Lettere (Machiavelli)/Lettera XXIV a Francesco Vettori
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Francisco Victorio oratori.
Havea tentato il giovinetto Arciere
già molte volte vulnerarmi il petto
con le saette sue, ché del dispetto
et del danno d'altrui prende piacere;
et benché fosson quelle acute et fiere,
ch'uno adamante non hare' lor retto,
non di manco trovâr sì forte obbiecto,
che stimò poco tutto il lor potere.
Onde che quel di sdegno et furor carco,
per dimostrar(e) la sua alta excellenza,
mutò pharetra, mutò strale, et arco;
et trassene uno con tanta violenza,
ch'anchor(a) delle ferite mi rammarco,
et confesso et conosco sua potenza.
Io non saprei rispondere all'ultima vostra lettera della foia con altre parole che mi paressino più a proposito, che con questo sonetto, per il quale vedrete quanta industria habbia usato quello ladroncello dello Amore per incatenarmi. Et sono, quelle che mi ha messo, sì forte catene, che io sono al tutto disperato della libertà né posso pensare via come io habbia a scatenarmi; et quando pure la sorte o altro aggiramento humano mi aprisse qualche cammino ad uscirmene, et per avventura non vorrei entrarvi, tanto mi paiono hor dolci, hor leggieri, hor gravi quelle catene, et fanno un mescolo di sorte, che io giudico non potere vivere contento senza quella qualità di vita. Et perché io so quanto tali pensieri vi dilettino et conoscere simili ordini di vita, io mi dolgo che voi non siate presente per ridere, hora de' mia pianti, hora delle mia risa; et tutto quello piacere che haresti voi, se ne porta Donato nostro, il quale insieme con la amica, della quale altra volta vi ragionai, sono unici miei porti et miei refugii ad il mio legno già rimaso per la continova tempesta senza timone et senza vele. Et manco di dua sere sono mi avvenne che io potevo dire, come Phebo a Dafne:
Nimfa, precor, Petreia, mane: non insequor hostis,
nimfa, mane; sic agna lupum, sic cerva leonem,
sic aquilam fugiunt penna trepidante columbe,
hostes queque suos.
Et quemadmodum Phebo hec carmina parum profuere, sic michi eadem verba apud fugientem nichil momenti, nulliusque valoris fuerunt. Chi vedesse le nostre lettere, honorando compare, et vedesse le diversità di quelle, si maraviglierebbe assai, perché gli parrebbe hora che noi fussimo huomini gravi, tutti vòlti a cose grandi, et che ne' petti nostri non potesse cascare alcuno pensiere che non havesse in sé honestà et grandezza. Però dipoi, voltando carta, gli parrebbe quelli noi medesimi essere leggieri, inconstanti, lascivi, vòlti a cose vane. Questo modo di proccedere, se a qualcuno pare sia vituperoso, a me pare laudabile, perché noi imitiamo la natura, che è varia; et chi imita quella non può essere ripreso. Et benché questa varietà noi la solessimo fare in più lettere, io la voglio fare questa volta in una, come vedrete, se leggerete l'altra faccia. Spurgatevi.
Pagolo vostro è suto qui con il Magnifico, et intra qualche ragionamento ha havuto meco delle speranze sue, mi ha detto come sua Signoria gli ha promesso farlo governatore di una di quelle terre, delle quali prende hora la signoria. Et havendo io inteso, non da Pagolo, ma da una commune voce, che egli diventa signore di Parma, Piacenza, Modana et Reggio, mi pare che questa signoria fosse bella et forte, et da poterla in ogni evento tenere, quando nel principio la fosse governata bene. Et a volerla governare bene, bisogna intendere bene la qualità del subbiecto. Questi stati nuovi, occupati da un signore nuovo, hanno, volendosi mantenere, infinite difficultà. Et se si truova difficultà in mantenere quelli che sono consueti ad essere tutti un corpo, come, verbigrazia, sarebbe il ducato di Ferrara, assai più difficultà si truova a mantenere quelli che sono di nuovo composti di diverse membra, come sarebbe questo del signore Giuliano, perché una parte di esso è membro di Milano, un'altra di Ferrara. Debbe pertanto chi ne diventa principe pensare di farne un medesimo corpo, et avvezzarli a riconoscere uno il più presto può. Il che si può fare in due modi: o con il fermarvisi personalmente, o con preporvi un suo luogotenente che comandi a tutti, acciò che quelli sudditi, eziam di diverse terre, et distratti in varie oppenioni, comincino a riguardare un solo, et conoscerlo per principe. Et quando sua Signoria, volendo stare per ancora a Roma, vi preponesse uno che conoscesse bene la natura delle cose et le condizioni de' luoghi, farebbe un gran fondamento a questo suo stato nuovo. Ma se e' mette in ogni terra il suo capo, et sua Signoria non vi stia, si starà sempre quello stato disunito, senza sua riputazione, et senza potere portare al principe riverenza o timore. Il duca Valentino, l'opere del quale io imiterei sempre quando io fossi principe nuovo, conosciuta questa necessità, fece messer Rimirro presidente in Romagna; la quale deliberazione fece quelli popoli uniti, timorosi dell'autorità sua, affectionati alla sua potenza, confidenti di quella; et tutto lo amore gli portavono, che era grande, considerata la novità sua, naccque da questa deliberazione. Io credo che questa cosa si potesse facilmente persuadere, perché è vera; et quando e' toccasse a Pagolo vostro, sarebbe questo un grado da farsi conoscere non solo al signore Magnifico, ma a tutta Italia; et con utile et honore di sua Signoria, potrebbe dare riputazione a sé, a voi et alla casa sua. Io ne parlai seco; piaccqueli, et penserà d'aiutarsene. Mi è parso scriverne a voi, acciò sappiate i ragionamenti nostri, et possiate, dove bisognasse, lastricare la via a questa cosa.
Et nel cadere el superbo ghiottone,
e' non dimenticò però Macone.
Donato nostro vi si ricorda.
Addì 31 di Gennaio 1514.