Lettere al padre/1630/51
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A Bellosguardo
San Matteo, 18 ottobre 1630
Amatissimo Signor Padre.
Sto con l’animo assai travagliato e sospeso, imaginandomi che V. S. si ritrovi molto disturbata mediante la repentina morte del suo povero lavoratore. Suppongo ch’Ella procurerà con ogni diligenza possibile di guardarsi dal pericolo, del che la prego caldamente; e anco credo che non gli manchino i rimedi e difensivi proporzionati alla presente necessità, onde non replicherò altro intorno a questo. Ma ben con ogni debita riverenza e confidenza filiale l’esorterò a procurar l’ottimo rimedio, qual è la grazia di Dio benedetto, col mezzo d’una vera contrizione e penitenza. Questa, senza dubbio, è la più efficace medicina, non solo per l’anima, ma per il corpo ancora: poiché, s’è tanto necessario per ovviare al male contagioso lo stare allegramente, qual maggiore allegrezza può provarsi in questa vita di quella che ci apporta una buona e serena coscienza?
Certo che quando possederemo questo tesoro non temeremo né pericoli né morte; e poiché il Signore giustamente ne gastiga con questi flagelli, cerchiamo noi, con l’aiuto suo, di star preparati per ricevere il colpo da quella potente mano, la quale avendoci cortesemente donato la presente vita, è padrona di privarcene come e quando gli piace.
Accetti V. S. queste poche parole proferite con uno svisceratissimo affetto, e anco resti consapevole della disposizione nella quale, per grazia del Signore, io mi ritrovo, cioè desiderosa di passarmene all’altra vita, poiché ogni giorno veggo più chiaro la vanità e miseria della presente: oltre che finirei d’offendere Iddio benedetto, e spererei di poter con più efficacia pregare per V. S. Non so se questo mio desiderio sia troppo interessato. Il Signore che vede il tutto, supplisca per sua misericordia ov’io manco per ignoranza, e a V. S. doni vera consolazione.
Noi qua siamo tutte sane del corpo, eccetto Suor Violante, la quale va a poco a poco consumandosi: ma ben siamo travagliate dalla penuria e povertà, non in maniera però che ne patiamo detrimento del corpo, con l’aiuto del Signore.
Avrei caro d’intendere se V. S. ha mai avuta risposta alcuna di Roma, circa la elemosina per noi domandata.
Il signor Corso mandò il peso di seta di libbre 15, del quale Suor Arcangela ed io aviamo avuta la nostra parte.
Scrivo a ore 7: imperò V. S. mi scuserà se farò degli errori, perché il giorno non ho un’ora di tempo che sia mia, poiché alle altre mie occupazioni s’aggiunge l’insegnare il canto fermo a quattro giovinette, e per ordine di Madonna ordinare l’offìzio del coro giorno per giorno: il che non m’è di poca fatica, per non aver cognizione alcuna della lingua latina. È ben vero che questi esercizi mi sono di molto gusto, se io non avessi anco necessità di lavorare; ma di tutto questo ne cavo un bene non piccolo, cioè il non stare in ozio un quarto d’ora mai mai. Eccetto che mi è necessario il dormire assai per causa della testa. Se V. S. m’insegnasse il segreto ch’usa per sé, che dorme così poco, l’avrei molto caro, perché finalmente sette ore di sonno ch’io mando a male, mi par pur troppo.
Non dico altro per non tediarla, se non che la saluto affettuosamente insieme con le solite amiche.
P.S. Il panierino che io gli mandai ultimamente con alcune paste non è mio, e perciò desidero che me lo rimandi.
sua figliuola Affezionatissima
S. M. Celeste.
Il paniero, che io gli mandai ultimamente con alcune paste, non è mio, e perciò desidero che me lo rimandi.