzo irreparabile.