Lirici marinisti/IV/D'incerto 3
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D’INCERTO
LA MOSCA NEL CALAMAIO
Bevi, augello infernal, pugliese mostro,
sanguisuga volante, alata strega;
bevi a schiattabudella e vatti annega,
sporca arpia della terra, in mar d’inchiostro.
Tanto sangue m’hai tratto, orca vorace,
che come Erisitton vuote ho le vene;
né di tua crudeltá presi le pene,
ché quant’empia e crudel fosti fugace.
Senza pace né tregua, atra Medusa,
di te stessa facendo arco e saetta,
cavallo e cavalier, tromba e trombetta,
bersagliasti il mio muso e la mia musa.
Gittar la penna e rinegar Parnaso,
percoter l’aria e schiaffeggiar me stesso,
quante fiate m’hai fatto? e come spesso
mi fe’ una mosca andar la mosca al naso?
Anzi, mosca non sei; ma il fiero assilo,
che Giunon mandò dietro alla baldracca
dal tonante rival cangiata in vacca
ch’andò per rabbia a pascolar nel Nilo.
S’io scrivo, in su la man scendi boccone;
se difendo la man, l’occhio è assaltato:
così gli occhi ho trafitti e ’l naso enfiato,
ch’io simiglio ad Omero ed a Nasone.
Trarmi il sangue e gli spirti, questo è un nulla;
ma sorbirlo e cacarlo per dispetto,
e sporcarmi la carta e ’l mio concetto,
son pur cose da Gheto e Cacafulla.
Ma quel dio che protegge in Elicone
l’onor delle sue muse e de’ poeti,
con degna punigion t’ha posta in geti,
e un corno per tuo scorno è tua prigione.
Nel sacro inchiostro, onde l’ingegno ameno
riga gli orti di Pindo, intirizzita,
hai lasciato lo stral, l’ali e la vita,
e il latte delle muse è il tuo veleno.
Or voi con labra di tenaglie armate,
correte a questa preda, o formicioni;
pulci, vespe, tafani e farfalloni,
a stuzzicar poeti oggi imparate!