Lo schiavetto/Atto primo/Scena III

Atto primo - Scena III

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Fulgenzio, Prudenza

Fulgenzio.
Come provo che ’l fuoco amoroso arde, e non consuma, poiché se consumasse, Fulgenzio, ch’è, omai stato tanto tempo materia a questo fuoco, sarebbe arso e incenerito. Ma che? O stolto, dovrai tu sempre in questo fuoco ardere senza procurar modo (se non di spegnerlo, ché questo non brami) almeno di temperare l’ardor suo, ch’è così grande? Pur sai che chiuso fuoco è più ardente; per farlo adunque meno cocente, aprigli il varco con le parole, fa’ che essali omai fuori dal seno. Voglio farlo per certo, poiché Amore molto mi promette in questo giorno, e ben ch’io non parlasse giamai alla signora Prudenza di questo amore, se non con gesti, e saluti, voglio nondimeno oggi tanto avanzarmi, che le ne mostri maggior certezza. O dalla casa?
Prudenza.
Che mi commanda vostra signorìa, mio signor? che vuole, che ha battuto a questa casa?
Fulgenzio.
O Fulgenzio, o Fulgenzio, chiedi, che indugi? Molto ottiene chi presto chiede, non temere! Mia signora, avendo io da cento lingue, e cento, inteso che le piaghe amorose sono di così fatta natura, che alcuno sanar non le può, se non colui che fu cagion di quelle, a voi, sagittaria infallibile, se ne viene questo misero amante saettato, piagato da gli sguardi suoi, anzi da i suoi animati strali, per ottenere da quelli oportuna medicina.
Prudenza.
Oh, oh? Questa è buona da intendere. Signore, se io con uno sguardo v’ho ferito, e or con uno sguardo vi risano; però vi lascio. Ma per l’avenire guardatevi da gli sguardi miei saettatori.
Fulgenzio.
Deh, per grazia, se ha la beltà nel volto, Diana nel petto, Minerva nella lingua, abbia la gentilezza nel cuore ancora. Fermisi alquanto, e m’ascolti. Ohimè, sarà aspide a così care preghiere? Oda, in grazia: ella stima d’avermi sanato, e più profonda hammi fatta nel cuore la piaga.
Prudenza.
Mi si conceda, adunque, ch’io vada a studiare alquanto, per renderla sana, ond’io micidiale non abbia da esser da tutti reputata.
Fulgenzio.
Eh non parta, mia vita, se di levarmi la vita forse non è vogliosa! Sappia che due parolette sole sole, ben che morto, mi potrebbero fare alzar la fronte dal sepolcro.
Prudenza.
Signore, ben ch’io sia poco pratica in amore, nondimeno il mondo non è così fanciullo, né io così semplice, che non intenda e conosca chiaramente l’amorosa passione, che nel tacer della lingua efficacemente per gli occhi ragiona. Con tutto ciò, avend’io assai ben appreso, con l’esempio di molti infelici donne, quanto sia cosa misera il sottoporsi all’amoroso imperio, ho fatto ferma resoluzione di non voler di modo alcuno ricevere nel seno mio le sue fiamme; assicurandolo però che, quando altrimente fosse, io mi terrei fortunata d’aver il signor Fulgenzio per amante, poiché, e per costumi e per virtù e per costanza, lo reputai sempre degno d’esser da qualunque donna riamato. Né, di grazia, mi vada ponendo in dubio s’io fo bene, o no, a fuggire questo amore, poiché la cosa anderebbe in infinito, e a me non è lecito di stare tanto affacciata alla finestra, né tampoco lo star con uomini in simili ragionamenti.
Fulgenzio.
Certo, signora, ch’io armava la lingua di mille pungentissime ragioni per diffender la causa mia, e farle conoscere come sia disdicevole ad anima gentile lo sdegnare l’amoroso giogo. Ma perché ella assolutamente in questo mi impone silenzio, tacerò, dicendo solo che per l’avenire penerò contento, benedicendo le lagrime, i sospiri, che per lei io spargo; poiché, benché ora amando non venga ad essere amato, vivo sicuro, almeno, che questo non mi accade per merito d’altro più fortunato rivale, ma per solo compiacimento della mia bella Prudenza, la quale forse ancor pentita un giorno e desiderosa d’abbandonar le selvatichezze di Diana, per seguir le dolcezze di Venere, anteponendomi a tutti gli altri, mi potrà fare per sempre felice.