Lo schiavetto/Atto quarto/Scena VIII

Atto quarto - Scena VIII

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Atto quarto - Scena VII Atto quarto - Scena IX


Prudenza, Alberto, Nottola, Fulgenzio, Rampino, Grillo, Cicala, Corte, Schiavetto, Rondone, Orazio

Prudenza.
Chi è là? chi picchia? Il signor padre non è in casa, non posso aprire.
Nottola.
O che buona figliola.
Alberto.
Prudenza, io son tuo padre, apri.
Prudenza.
O caro signor padre perdonatemi, io non l’aveva conosciuta.
Nottola.
Qui, signora, s’ha da fare la pace della guanciata ch’io le diedi e si ha da stare allegramente. Sù Grillo, Rampino, Cicala, e voi altri, pigliar carrieghe e scagni.
Rampino.
Grillo, Cicala.
Grillo.
Signore.
Cicala.
Che vuole.
Rampino.
Sù presto, fa’ venir da sedere; vosco menate la corte.
Grillo.
Su, corte, tutti venite meco; sù presto, dico.
Nottola.
O ecco qua Schiavetto e Rondone.
Schiavetto.
Eccellentissimo principe, io son qua e ho apparecchiato cose meravigliosissime per farla stare allegra.
Nottola.
Così appunto bramiamo. Ma chi è colui che spunta da quel canto di strada? Ammazzàtelo. Olà, a chi dico?
Rondone.
Cacciate mano meco tutti, signori.
Orazio.
Mio signore, con le ginocchia a terra le parlo. E che offesa le ho fatt’io?
Schiavetto.
Invitissimo signore, la Prudenza seco sia e si ricordi che sì come il sole è adornamento del giorno, la luna della notte, che così la Prudenza è adornamento del grande. Che dispiacere le ha fatto questo povero gentiluomo?
Prudenza.
Ah signore, non si mescoli (in grazia lo chiedo) il pianto, dove solo si attende il riso.
Nottola.
Gentiluomo, vi sia salvata la vita. Venite qua.
Orazio.
Son qui con ogni riverenza maggiore, mio signore.
Nottola.
Baciate questa mano, questa spada; ringraziate e l’una e l’altra, che dalla vita non vi abbiano condotto alla morte.
Orazio.
O che pazzo umore!
Così ho fatto eccellentissimo signore, con la lingua del cuore e dell’alma, da lei riconoscendo una nuova vita.
Nottola.
O ecco da sedere. Sù presto, senza parlare s’accomodi il tutto. O buono, o buono. Sedetemi appresso, ché vi do licenza.
Alberto.
O che cortese signore.
Nottola.
Pigliate, vi dono questa catena.
Orazio.
Troppo di favore carica il mio debolissimo merito, invitissimo prencipe.
Nottola.
Piglia questo anello, co ’l quale ho sposato sette duchesse.
Orazio.
O cortese signore, e che grazie sono queste?
Nottola.
Baciami nella guancia.
Orazio.
Tanto, signore, a me si concede?
Nottola.
Fa’ presto dico, non più parole.
Orazio.
Con ogni maggior riverenza la bacio.
Nottola.
Bacia la bocca.
Orazio.
La bocca?
Nottola.
Sì, fa’ presto.
Orazio.
Ecco, signore.
Nottola.
Baciami questa scarpa, presto; a chi dico? Puttanaccia, cospettaccio, ti darò delle pugnalate! Bacia questa scarpa, che rizza il tulpante in capo al gran turco prima che gran turco possa esser detto. Nettela prima con il mio feraiolo, to’.
Orazio.
Ecco, che co ’l mio la netto, benché così la baccierò ancora.
Nottola.
Non voglio che tu la baci così, né che tu la netti co ’l tuo feraiolo, ma con il mio. To’, piglialo e nettela.
Orazio.
Per ubidirla, ecco che lo fo.
Nottola.
Or pìgliatelo, ché te lo dono; bacia ora e fa’ presto.
Orazio.
Ecco ch’io la bacio.
Nottola.
Oh? Adesso i’ son contento e se vi ho dato del tu, perdonatemi, perché quando vo in collera, così parlo co ’l re di Francia e con il re di Spagna. Ora sedete tutti. E tu Schiavetto, e tu Rondone, date principio.
Rondone.
Adesso, signore, mi lasci accomodar questa valige; poscia state tutti attenti, che adesso è ’l tempo d’allegrezza, e della maggiore che abbia l’allegrezza nel suo salvadinari.
Nottola.
Or sù, allegramente figlioli, incominciate a sonar voi con i vostri stromenti, ch’io pure incomincierò sonare con i miei sacchetti di doble mal tosate.
Schiavetto.
Signori, silenzio, ch’io voglio darvi un poco della mia mercanzia.
Rondone.
Oh? Signori, della sua mercanzia n’ha pur data tanto a Fiorenza, così ne dia in questa città, che si faremo ricchi.
Nottola.
Eh? Sarò ben uomo io di pigliarne tanta quanto tutti i fiorentini.
Schiavetto.
Sì? Orsù io comincio.
Tu c’hai le penne Amore,
e sai spiegarle a volo,
deh movi ratto un volo
sin là dov’è ’l mio core.
E se non sai la via
co’ miei sospir t’invia.
Va’ pur, che ’l troverai
fra ’l velo e ’l bianco seno,
o fra ’l dolce sereno
de’ luminosi rai,
o fra’ be’ nodi d’oro
del mio caro tesoro.
Nottola.
Buono, buono certo.
Schiavetto.
Eccellentissimo principe, e voi altri illustrissimi signori, questo è un presentino tutto musco, tutto ambra. E di queste cose n’ho fatto una composizioncella, per tenere nella bocca, che per mia fé aprendola, n’uscirà un odore così grato, che né il popolo arabo, né ’l sabeo sentì giamai così soave refraganza d’odori. E perché io bramo che si conoschino gli effetti conformi alle parole, già io alla roba fo il prezzo, per tanto mandi ciascuno una dobla della cartella, che questo è ’l minor premio.
Nottola.
Grillo vien qua, di’ che me ne mandi per tre mila doble.
Schiavetto.
Ma caro il mio signore, tanta mercanzia io non ho. Se vuol questa poca, è tutta sua, come pur suo è Schiavetto. Ma prima (in grazia) si compiaccia, sua eccellenza, che quel gentiluomo detto Orazio ne facci il saggio, e poi sua eccellenza faccia della mia mercanzia quello che più le aggrada.
Orazio.
Di grazia, eccellentissimo signore, io ne farò il saggio. Gettate, eccovi il fazzoletto.
Schiavetto.
Caro signore, dica quello che ne sente; ecco c’ho annodato il fazzoletto. Pigli, giovine innamorato e leggiadro.
Orazio.
Adesso dirò quello ch’io ne sento. O come sono delicati! Certo, signore, ch’è una composizione nobilissima.
Nottola.
Sì? Date qua tutte quelle che avete.
Rondone.
Eccole signore.
Nottola.
Pigliate signori fra tutti voi, ch’a tutti di questi odori fo dono.
Rondone.
Signori, cheti, ché adesso è tempo ch’io venda della mia mercanzia.
Nottola.
Signori, Rondone dice benissimo, ascoltiamolo.
Alberto.
Sì, di grazia, perch’è già pronto a darne sommo gusto.
Rondone.
Onorati signori, se Schiavetto vi ha dato della mercanzia e l’avete gradita, Rondone pure vuol darvi della sua, sapendo che non vi dovrà esser men cara dell’altra, per tanto, onorati padroni, non aspettate da me scongiuri, né calatina, né ch’io dica male d’alcuno, perch’io non so farlo. Io adunque, signori, ho una ricettina da far fallire uno che sii il più ricco uomo del mondo, in termine d’un mese solo.
Nottola.
O buono, o buono! Alla fé, ch’io incomincio a ridere, eh, eh, eh.
Alberto.
È grazioso costui, eh, eh, eh.
Rondone.
Una ricetta poi da far pigliare il più solenne mal francese del mondo? Io l’ho appresso di me, e così rara, che per farne la prova mi son pelato sette volte.
Nottola.
O questa è più bella, eh, eh, eh.
Rondone.
Ma adagio signori, questo è nulla. Guardate un poco questo invoglio di carta; non è bello? Sì, mo crediate pur certissimo che ’l bello di fuori argumenta eziandìo il buono che v’è dentro. Ma che, tante chiacchiere? Leviamo questa carta, quest’altra, quest’altra, questa, questa, questa pure, e pur questa. Eccola qua, signori. Ah golosi, correte a questo boccone, che così vi fuggirà la voglia di farvi appiccare per la gola! E se non è così, giuro, rinego, dispetto. Or sù venitevi a servire. Che fate? Via, presto, signori, ché non ho altro che questi quattro, vedete?
Nottola.
O questa ricetta tienila per te! Qualche goffo compererebbe della tua mercanzìa, del tuo unguento da rompere gli strangoglioni, o che ghittone, quelli sono quattro capestri d’appiccato!
Rondone.
È che burlo, signori, e questo fo solo per tenervi allegri. Questo invoglio di candidissima carta è quello che nasconde il tesoro ch’io m’intendo di darvi; né si creda che questo sia unguento per dolori, né pasta per conservare denti, ma una ricetta per giovare a tutto il genere umano. Queste, signori, non sono fandonie. Siete forse travagliati per colpa d’una grossa famiglia? Levate questa carta, quest’altra, questa. Guardate, signori, questa si domanda una fugaccia; e dato che fosse carestìa grande, e che non si trovasse pane, pigli un galant’uomo quattro di questi miei elettuari, e per via di zuppa, o di bocconi, o in altro miglior modo, pur che vada nel corpo, ch’io l’assicuro che se per tutto quel giorno sente fame, io n’incaco a Cerere se con le sue spiche pungenti non mi punge il preferito, quando io vado in campagna a vacuare.
Nottola.
O che bello umore, e dove domine trova costui queste cose?
Alberto.
Stupisco, signore.
Nottola.
Séguita, caro il mio Rondone.
Rondone.
Vedete voi questa inghistara e acqua? Ponetene in questo bicchiere, e acqua. O questa è l’importanza: verrà un ciarlatano, e con un poco di polvere di verzino, ponendovela nel bicchiere gli darà il color di vino; parerà all’occhio, che sia vino, ma saggiàtelo, sarà poi acqua. Ma io non fo così. La mia ricetta è di far quest’acqua parer vino al colore, e vino proprio al sapore. Che sia vero guardate, questo è un boccale, qui si ritrova il liquido, atto a dare a quest’acqua la perfezione. Or mirate, che dite? Qual è quel balordo che non dica che questo sia vino al colore? Vedete, io bevo. Or qual è quel testa di cavaletta campagnola che non dica ancora che sia vino al sapore?
Nottola.
Mo costui per far ridere è meraviglioso, eh, eh, eh.
Rondone.
Ma signori non cessa qui la cosa. Il terzo segreto è quello che vale. Ho venduto fino ad ora per gli uomini, ora vender per le donne io voglio. Signori, che credete ch’io serbi appresso di me per donarvi? Io voglio donarvi una palla muschiata, composta di testicoli di Castore e impastata del sudore che si leva fra le gambe di que’ gattoni che fanno il zibetto. Questa palla è di sapone così fino e purgato, che per mia fede si potrebbe mangiare. E perché non crediate che ci sia calcina, cenere ed altre sporcizie, guardate, ch’io la levo dalla carta. Mirate signori, questa è la bambagia, la quale dalla palla io levo perché non si creda che in essa sia l’odore; ecco la palla, ecco ch’io la pongo in bocca, ch’io la mastico, io la mando abbasso; e se io non sento tanto giovamento quanto s’io mangiasse un torlo d’ovo, reputatemi un furfante.
Nottola.
Mo se vuoi ch’io ti dica il vero, tengo che appunto sia un torlo d’ovo. Lasciami un poco vedere la bambagia che gli levasti d’intorno.
Rondone.
Eccola signore; che fa, signore, se la mangia?
Nottola.
O furfante, questa è bambagia, poi? Questa è chiara d’ovo appresa.
Rondone.
E la palla ch’io ho mangiato era il suo torlo.
Nottola.
E che virtù ha questa palla?
Rondone.
Di far l’uomo indovino.
Nottola.
E come?
Rondone.
Non ha ella indovinato che questa non era bambagia, ma chiaro d’ovo?
Nottola.
Sì.
Rondone.
O vedete che siate indovino.
Nottola.
Eh, eh, eh, o che ridicolosa cosa, eh, eh, eh, ohimè, non posso più, dal tanto ridere.
Orazio.
Ohimè, che cosa è questa?
Alberto.
Signor Orazio, che vuol dir, ch’è così pallido?
Orazio.
Ohimè.
Nottola.
Perché vi slacciate il seno?
Orazio.
Signor io mi muoro.
Nottola.
Aiuto, ch’ei muore daddovero. Olà Schiavetto, hai qualche rimedio contra veleno?
Schiavetto.
Ogni rimedio è tardo per lui.
Nottola.
E perché? Ohimè, Orazio è venuto meno! Sostenetelo. Oh povero gentiluomo.
Prudenza.
O Prudenza sfortunata, che miri?
Schiavetto.
Sappiasi che per commissione d’un suo capitalissimo nemico sono andato gran tempo cercando costui, per tôrgli la vita; e oggi appunto con que’ moscardini hollo avelenato.
Nottola.
Ohimè, e io sono avelenato?
Schiavetto.
No, poi ch’egli solo avelenai.
Nottola.
Ah traditore.
Prudenza.
Ah crudo avelenatore.
Alberto.
Ah furbaccio.
Nottola.
Ti voglio ammazzare.
Alberto.
E no, signore, e no.
Nottola.
Non mi tenete, non mi tenete.
Rondone.
Lasciate, signore, questo carico a me. Ah furbaccio.
Rondone.
Ferma là, che ti do di questa valige ch’io ruoto nel capo, ve’? Ferma, ferma.