Lettera 53

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A Bellosguardo

San Matteo, giorno dei morti 1630 [2 novembre]

Amatissimo Signor Padre.

So che V. S. sa meglio di me che le tribolazioni sono la pietra del paragone ove si fa prova della finezza dell’amor di Dio. Sì che, tanto quanto le piglieremo pazientemente dalla sua mano, tanto potremo prometterci di posseder questo tesoro ove consiste ogni nostro bene.

La prego a non pigliar il coltello di questi disturbi e contrarietà per il taglio, acciò da quello non resti offesa; ma piuttosto prendendolo a dritto, se ne serva per tagliare con quello tutte le imperfezioni che per avventura conoscerà in sé stessa, acciò levati gl’impedimenti, siccome con vista di Linceo ha penetrati i cieli; così, penetrando anco le cose più basse arrivi a conoscere la vanità e fallacia di tutte queste cose terrene: vedendo e toccando con mano che né amor di figlio, né piaceri, onori o ricchezze ci possono dar vera contentezza, essendo cose per sé stesse troppo istabili; ma che solo in Dio benedetto, come in ultimo nostro fine, possiamo trovar vera quiete. Oh che gaudio sarà il nostro, quando, squarciato questo fragil velo che ne impedisce, a faccia a faccia godremo questo gran Dio? Affatichiamoci pure questi pochi giorni di vita che ci restano, per guadagnare un bene così grande e perpetuo. Ove parmi, carissimo signor Padre, che V. S. s’incammini per diritta strada, mentre si vale delle occasioni che se gli porgono, e particolarmente nel far di continuo benefizi a persone che la ricompensano d’ingratitudine, azione che veramente che, quanto ha più del difficile tanto è più perfetta e virtuosa: anzi che questa più che altra virtù mi par che ci renda simili all’istesso Dio, poiché in noi stessi esperimentiamo, che, mentre tutto il giorno offendiamo Sua Divina Maestà, egli all’incontro va pur facendone infiniti benefizi: e se pur talvolta ci gastiga, fa questo per maggior nostro bene, a guisa di buon padre che per correggere il figlio prende la sferza. Siccome par che segua di presente nella nostra povera città, acciocché almeno, mediante il timore del soprastante pericolo, ci emendiamo.

Non so se V. S. avrà intesa la morte di Matteo Ninci fratello della nostra Suor Maria Teodora, il quale, per quanto ne scrive messer Alessandro suo fratello, non ha avuto male più che 3 o 4 giorni, e ha fatto questo passaggio molto in grazia di Dio, per quanto si è potuto comprendere. Gli altri credo che siano sani, ma ben assai travagliati per aver fatta la lor casa una gran perdita. Credo che V. S. ne sentirà disgusto, come lo sentiamo noi, perché era veramente giovane di grandissimo garbo e molto amorevole.

Ma non voglio però darle solamente le nuove cattive, ma dirle anco che la lettera ch’io scrissi per parte di Madonna a Monsignor Arcivescovo, fu da lui molto gradita, e se n’ebbe cortese risposta con offerta d’ogni suo favore e aiuto.

Similmente due suppliche che feci la settimana passata per la Serenissima e per Madama [la vedova Granduchessa madre] hanno avuto buon esito, poiché da Madama avemmo la mattina d’Ognissanti elemosina di 300 pani, e ordine di mandar a pigliar un moggio di grano, con il quale s’è alleggerito l’affanno di Madonna, perché non aveva da seminare.

V. S. mi perdoni se troppo l’infastidisco con tanto cicalare perché, oltre ch’Ella m’inanimisce col darmi indizio che gli siano grate le mie lettere, io fo conto ch’ella sia il mio Devoto (per parlare alla nostra usanza) con il quale io comunico tutti i miei pensieri, e partecipo de’ miei gusti e disgusti; e, trovandolo sempre prontissimo a sovvenirmi gli domando, non tutti i miei bisogni, perché sariano troppi, ma sì bene il più necessario di presente: perché, venendo il freddo, mi converrà intirizzirmi, s’egli non mi soccorre mandandomi un coltrone per tener addosso, poiché quello ch’io tengo non è mio, e la persona se ne vuol servire com’è dovere. Quello che avemmo da V. S. insieme con il panno, lo lascio a Suor Arcangela, la quale vuole star sola a dormire, e io l’ho caro. Ma resto con una sargia sola, e se aspetto di guadagnar da comprarlo, non l’avrò né manco quest’altro inverno: sì che io lo domando in carità a questo mio Devoto tanto affezionato, il quale so ben io che non potrà comportare ch’io patisca: e piaccia al Signore (s’è per il meglio) di conservarmelo ancora lungo tempo, perché, dopo di lui, non mi resta bene alcuno nel mondo. Ma è pur gran cosa ch’io non sia buona per rendergli il contraccambio in cosa alcuna! Procurerò almeno, anzi al più, d’importunar tanto Dio benedetto e la Madonna Santissima ch’egli si conduca al Paradiso; e questa sarà la maggior ricompensa ch’io possa darle per tutti i beni che mi ha fatti e fa continuamente.

Gli mando due vasetti di lattovaro preservativo dalla peste. Quello che non v’è scritto sopra, è composto con fichi secchi, noci, ruta e sale, unito il tutto con tanto mele che basti. Se ne piglia la mattina a digiuno quanto una noce, con bervi dietro un poco di greco o vino buono, e dicono ch’è esperimentato per difensivo mirabile. È ben vero che ci è riuscito troppo cotto, perché non avvertimmo alla condizione dei fichi secchi, ch’è d’assodare. Anco di quell’altro se ne piglia un boccone nell’istessa maniera, ma è un poco più ostico. Se vorrà usare o dell’uno o dell’altro, procureremo di farlo con più perfezione. V. S. mi dice nella sua lettera di mandarmi l’occhiale; m’immagino che di poi se lo scordassi, e perciò gliene ricordo, insieme con il canestro nel quale mandai le cotogne, acciò possa mandargliene dell’altre, facendo pur diligenza di trovarne. Con che, per fine, me li raccomando con tutto il cuore insieme con le solite.

sua figliuola Affezionatissima

S. M. Celeste.