Lettere (Machiavelli)/Lettera XI a Francesco Guicciardini

Lettera a Francesco Guicciardini

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Lettera a Francesco Guicciardini
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A messer Francesco Guicciardini.

Magnifico et honorando messer Francesco. Io ho tanto penato a scrivervi, che la S. V. è prevenuta. La cagione del penar mio è stata perché, parendomi che fosse fatta la pace, io credevo che voi fosse presto di ritorno in Romagna, et riserbavomi a parlarvi a bocca, benché io havessi pieno il capo di ghiribizzi, de' quali ne sfogai, cinque o sei dì sono, parte con Filippo Strozzi; perché, scrivendoli per altro, e' mi venne entrato nel ballo, et disputai tre conclusioni: l'una, che, non obstante l'accordo, il re non sarebbe libero; l'altra, che, se il re fosse libero, osserverebbe lo accordo; la terza, che non lo osserverebbe. Non dissi già quale di queste tre io mi credessi, ma bene conclusi che in qualunque di esse la Italia haveva d'havere guerra, et a questa guerra non detti rimedio alcuno. Hora, veduto per la vostra lettera il desiderio vostro, ragionerò con voi quello che io tacetti con lui, et tanto più volentieri, havendomene voi ricerco.

Se voi mi domandasse di quelle tre cose quella che io credo, io non mi posso spiccare da quella mia fissa oppinione che io ho sempre havuta, che il re non habbia a essere libero, perché ognuno conosce che, quando il re facesse quello che potrebbe fare, e' si taglierebbono tutte le vie allo inperadore di potere andare a quel grado che si ha disegnato. Né ci veggo né cagione né ragione che basti, che lo habbia mosso a lasciarlo; et, secondo me, e' conviene che lo lasci, o perché il suo consiglio sia stato corrotto, di che i Franzesi sono maestri, o perché vedesse questo ri-stringimento certo tra gli Italiani et il regno, né gli paresse havere tempo né modo a poterlo guastare senza la lasciata del re, et che credesse, lasciandolo, che egli havesse ad osservare i capitoli; et il re debbe essere in questa parte stato largo promettitore; et dimostro per ogni verso le cagioni delli odii che gli ha con gli Italiani, et altre ragioni che poteva allegare per assicurarlo della osservanza. Nondimeno tutte le ragioni che si potessino allegare, non guariscono lo imperadore dello sciocco, quando voglia essere savio il re; ma io non credo voglia essere savio. La prima ragione è che sino a qui io ho veduto che tutti i cattivi partiti che piglia lo inperadore non gli nuocono, et tutti i buoni che ha preso il re non gli giovano. Sarà, come è detto, cattivo partito quello dello inperadore lasciare il re, sarà buono quel del re a promettere ogni cosa per essere libero; nondimeno, perché il re l'osserverà, il partito del re diventerà cattivo et quello dello inperadore buono. Le cagioni che lo farà osservare, io lo ho scritto a Filippo; che sono: bisognarli lasciare li figlioli in prigione, quando non osservi; convenirli affaticare il regno, che è affaticato; convenirli affaticare i baroni a mandarli in Italia; bisognarli tornare subito ne' travagli, i quali, per li exempli passati, lo hanno a spaventare. Et perché ha egli a fare queste cose per aiutare la Chiesa et i Vinitiani, che lo hanno aiutato rovinare? Et io vi scrissi, et di nuovo scrivo, che grandi sono gli sdegni che il re debbe havere con gli Spagnuoli, ma che non hanno ad essere molto minori quelli che puote havere con gli Italiani. So bene che ci è dire questo, et direbbesi il vero, che, se per questo odio egli lascia rovinare l'Italia, potrebbe dipoi perdere il suo regno; ma il fatto sta che la intenda egli cosa, perché, libero che sia, e' sarà in mezzo di due difficultà: l'una, di torsi la Borgogna et perdere la Italia, et restare a discretione dello inperatore; et l'altra, per fuggir questo, diventare come parricida et fedifrago, nelle difficultà soprascritte per aiutare huomini infedeli et instabili, che per ogni leggier' cosa, vinto che gli havesse, lo farebbono riperdere. Sì che io mi accosto a questa oppinione, o che il re non sia libero, o che, se sarà libero, egli osserverà; perché lo spaventacchio di perdere il regno, perduta che sia l'Italia, havendo, come voi dite, il cervello franzese, non è per muoverlo in quel modo che muoverebbe un altro. L'altra, che egli non crederrà, che la ne vadia in fumo, et forse crederrà poterla aiutare poi che l'harà purgato qualche suo peccato, et egli non habbia rihauto i figlioli et rinsanguinatosi. Et se tra loro fossono patti di divisione di preda, tanto più il re osserverebbe i patti, ma tanto più lo inperadore sarebbe pazzo a rimettere in Italia chi ne havesse cavato, perché ne cacciassi poi lui. Io vi dico quello che io credo che sia, ma io non vi dico già che per il re e' fosse più savio partito, perché doverrebbe mettere di nuovo a pericolo sé, i figlioli et il regno per abbassare sì odiosa, paurosa et pericolosa potenzia. Et i rimedii che ci sono mi paiono questi: vedere che il re, subito che gli è uscito, habbi appresso uno, che con la autorità et persuasioni sue, et di chi lo manda, gli faccia sdimenticare le cose passate, et pensare alle nuove; mostrigli il concorso della Italia; mostrigli il partito vinto, quando voglia essere quel re libero, che doverrebbe desiderare di essere. Credo che le persuasioni et i prieghi potrieno giovare, ma io credo che molto più gioverebbono i fatti.

Io stimo, che in qualunque modo le cose procedino, che gli habbia ad essere guerra, et presto, in Italia; perciò e' bisogna alli Italiani vedere di havere Francia con loro, et quando non la possino havere, pensare come e' si voglino governare. A me pare che in questo caso ci sieno un de' duoi partiti: o lo starsi a discretione di chi viene, et farseli incontro con danari, et riconperarsi; o si veramente armarsi, et con le armi aiutarsi il meglio che si può. Io per me non credo che il riconperarsi, et ch'e danari bastino, perché se bastassino, io direi: fermiamoci qui, et non pensiamo ad altro; ma e' non basteranno, perché o io sono al tutto cieco, o vi torrà prima i danari et poi la vita, in modo che sarà una spezie di vendetta fare che ci truovi poveri et consumati, quando e' non riuscisse ad altri il difendersi. Pertanto io giudico che non sia da differire lo armarsi, né che sia da aspettare la resolutione di Francia, perché lo inperadore ha le sue teste delle sue genti, halle alle poste, può muovere la guerra a posta sua quando egli vuole; a noi conviene fare una testa, o colorata o aperta, altrimenti noi ci levereno una mattina tutti smarriti. Loderei fare una testa sotto colore. Io dico una cosa che vi parrà pazza; metterò un disegno innanzi che vi parrà o temerario o ridicolo; nondimeno questi tempi richieggono deliberationi audaci, inusitate et strane. Voi sapete et sallo ciascuno che sa ragionare di questo mondo, come i popoli sono varii et sciocchi; nondimeno, così fatti come sono, dicono molte volte che si fa quello che si doverrebbe fare. Pochi dì fa si diceva per Firenze che il signor Giovanni de' Medici rizzava una bandiera di ventura per far guerra dove gli venisse meglio. Questa voce mi destò l'animo a pensare che il popolo dicesse quello che si doverrebbe fare. Ciascuno credo che creda che fra gli Italiani non ci sia capo, a chi li soldati vadino più volentieri dietro, né di chi gli Spagnuoli più dubitino, et stimino più: ciascuno tiene ancora il signor Giovanni audace, inpetuoso, di gran concetti, pigliatore di gran' partiti; puossi adunque, ingrossandolo segretamente, fargli rizzare questa bandiera, mettendoli sotto quanti cavalli et quanti fanti si potesse più. Crederranno gli Spagnuoli questo essere fatto ad arte, et per adventura dubiteranno così del re, come del papa, sendo Giovanni soldato del re; et quando questo si facesse, ben presto farebbe aggirare il cervello agli Spagnuoli, et variare i disegni loro, che hanno pensato forse rovinare la Toscana et la Chiesa senza obstacolo. Potrebbe far mutare oppinione al re, et volgersi a lasciare lo accordo et pigliare la guerra, veggendo di havere a convenire con genti vive, et che, oltre alle persuasioni, gli mostrano i fatti. Et se questo rimedio non ci è, havendo a far guerra, non so qual ci sia; né a me occorre altro; et legatevi al dito questo: che il re se non è mosso con forze, con autorità, et con cose vive, osserverà lo accordo, et lasceravvi nelle péste, perché essendo venuto in Italia più volte, et voi havendoli o fatto contro, o stati a vedere, non vorrà che anco questa volta gli intervenga il medesimo.

La Barbera si truova costì: dove voi gli possiate far piacere, io ve la raccomando, perché la mi dà molto più da pensare che lo inperadore.

Addì 15 di Marzo 1525.

Niccolò Machiavelli