Lettere (Sarpi)/Vol. II/131
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CXXXI. — A Giacomo Leschassier.1
Le sono moltissimo obbligato per avermi trasmesso il processo verbale circa alla causa del prete costì ucciso. Su quel che la S.V. mi scrisse intorno alla degradazione, già feci in altre mie ringraziamenti, se non pari al merito, almeno per quanto seppi fare.
Fino a qui non andò perduta alcuna lettera sua, e l’ebbi tutte; ma Ella non può essere avvisata così per fretta del loro ricevimento. Io riscrivo sempre per lo stesso corriere, qualunque siasi l’angustia di tempo in cui versi; ma il corriere che di costà viene, non giunge qua che dopo 18 giorni, e però non può far ritorno in coteste parti, che nello spazio di 42 giorni. M’accorgo che Ella ha sempre avuto in tempo le lettere mie: io, peraltro, ho ricevuto talora le sue 30 giorni dopo. Questo dico per ispiegare la cagion del ritardo in alcune mie responsive. Le scriverò, giusta la commissione, valendomi del signor Castrino.
Il corriere precedente recommi le osservazioni che la S.V. ha tratto dal Rebouff2 sulle riserve; e per lo stesso feci risposta. Dal punto delle riserve dipende la salvezza di questa Repubblica. Ella sa quanto sia difficile a guarire un morbo che non è sentito dall’ammalato, e si scambia anzi dallo stesso per buona salute: i rimedii anche più necessari e salutiferi si hanno a schifo. In prima, bisogna studiarsi di fargli conoscere il male; e in ciò io mi affatico, dimostrando quanto sia grave danno lo avere nelle proprie città e terre, numerose e ricche persone che si professano obbligate di ogni lor bene a straniero imperante, che, senza crescere materialmente i confini, può della sua gran potenza farsi così una leva alla signoria universale. Quanto poi al vederci un modo d’uscita, parlerò franco colla S.V. Se durerà in Italia questa pace, o più veramente codardia di schiavi, non ci spero; se poi ci sveglierà la guerra, allora sì. Dunque sta a voi. Io prego Dio che voglia far nascere quel che è per tornare in sua maggior gloria. Ma da parte sì gravi cose, e veniamo alle generali.
Sa che, or fanno due anni e più, fu dagli Olandesi scoperto un istrumento, pel quale si vedono cose lontane, che altrimenti o non apparirebbero o solo con oscurezza. Di questo trovato un nostro matematico di Padova e altri Italiani intendenti della materia principiarono a valersi per l’astronomia, e dalla esperienza avvalorati, lo ridussero più adatto e perfezionato.3 Tale istrumento è composto, come Ella sa, di due lenti (costà le chiamano lunette), sferiche ambedue, ma l’una di superficie convessa e concava l’altra. La prima ha una sfera con diametro di 6 piedi; la seconda una sfera con diametro di larghezza inferiore a un dito. Di queste componesi un istrumento di circa 4 piedi di lunghezza, pel quale vedesi tanta parte dell’oggetto, che se si riguardasse ad occhio naturale, perverrebbe a 6 minuti. Applicato poi lo strumento, vedesi sotto l’angolo maggiore di tre gradi. Queste cose sonosi osservate in Toscana nella stella di Giove, nelle costellazioni delle Fisse; e V.S. le leggerà nell’opuscolo che a nome mio le offrirà il signor Legato, con parecchie altre stupende cose, su cui farò parola altra volta. Non si maravigli a vedere le stelle girare attorno Giove in così breve intervallo, perocchè fissando gli occhi in Giove, la distanza della luna dalla terra non passa minuti primi 31, e lo stesso corpo della luna non apparisce maggiore di minuti secondi 17. Tanto partecipi, se le piace, al signor Aleaume, che forse n’avrà piacere. La prego di continuare ad amarmi, e a tenermi a Lei obbligato per molte ragioni. E stia sana.
- Venezia, 16 marzo 1610.
Note
- ↑ Edita, in latino, tra le Opere ec., pag. 75.
- ↑ Giureconsulto francese, autore di un’opera intitolata: Praxis beneficiorum, e d’altre; morto in Parigi nel 1557.
- ↑ Vedasi il tom. I, pag. 181 e 279. Dalle parole del Sarpi può argomentarsi, come gli studi e gli esperimenti dei nostri su tal materia, in poco più di sei mesi avessero progredito.