Lo schiavetto/Atto primo/Scena IV
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Giovan Battista Andreini - Lo schiavetto (1612)
Atto primo - Scena IV
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Orazio, Fulgenzio, Prudenza
- Orazio.
- Ohimè, che vedo? e Prudenza mi ama? Voglio celarmi. Ohimè, ella mi ha scoperto! Io voglio minacciarla. E’ ride? o misero, o me tradito.
- Fulgenzio.
- Ah, mia signora, so ben perché ride! Ride perché vede che partir da lei io non so, ben che di partire più volte abbia fatto mostra; non è così?
- Prudenza.
- È più che vero.
- Orazio.
- Ah traditrice!
- Prudenza.
- Facciasi più avanti, caro il mio signore.
- Fulgenzio.
- Sì, signora, eccomi.
- Orazio.
- Ella ha detto a me co ’l gesto, voglio farlo.
- Fulgenzio.
- Vuole forse che più mi faccia avanti?
- Prudenza.
- No, no, signore, ella sta bene dove è. M’ode pure, non è così?
- Fulgenzio.
- Sì signora, e anche intendeva colà dov’io era, ben ch’io fosse un poco più lontanetto.
- Prudenza.
- Eh? Ho veduto ch’ella era in collera, e questo perché certo ella non aveva inteso. Ma ora stia un poco più attento, poiché l’esser vicino lo concede.
- Orazio.
- Voglio pur vedere che saprà dire.
- Fulgenzio.
- Che sarà questo, Amore? Ohimè, tutto diletto sono, tutto gioia.
- Prudenza.
- Caro signor Fulgenzio, risponda a colei della cui tanto brama udir le voci: già prima d’ora non s’è discoperta di Prudenza amatore, non è così?
- Fulgenzio.
- No, mia signora, poi ch’oggi solo, e in questo punto appunto, cortese commodità dal Cielo mi fu conceduta di richiederla dell’amor suo.
- Prudenza.
- Pur sa ch’io risposi di non poterla amare.
- Fulgenzio.
- È verissimo, negar no’l posso.
- Orazio.
- O me contento, errava, errava Amore.
- Prudenza.
- Or si consoli, ché tanto ha potuto il merito suo, ch’io le giuro, per gli strali d’Amore, che solo vostra signorìa io amo.
- Orazio.
- Sì sì, mia vita, purtroppo il so.
- Fulgenzio.
- Ohimè, che ascolto?
- Prudenza.
- Sì, mio cuore, sì, mia anima, che Prudenza, con matura prudenza, elesse ella sola d’amare.
- Fulgenzio.
- Ohimè, che dalla dolcezza mi liquefaccio.
- Orazio.
- O balordo, o cieco.
- Prudenza.
- Signor Fulgenzio, perché più caro le sia l’amor mio, e la sua Prudenza, sappia che pur io sono amata.
- Orazio.
- Ben lo so. Ecco il tuo amatore.
- Fulgenzio.
- Da altri che da me ell’è amata? Se non è Giove per novella Leda, se non è Pluto per più bella Proserpina, se non è Nettuno per più vezzosa Teti, egli è morto.
- Prudenza.
- Giove non è, non è Pluto, non il Nettuno, poiché di questi così grandi amori meritevole non sono, ma un certo ganimeduccio spelatello, ch’io odio come odia ogni reo la morte. È appunto grande come vostra signorìa, ma non ha poi la grazia sua. Ha due occhi, come i vivaci occhi suoi, ma non sono poi così risplendenti e predatori come quelli, ch’io abbagliandomi vagheggio, fatta aquila amorosa. Ha una barbettina del color della sua, ma non è poi così beneaffettata, contesta e arricciata. Insomma, somiglia tutto il mio signore, eccetto che l’uno è tutto grazia e l’altro tutto disgrazia.
- Orazio.
- O buono, o buono.
- Fulgenzio.
- Gentilissima signora, s’è vero che nulla ad umile intercessore si nieghi, supplicola, mia speme, a far sì che come costui con la solita arditezza sua le comparisce avanti, che da lei ancora sia discacciato con quelle parole, ch’ad un par suo più si convengono.
- Prudenza.
- S’io lo farò, altro appunto questo cuore non bramava, e per ora poi che intendo che tale è la sua brama ancora, altro non desidero se non di vederlo. Oh perché non è alla presenza mia e vostra signorìa in un cantoncino? perché non lo veggh’io? o come bene lo vorrei trattare! Oda, in grazia, come dir m’agradirebbe.
- Orazio.
- Ben ascolto.
- Fulgenzio.
- Per udirla già sono fatto l’attenzione istessa.
- Prudenza.
- Così parlar seco vorrei. Gentil uomo selvatico, tanto per l’appunto è meritevole del nome d’amante, quanto di gentil uomo, poiché nell’uno ell’è materia solo da essere odiato da tutte le donne, nell’altro suggetto da esser lapidato da tutti i gentiluomini. Or non vede come quegli abiti tanto gli piangono intorno, quanto un’aera rusticità nel volto gli ride? Deponeteli in grazia e ad una tanta disgrazia s’aggiunghi la zappa e non più tra cavalieri per le piazze spaciando si veda, ma fra i campi con istormo di villani zappando si sudi.
- Orazio.
- Buono, per mia fé.
- Fulgenzio.
- O come dice bene.
- Prudenza.
- Soggiungerò poi: levatevi di qui furfantone affamato, ché ben so che fate l’amore solo con la mia dote, poi che con quella vi vorreste spoverire e disfamare.
- Fulgenzio.
- Signora, ella non può dir meglio.
- Orazio.
- E di che sorte.
- Prudenza.
- Or che dice, non l’ho al presente così consolata, come poco fa io l’aveva sconsolata? Avverta, che non voglio che me lo dica con un sì solo, ma con un gesto affettuosissimo e amoroso.
- Fulgenzio.
- Così vuole? Eccolo.
- Prudenza.
- Un altro maggiore.
- Fulgenzio.
- Eccone uno maggiore.
- Orazio.
- E io pure l’immito.
- Prudenza.
- Orsù, più non si parli. Le piace di farmi una grazia? Chini il capo.
- Oh, così bramo. O misero, questo balordo non s’avede che con Orazio parlo e a lui mi godo di far fare il mattacino.
- Vorrei di più, poiché or ora l’ho pensato, che fra due ore ella facesse da me ritorno.
- Fulgenzio.
- Signora io verrò.
- Prudenza.
- Alzi la mano e mostri se vede, stando in istrada, il numero dell’ore che con le dita dalla finestra le addito.
- Orazio.
- Ecco io l’inalzo.
- Fulgenzio.
- Ecco signora due dita, che dico a due ore.
- Prudenza.
- Per mia fé, vostra signorìa l’ha intesa. O caro amante, o accorto signore pigli, per vita sua, per far più dolce questa dipartenza amorosa, questo amoroso bacio, ch’io le getto.
- Orazio.
- Oh com’è dolce.
- Fulgenzio.
- Oh come l’ho caro, io lo ripongo nell’errario del mio cuore.
- Prudenza.
- Pigli quest’altro.
- Orazio.
- L’aspetto.
- Fulgenzio.
- Precipiti or mai da quella bella mano.
- Prudenza.
- Eccolo.
- Orazio.
- O caro bacio.
- Fulgenzio.
- In vero, questo passa bene, ogni bacio, che da bella bocca baciatrice e baciata baciatore fosse. Pigli ancor lei, mia vita, questo, quanto umile, tanto amoroso e alato.
- Orazio.
- Il mio non il suo.
- Prudenza.
- O caro bacio, ti bacio.
- Fulgenzio.
- Questo in vero è bene un segnalato favore. Pigli quest’altro ancora.
- Orazio.
- Questo, questo.
- Prudenza.
- Questo lo ripongo nel seno.
- Fulgenzio.
- O baci fortunati.
- Orazio.
- O balordone.
- Prudenza.
- Cuor mio li fo riverenza.
- Fulgenzio.
- Io lo stesso.
- Orazio.
- Io pure.
- Prudenza.
- Addio mio signore.
- Fulgenzio.
- Addio mia speme.
- Orazio.
- Addio, addio.
- Fulgenzio.
- O Fulgenzio, o Fulgenzio, che allegrezza è questa tua, che fortuna, quale stella benigna al tuo natale si dimostrò tanto lucente? Prudenza è la tua. Pàrtiti, fuggi, vola, e poi ritorna, correndo, volando, alle gioie, a i contenti, poiché tanti te ne dispensa oggi benignissimo Amore; ché in vero chi è talpa al suo bene, non si dee poi dolere s’alcuna volta divien Argo al suo male. Amor, tu movi il piede, tu meco sempre alle gioie assisti.
- Orazio.
- Vattene pure, tanto Argo senz’occhi, quanto talpa priva di luce. Fuggi, vola, che ben da te fugge ancora ogni gioia, ogni contento, ch’è a te vicino. Or credi sagacissima amante, prudentissima Prudenza, che imprudentissimo giovinaccio così bene ha burlato. Ben so che Orazio solo è quegli, ch’è prudentemente da Prudenza amato; ad Orazio è serbato ogni gusto, ogni piacere, che benigno Amore, nel regno suo, dispensi a fortunato amante. Ohimè che quasi, dalla dolcezza, pare ch’io stesso in me medesmo capir non possa! Tu parti omai, tu consumate le due ore ritorna. E per ubidir poscia a colei, alla quale dolce sarebbe l’ubidir gl’istessi dei, l’ali t’impenna a gli omeri, a i piedi. Oh che solazzo è stato il mio, dolce in ramemorare sì, ma via più dolce a cari amici in palesare.