Lo schiavetto/Atto quarto/Scena V
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Giovan Battista Andreini - Lo schiavetto (1612)
Atto quarto - Scena V
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Succiola, Rondone, Schiavetto, Prudenza
- Succiola.
- Guarda, guarda.
- Schiavetto.
- Corri, Rondone, corri.
- Rondone.
- Che poca discrezione, non mi aspettare! È caduta lei.
- Succiola.
- O arcolaio, e che diss’io, delle nostre baccelate, eh?
- Rondone.
- Oh? delle nostre Succiolate! Sempre tu se’ su’ tuoi proverbi.
- Succiola.
- Oh? Udite il bue delle maremme.
- Rondone.
- Uh? Udite la vacca trentina.
- Schiavetto.
- Eh? Rizziamo questa povera signora ch’è caduta in terra.
- Rondone.
- Ma vi dirò il vero io. Ho tanto bello umore quanto costei s’abbia; per tanto, sì come gli è piaciuto di gettarsi a terra da lei sola, così le piaccia da lei sola di rizzarsi in piedi.
- Schiavetto.
- E tu non vedi che per isvenimento ell’è caduta?
- Rondone.
- Oh? S’è così, l’aiuto. Cànchero, pesa! Ho paura che tutti i morti le siano entrati addosso per farla più pesante, io.
- Succiola.
- I’ ti vo pur anche a cotest’otta aiutare, sudiciaccio.
- Schiavetto.
- E io pur t’aiuto, sù via.
- Rondone.
- Sù via, issa, issa, issa.
- Succiola.
- Cotestui è stato aguzino di galea al sicuro.
- Schiavetto.
- Lodato il Cielo, ella riviene. Rondone, tu corri in casa per quelle mie acque odorose, per consolarla. E tu non parti ? tu non camini?
- Rondone.
- Siete pur buono, non sapete che il Rondone ha pochi piedi? Non si dice mai va’, ma vola o balotta.
- Prudenza.
- Oh com’è faticoso il viaggio della morte! Sfortunata Prudenza, se’ pur di nuovo ritornata in vita, per di nuovo morire, acciò che sia doppio il dolore, doppia la morte.
- Schiavetto.
- Signora, s’è vero che cosa alcuna non si neghi a chi con non finta umiltà chiede grazia, richiedo, pregola, de gli affannosi suoi contrasti a darmi parte, ché come un peso è più leggiero a duo, che ad un solo, così il peso de’ travagli communicato ad orecchio amico viene in gran parte a far minore la soma delle noie; né mi sdegni credendo che da abito così vile uscir non possano se non vili pensieri, perché da le siepi di sole spine spuntano ancor le rose e dalle rustiche conche si traggono le perole.
- Prudenza.
- Il mio male è così disperato, che speranza alcuna non ha di bene.
- Schiavetto.
- E disperata nave sovente in porto sicura e lieta ricovrossi.
- Prudenza.
- Ohimè, ché troppo la nave di questa mia vita è carica d’affanni e di tormenti, uop’è che l’onde di morte l’inghiotischino.
- Schiavetto.
- Le mani della prudenza la scarichino di tanto pondo. Ah signora, non si fugga la vita, che se ben è d’affanni ripiena, nondimeno è cara e desiderata.
- Prudenza.
- Felice è la vita di coloro che nella Trapobana isola vivono, poi che saggia lingua riferisce che colà solo gli uomini vivono senza travaglio. Ma chi mira questo cielo, sotto questo clima forz’è che s’addolori, nato essendo alle angoscie, a gli affanni, al pianto.
- Schiavetto.
- Or sù signora, in grazia, si termini questo certame lagrimoso, e basti che ogn’un che vive dee cercar di menar vita allegra. In grazia, mi palesi il suo male, ché ogni male ha rimedio.
- Prudenza.
- Sentomi così dalle vostre preghiere in queste mie amarezze far una dolce violenza, che forzata sono, cangiando l’assenzio in mèle, a dir quello ch’io bramava di palesare solo alla morte, oggi secretaria fatta delle mie passioni.
- Succiola.
- Sì sì signora, disce bene, islargatevi un pocolino, un tantolino, ché giova molto, vedete, ne’ travagli e smisurati.
- Prudenza.
- Or m’udite, cortesissimo giovine, che a tesser comincio, sopra le fila del dolore, la mia miserabile tela. Io amo un gentilissimo garzone, detto Orazio Cortesi, e in dolce trasformazione amorosa ambi viviamo congiunti. Ora nemico padre, intendendo far di noi amarissima separazione, terminò di darmi ad un principe sconosciuto per moglie, e questi non così tosto mi toccò la mano, che li cadde in mente di rinunziarmi ad uno ch’odio al paro (non dirò della morte, poiché solo per colpa di costui la morte apprezzo) ma dirò bene che l’odio quanto l’odio istesso odiar possa. Ma se pur questo principe d’ogni volubiltà e ignobiltà m’avesse conceduto un poco di dilazione di tempo, non sarei sì mesta, perché, avertito il mio caro Orazio, avrei seco potuto fare di quelle ultime resoluzioni che suol fare generoso cuore inamorato. Ma il peggio è che mi ha detto che come torna vuole che meco goda de’ frutti maritali, o vero, alla più lunga, al tocco delle ventiquattro ore.
- Succiola.
- Chèti tutti. Non guadagno io un chicchirillò se senza andare da’ giudici a squittinare, i’ do la sentenza in vostra lalde? Ho la gozzaia anch’io, per dirla con quel miser Fulgenzio, che ad ogn’ora va qui dintorno ronzando; ma l’avrà errata questa fiata. Ditemi, non disse il principe che alla più lunga si doveva logorare il matrimonio alle ventiquattro?
- Prudenza.
- Sì.
- Succiola.
- Oh? Mi servirei del motto di monna pippa gobba dalle poppe sudisce, che disse: «Se non ti piasce il parer d’aitri fa’ a tuo mo’». Se non vi gusta all’otta delle ventiquattro godervi con cotestui, e voi alle ventidue godetevi con chi vi piasce.
- Prudenza.
- Tu di’ bene, ma questo non puote essere.
- Succiola.
- E perché? La donna non è come il pignattaio? Come ell’ha fatta la pentola, è ben pazza se non gli pone il manico a suo mo’! I’ vi vo’ salvare dalle mani di cotestui ad ogni modo, si dovessi fare alle pugna seco, e riportarne il naso pieno di bitorzoli.
- Prudenza.
- D’ogni tuo affetto pronto al giovarmi io ti ringrazio, ma sappi che ’l tutto è vano per questa cagione, attendi. Già desiderosa io d’esser d’Orazio mio, oggi seco posi ordine di fuggirmene dal padre alle due ore di notte; or di veder Orazio mio, fino a quest’ora non bisogna già ch’io speri. Verrà in questo tempo Fulgenzio, verrà il principe, verrà mio padre, e temo che, dalla maggior forza superata la minore, far io debba quello che far già non vorrei.
- Succiola.
- Cicala un poco ancor tu Schiavottolo, e fa’ che malgrado di cotestoro si vegga il bel gamurrino sciorinato, fatta isposa la signora Prudenza, e facendole moite gentildonne dietro un bel corredo, ella con gravità si cacci con la rosta le mosche dal viso.
- Schiavetto.
- Tu di’ bene. Mia signora, perch’io so ch’ad un piagato d’amore tosto dar soccorso si dee, prima che lo spasimo amoroso li giunga al cuore, m’attenda, che l’alpestre viaggio di tanti affanni appianar le voglio.
- Prudenza.
- O lo consenta Amore.
- Schiavetto.
- Or ora per amor suo andare alla piazza i’ voglio, ché ben questo Orazio conosco; colà voglio in eminente banco salire, e con il canto e con il suono ivi tirare ogni occhio, ogni orecchio, a rimirarmi, ad udirmi. Non potrà fare che affaccendato Orazio per questa fuga non passi a caso per la piazza, subbito ch’io lo vedrò, farolli cenno e, avisatelo del tutto, delle gioie d’amore farò che s’arricchisca.
- Prudenza.
- O gentilissimo Schiavetto, che la libertade ad altri comparti, o come già m’hai ravvivato il core, vicino a sommergersi nel profondissimo Egeo del mio pianto! Io me n’entro tanto consolata, quanto già sconsolatissima a questo aperto cielo io venni.
- Succiola.
- Or sue, caro erbolaio amoroso, se fino a cotest’otta avete pasciuta la mia signora di verde lattuca, arrecàtele, vi prego, ancora il baccello, accioché possa mangiar tanta fava, che se le gonfi il ventre, anzi che nel ventre gli nasca. Addio.