Libro de' Vizî e delle virtudi/Capitolo IV

Le cagioni perché 'l fattore dell'opera era infermato.

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Le cagioni perché 'l fattore dell'opera era infermato.
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Poscia che per via di ragionamenti la Filosofia mi tolse a guerire, cominciaro i nostri ragionamenti in questo modo: - Io t’adomando - disse la Filosofia -, con ciò sia cosa che ’l medico non possa lo ’nfermo ben curare se prima non conosce la cagione del suo male, che mi mostri e apri la cagione della tua malatia -. A questo domandamento, suspirando imprima duramente, dissi: - Maestra de le Virtudi, a volere cotesto di mia bocca sapere, non è altro che voler or qui rinovare le mie pene. Chi sarà quelli di sí duro cuore che udendo lo mio dire non si muova a pietade e dirottamente non pianga? Ma dirolloti, avegna che mal volentieri, sol per la volontade ch’i’ ho di guerire. - Tu sai, Madre delle Virtudi, come la potente Natura dallo ’ncominciamento della mia nativitade mi fece compiutamente con tutte le membra, e come a ciascun membro diede compiutamente la virtú dell’oficio suo, secondo ch’è usata - di fare cui ella vuole perfettamente naturare. Veracemente posso dire che m’avea perfettamente ornato di suoi ornamenti, ché ’l capo m’avea ornato di quattro sensi principali, cioè di vedere e d’udire e d’odorare e di saporare; e a ciascun membro avea dato compiutamente la sua virtute. E sai bene come la vaga Ventura m’avea allargata la mano sua, e arricchito di doni suoi desiderati e goliati1, cioè di gentilezza e ricchezza, amistadi, onori, di cittadinanza ed essere bene nutricato e costumato; e sai ben che con questi doni della Ventura era morbidamente cresciuto e allevato. - Oimè misero, essendo da la Natura cosí ornato, e dalla Ventura cosí avanzato e fornito, e dilettandomi e gloriandomi ne’ detti benifici, non so la cagione, Dio contra me suscitò l’ira sua, e subitamente mi tolse uno de’ maggiori benifici che la Natura m’avea dato. E avegna che nol mi togliesse al postutto, sí ’l mi tolse in tal modo, che mi rendé inutili tutte le mie operazioni, laonde io era al mondo buono e caro tenuto. Da ind’innanzi m’abandonâr l’amistadi e li onori e’ guadagni e tutti li altri beni della Ventura, e sopravennermi tante e sí diverse tribulazioní, che no le potrei co la lingua contare, e son caduto in molte miserie. - Solo un dono della Ventura m’è rimaso, cioè la cittadinanza, esser conosciuto da le genti; e questo è solamente per mio danno, ché sono piú beffato e schernito, e sono quasi com’una favola tra loro, laonde si raddóppiaro2 in molti modi le mie pene. Per le qua’ cose ch’io t’ho dette di sopra, sono sí malamente sbigottito e ismagato3 che non mi giova di manicare né di bere né di dormire né di posare; ma penso e piango e lamentomi die e notte, ed èmmi in noia la vita, e prego la Morte che vegna tostamente, che mi tragga di questi gravi tormenti; ed ella è sí dura e crudele che non mi degna d’udire, anzi si fugge e dilunga da me, e pare che m’alunghi la vita. E dommene gran maraviglia, perché, essendo in qua dietro in buono stato, poco meno che in una trista ora la vita mia non terminò.

Note

  1. goliati: sinonimo di desiderati, parola abbastanza comune nei rimatori del Due-Trecento.
  2. raddoppiano: raddoppiano: tipica desinenza fiorentina alla terza persona plurale dei presenti indicativo e congiuntivo.
  3. ismagato: smarrimento d’animo