Lettere (Galileo)/XXIII
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(Arcetri, 25 luglio 1634)
Molto Ill.re Sig.re e P.rone Col.mo
Spero che l’intender V. S. i miei passati e presenti travagli insieme col sospetto di altri futuri mi renderanno scusato appresso di lei e degli altri amici e padroni di costà della dilazione nel rispondere alle sue lettere, e appresso di quelli del totale silenzio, mentre da V. S. potranno esser fatti consapevoli della sinistra direzzione che in questi tempi corre per le cose mie.
Nella mia sentenza in Roma restai condennato dal S.to Offizio alle carceri ad arbitrio di S. S.tà; alla quale piacque di assegnarmi per carcere il palazzo e giardino del Granduca alla Trinità de’ Monti; e perchè questo seguì l’anno passato del mese di Giugno e mi fu data intenzione che, passato quello e il seguente mese domandando io grazia della total liberazione, l’avrei impetrata, per non aver (costretto dalla stagione) a dimorarvi tutta la state e anco parte dell’autunno, ottenni una permuta in Siena, dove mi fu assegnata la casa dell’Arcivescovo: e quivi dimorai cinque mesi, dopo i quali mi fu permutata la carcere nel ristretto di questa piccola villetta, lontana un miglio da Firenze, con strettissima proibizione di non calare alla città, né ammetter conversazioni e concorsi di molti amici insieme, né convitargli. Qui mi andavo trattenendo assai quietamente con le visite frequenti di un monasterio prossimo, dove avevo due figliuole monache, da me molto amate e in particolare la maggiore, donna di esquisito ingegno, singolar bontà e a me affezzionatissima. Questa, per radunanza di umori melanconici fatta nella mia assenza, da lei creduta travagliosa, finalmente incorsa in una precipitosa disenteria, in sei giorni si morì essendo di età di trentatré anni, lasciando me in una estrema afflizzione. La quale fu raddoppiata da un altro sinistro incontro; che fu che, ritornandomene io dal convento a casa mia in compagnia del medico, che veniva dalla visita di detta mia figliuola inferma poco prima che spirasse, mi veniva dicendo il caso esser del tutto disperato, e che non avrebbe passato il seguente giorno, sì come seguii quando, arrivato a casa, trovai il Vicario dell’Inquisitore che era venuto a intimarmi d’ordine del S.to Offizio di Roma venuto all’Inquisitore con lettere del S.r Card.le Barberino, ch’io dovessi desistere dal far dimandar più grazia della licenza di poter tornarmene a Firenze, altrimenti che mi arebbono fatto tornar là, alle carceri vere del S.to Offizio. E questa fu la risposta che fu data al memoriale che il S.r Ambasciator di Toscana, dopo nove mesi del mio essilio, aveva presentato al detto Tribunale: dalla qual risposta mi par che assai probabilmente si possa conietturare, la mia presente carcere non esser per terminarsi se non in quella commune, angustissima e diuturna.
Da questo e da altri accidenti, che troppo lungo sarebbe a scrivergli si vede che la rabia de’ miei potentissimi persecutori si va continuamente inasprendo. Li quali finalmente hanno voluto per sé stessi manifestarmisi, atteso che, ritrovandosi uno mio amico caro circa due mesi fa in Roma a ragionamento col P. Cristoforo Grembergero, giesuita, Matematico di quel Collegio, venuti sopra i fatti miei, disse il giesuita all’amico queste parole formali: «Se il Galileo si avesse saputo mantenere l’affetto dei Padri di questo Collegio, viverebbe glorioso al mondo e non sarebbe stato nulla delle sue disgrazie, e arebbe potuto scrivere ad arbitrio suo d’ogni materia, dico anco di moti di terra, etc.»: si che V. S. vede che non è questa né quella opinione quello che mi ha fatto e fa la guerra, ma l’essere in disgrazia dei giesuiti.
Della vigilanza dei miei persecutori ho diversi altri rincontri. Tra i quali uno fu, che una lettera scrittami non so da chi da paesi oltramontani e inviatami a Roma, dove quello che scriveva doveva credere che tuttavia dimorassi, fu intercetta e portata al S.r Card.le Barberino; e, per quanto da Roma mi venne poi scritto, fu mia ventura che non era lettera responsiva, ma prima, piena di grandi encomii sopra il mio Dialogo; e fu veduta da più persone, e intendo che ce ne sono copie per Roma e mi è stato dato intenzione che la potrò vedere. Aggiungonsi altre perturbazioni di mente e molte corporali imperfezzioni, le quali, sopra quella dell’età più che settuagenaria, mi tengono oppresso in maniera, che ogni piccola fatica mi è affannosa e grave. Però conviene che per tutti questi rispetti gli amici mi compatischino e perdonino quel mancamento che ha aspetto di negligenza, ma realmente è impotenza; e bisogna che V. S., come mio parziale sopra tutti gl’altri, mi aiuti a mantenermi la grazia dei miei benevoli di costà e, in particolare del S.re Gassendo, tanto da me amato e riverito, col quale potrà V. S. partecipare il contenuto di questa, ricercandomi egli relazione dello stato mio in una sua lettera, piena della solita sua benignità. Mi farà anco grazia farli sapere come ho ricevuta e con particolar gusto letta la Dissertazione del S.re Martino Hortensio; e io, piacendo a Dio ch’io mi sgravi in parte dai miei travagli non mancherò di rispondere alla sua cortese lettera. Con questa riceverà anco V. S. i cristalli per un telescopio, domandatimi dal medesimo S.re Gassendo per suo uso e di altri, desiderosi di fare alcune osservazioni celesti; li quali potrà V. S. inviargli significandoli che il cannone, cioè la distanza tra vetro e vetro, deve essere quanto è lo spago che intorno ad essi è avvolto, poco più o meno secondo la qualità della vista di chi se ne deve servire.
Berigardo e Chiaramonte, amendue lettori in Pisa, mi hanno scritto contro; questo per sua difesa, e quello, per quanto dice, contro a sua voglia, ma per compiacere a persona che lo può favorire nelle sue occorrenze: ma amendue molto languidamente. Ma, quello che è degno di considerazione, alcuni, vedendosi un larghissimo campo di poter senza pericolo prevalersi dell’adulazione per augumento de’ proprii interessi, si son lasciati tirare a scriver cose, che fuori delle presenti occasioni sarebbero facilmente reputate assai esorbitanti se non temerarie. Il Fromondo si ridusse a sommerger fin presso alla bocca la mobilità della Terra nell’eresia. Ma ultimamente un Padre Gesuita ha stampato in Roma che tale opinione è tanto orribile, perniziosa e scandalosa, che, se bene si permette che nelle catedre, nei circoli, nelle pubbliche dispute e nelle stampe si portino argomenti contro ai principalissimi articoli della fede, come contro all’immortalità dell’anima, alla creazione, all’Incarnazione etc., non però si deve permetter che si disputi, né si argomenti contro alla stabilità della Terra; sì che questo solo articolo sopra tutti si ha talmente a tener per sicuro, che in modo alcuno si abbia, né anco per modo di disputa e per sua maggior corroborazione, a instargli contro. Il titolo di questo libro è: Melchioris Inchofer, e Societate Iesu, Tractatus syllepticus. Ècci anco Antonio Rocco, che pur con termine poco civile mi scrive contro in mantenimento della peripatetica dottrina e in risposta alle cose da me impugnate contra Aristotile; il quale da sé stesso si confessa ignudo dell’intelligenza di matematica e astronomia. Questo è cervello stupido e nulla intelligente di quello che io scrivo, ma ben arrogante e temerario al possibile. A tutti questi miei oppositori, che son molti, ho io pensiero di rispondere; ma perché l’esaminare a parte a parte le vanità di tutti sarebbe impresa lunghissima e di poca utilità, penso di fare un libro di postille, come da me notate nelle margini di tali libri intorno alle cose più essenziali e agli errori più maiuscoli, e come raccolte da un altro mandarle fuori.
Ma prima, piacendo a Dio, voglio publicare i libri del moto e altre mie fatiche, cose tutte nuove e da me anteposte alle altre cose mie sin ora mandate in luce.
Riceverà V. S. la presente dal S.r Ruberto Galilei, mio parente e signore, al quale potrà fare parte del contenuto di questa, atteso che a S.S. scrivo bene, ma assai brevemente. Tengo anco lettere del Sig.re de Peiresc, d’Aix, ricevute insieme con quelle del S.re Gassendo; e perché amendue mi domandano i vetri per un telescopio da fare osservazioni celesti, mi faccia grazia significare al S.r Gassendo che dia conto al S.r de Peiresc d’aver avuto i vetri, pregandolo contentarsi che di essi anco il Sig.r de Peiresc possa servirsi facendo di più appresso il detto Signore mie scuse se differisco a rispondere alla sua gratissima, trovandomi pieno di molestie che mi violentano a mancar talvolta a quelli officii che io più desidero di essequire. Sono stracco e averò soverchiamente tediata V. S.: mi perdoni e mi comandi. Gli bacio le mani.
Dalla villa d’Arcetri, li 25 di Luglio 1634.
Di V. S. molto I.
Servitor Devotissimo e Obligatissimo
Galileo Galilei.