XIII - A Monsignor Piero Dini in Roma

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XIII - A Monsignor Piero Dini in Roma
XII XIV

(Firenze, 23 marzo 1615)

Molto Illustre e Reverendissimo Sig. mio Colendissimo,

Risponderò succintamente alla cortesissima lettera di Vostra Signoria molto Illustre e Reverendissima, non mi permettendo il poter far altramente il mio cattivo stato di sanità.

Quanto al primo particolare che ella mi tocca, che al più che potesse esser deliberato circa il libro del Copernico, sarebbe il mettervi qualche postilla, che la sua dottrina fusse introdotta per salvar l’apparenze, nel modo ch’altri introdussero gli eccentrici e gli epicicli senza poi credere che veramente e’ sieno in natura, gli dico (rimettendomi sempre a chi più di me intende, e solo per zelo che ciò che si è per fare sia fatto con ogni maggior cautela) che quanto a salvar l’apparenze il medesimo Copernico aveva già per avanti fatta la fatica, e satisfatto alla parte de gli astrologi secondo la consueta e ricevuta maniera di Tolomeo; ma che poi, vestendosi l’abito di filosofo, e considerando se tal costituzione delle parti dell’universo poteva realmente sussistere in rerum natura, e veduto che no, e parendogli pure che il problema della vera costituzione fusse degno d’esser ricercato, si messe all’investigazione di tal costituzione, conoscendo che se una disposizione di parti finta e non vera poteva satisfar all’apparenze, molto più ciò si arebbe ottenuto dalla vera e reale, e nell’istesso tempo si sarebbe in filosofia guadagnato una cognizione tanto eccellente, qual è il sapere la vera disposizione delle parti del mondo; e trovandosi egli per l’osservazioni e studii di molti anni, copiosissimo di tutti i particolari accidenti osservati nelle stelle, senza i quali tutti diligentissimamente appresi e prontissimamente affissi nella mente è impossibile il venir in notizia di tal mondana constituzione, con replicati studii e lunghissime fatiche conseguì quello che l’ha reso poi ammirando a tutti quelli che con diligenza lo studiano, sì che restino capaci de’ suoi progressi tal che il voler persuadere che il Copernico non stimasse vera la mobilità della Terra, per mio credere non potrebbe trovar assenso se non forse appresso chi non l’avesse letto, essendo tutti 6 i suoi libri pieni di dottrina dependente dalla mobilità della Terra, e quella esplicante e confermante. E se egli nella sua dedicatoria molto ben intende e confessa che la posizione della mobilità della Terra era per farlo reputare stolto appresso l’universale, il giudizio del quale egli dice di non curare, molto più stolto sarebb’egli stato a voler farsi reputar tale per un’opinione da sé introdotta, ma non interamente e veramente creduta.

Quanto poi al dire che gli attori principali che hanno introdotto gli eccentrici e gli epicicli non gli abbino poi reputati veri, questo non crederò io mai; e tanto meno, quanto con necessità assoluta bisogna ammettergli nell’età nostra, mostrandocegli il senso stesso. Perché, non essendo l’epiciclo altro che un cerchio descritto dal moto d’una stella la quale non abbracci con tal suo rivolgimento il globo terrestre, non veggiamo noi di tali cerchi esserne da quattro stelle descritti quattro intorno a Giove? e non gli è più chiaro che ’l Sole, che Venere descrive il suo cerchio intorno ad esso Sole senza comprender la Terra, e per conseguenza forma un epiciclo? e l’istesso accade anco a Mercurio. In oltre, essendo l’eccentrico un cerchio che ben circonda la Terra, ma non la contiene nel suo centro, ma da una banda, non si ha da dubitare se il corso di Marte sia eccentrico alla Terra, vedendosi egli ora più vicino ed ora più remoto, in tanto che ora lo veggiamo piccolissimo ed altra volta di superficie 60 volte maggiore; adunque, qualunque si sia il suo rivolgimento, egli circonda la Terra, e gli è una volta otto volte più presso che un’altra. E di tutte queste cose e d’altre simili in gran numero ce n’hanno data sensata esperienza gli ultimi scoprimenti: tal che il voler ammettere la mobilità della Terra solo con quella concessione e probabilità che si ricevono gli eccentrici; e gli epicicli, è un ammetterla per sicurissima, verissima e irrefragabile.

Ben è vero che di quelli che hanno negato gli eccentrici e gli epicicli io ne trovo 2 classi. Una è di quelli che, sendo del tutto ignudi dell’osservazioni de’ movimenti delle stelle e di quello che bisogni salvare, negano senza fondamento nessuno tutto quello che e’ non intendono: ma questi son degni che di loro non si faccia alcuna considerazione. Altri, molto più ragionevoli, non negheranno i movimenti circolari descritti da i corpi delle stelle intorno ad altri centri che quello della Terra, cosa tanto manifesta, che, all’incontro, è chiaro, nessuno de’ pianeti far il suo rivolgimento concentrico ad essa Terra; ma solo negheranno, ritrovarsi nel corpo celeste una struttura di orbi solidi e tra sé divisi e separati che arrotandosi e fregandosi insieme, portino i corpi de’ pianeti, etc.: e questi crederò io che benissimo discorrino; ma questo non è un levar i movimenti fatti dalle stelle in cerchi eccentrici alla Terra o in epicicli che sono i veri e semplici assunti di Tolomeo e de gli astronomi grandi, ma è un repudiar gli orbi solidi materiali e distinti, introdotti da i fabbricatori di teoriche per agevolar l’intelligenza de i principianti ed i computi de’ calculatori; e questa sola parte è fittizia e non reale, non mancando a Iddio modo di far camminare le stelle per gl’immensi spazii del cielo, ben dentro a limitati e certi sentieri, ma non incatenate o forzate

Però, quanto al Copernico, egli, per mio avviso, non è capace di moderazione, essendo il principalissimo punto di tutta la sua dottrina e l’universal andamento la mobilità della Terra e stabilità del Sole: però, o bisogna dannarlo del tutto o lasciarlo nel suo essere, parlando sempre per quanto comporta la mia capacità. Ma se sopra una tal resoluzione e’ sia bene attentissimamente considerare, ponderare, esaminare, ciò che egli scrive, io mi sono ingegnato di mostrarlo in una mia scrittura, per quanto da Dio benedetto mi è stato conceduto, non avendo mai altra mira che alla dignità di Santa Chiesa e non dirizzando ad altro fine le mie deboli fatiche; il qual purissimo e zelantissimo affetto son ben sicuro che in essa scrittura si scorgerà chiaro, quando per altro ella fusse piena d’errori o di cose di poco momento: e già l’averei inviata a Vostra Signoria Reverendissima, se alle mie tante e sì gravi indisposizioni non si fusse ultimamente aggiunto un assalto di dolori colici che m’ha travagliato assai; ma la manderò quanto prima. Anzi, per il medesimo zelo, vo’ mettendo insieme tutte le ragioni del Copernico, riducendole a chiarezza intelligibile da molti, dove ora sono assai difficili, e più aggiungendovi molte e molte altre considerazioni fondate sempre sopra osservazioni celesti, sopra esperienze sensate e sopra incontri di effetti naturali, per offerirle poi a i piedi del Sommo Pastore ed all’infallibile determinazione di santa Chiesa, che ne faccia quel capitale che parrà alla sua somma prudenza.

Quanto al parere del molto reverendo Padre Grembergero, io veramente lo laudo, e volentieri lascio la fatica delle interpretazioni a quelli che intendono infinitamente più di me. Ma quella breve scrittura che mandai a Vostra Signoria Reverendissima è, come vede, una lettera privata, scritta più d’un anno fa all’amico mio, per esser letta da lui solo; ma avendon’egli, pur senza mia saputa, lasciato prender copia, e sentendo io che l’era venuta nelle mani di quel medesimo che tanto acerbamente m’aveva sin dal pulpito lacerato, e sapendo ch’ei l’aveva portata costà, giudicai ben fatto che ve ne fusse un’altra copia, per poterla in ogni occasione incontrare, e massime avendo quello ed altri suoi aderenti teologi sparso qua voce, come detta mia lettera era piena d’eresie. Non è, dunque, il mio pensiero di metter mano a impresa tanto superiore alle mie forze; e se ben non si deve anco diffidare che la Benignità divina tal volta si degni di inspirare qualche raggio dalla sua immensa sapienza in intelletti umili, e massime quando son almeno adornati di sincero e santo zelo; oltre che, quando si abbino a concordar luoghi sacri con dottrine naturali nuove e non comuni, è necessario aver intera notizia di tali dottrine, non potendo accordar due corde insieme col sentirne una sola. E se io conoscessi di potermi prometter alcuna cosa dalla debolezza del mio ingegno, mi piglierei ardire di dire di ritrovar tra alcuni luoghi delle Sacre Lettere e di questa mondana constituzione alcune convenienze che nella vulgata filosofia non così ben mi pare che consuonino; e l’avermi Vostra Signoria Reverendissima accennato, come il luogo del Salmo 18 è de i reputati più repugnanti a questa opinione, m’ha fatto farci sopra nuova reflessione, la quale mando a Vostra Signoria con tanto minor renitenza, quanto ella mi dice che l’illustrissimo e Reverendissimo Cardinal Bellarmino volentieri vedrà se ho alcun altro di tali luoghi. Però, avendo io satisfatto al semplice cenno di Sua Signoria Illustrissima e Reverendissima, veduta che abbia Sua Signoria Illustrissima questa mia, qualunque ella si sia, contemplazione, ne faccia quel tanto che la sua somma prudenza ordinerà; ché io intendo solamente di riverire e ammirare le cognizioni tanto sublimi, e obbedire a i cenni de’ miei superiori, ed all’arbitrio loro sottoporre ogni mia fatica.

Però, non mi arrogando che, qualunque si sia la verità della supposizione ex parte naturæ, altri non possino apportare molto più congruenti sensi alle parole del Profeta, anzi stimandomi io inferiore a tutti, e però a tutti i sapienti sottoponendomi, direi, parermi che nella natura si ritrovi una substanza spiritosissima, tenuissima e velocissima, la quale, diffondendosi per l’universo, penetra per tutto senza contrasto, riscalda, vivifica e rende feconde tutte le viventi creature; e di questo spirito par che ’l senso stesso ci dimostri il corpo del Sole esserne ricetto principalissimo, dal quale espandendosi un’immensa luce per l’universo, accompagnata da tale spirito calorifico e penetrante per tutti i corpi vegetabili, gli rende vivi e fecondi. Questo ragionevolmente stimar si può essere qualche cosa di più del lume, poi che ei penetra e si diffonde per tutte le sustanze corporee, ben che densissime, per molte delle quali non così penetra essa luce: tal che, sì come dal nostro fuoco veggiamo e sentiamo uscir luce e calore, e questo passar per tutti i corpi, ben che opaci e solidissimi, e quella trovar contrasto dalla solidità e opacità, così l’emanazione del Sole è lucida e calorifica, e la parte calorifica è la più penetrante. Che poi di questo spirito e di questa luce il corpo solare sia, come ho detto, un ricetto e, per così dire, una conserva che ab extra gli riceva, più tosto che un principio e fonte primario dal quale originariamente si derivino, parmi che se n’abbia evidente certezza nelle Sacre Lettere, nelle quali veggiamo, avanti la creazione del Sole, lo spirito con la sua calorifica e feconda virtù «foventem aquas seu incubantem super aquas», per le future generazioni; e parimente aviamo la creazione della luce nel primo giorno, dove che il corpo solare fu creato il giorno quarto. Onde molto verisimilmente possiamo affermare, questo spirito fecondante e questa luce diffusa per tutto il mondo concorrere ad unirsi e fortificarsi in esso corpo solare, per ciò nel centro dell’universo collocato, e quindi poi, fatta più splendida e vigorosa, di nuovo diffondersi.

Di questa luce primogenita e non molto splendida avanti la sua unione e concorso nel corpo solare, ne aviamo attestazione dal Profeta nel Salmo 73, v. 16 «Tuus est dies et tua est nox: Tu fabricatus es auroram et Solem»; il qual luogo vien interpretato, Iddio aver fatto avanti al sole una luce simile a quella dell’aurora: di più, nel testo ebreo in luogo d’«aurora» si legge «lume», per insinuarci quella luce che fu creata molto avanti il Sole, assai più debile della medesima ricevuta, fortificata e di nuovo diffusa da esso corpo solare. A questa sentenza mostra d’alludere l’opinione d’alcuni antichi filosofi, che hanno creduto lo splendor del Sole esser un concorso nel centro del mondo de gli splendori delle stelle, che, standogli intorno sfericamente disposte, vibrano i raggi loro, li quali, concorrendo e intersecandosi in esso centro, accrescono ivi e per mille volte raddoppiano la luce loro; onde ella poi, fortificata, si reflette e si sparge assai più vigorosa e ripiena, dirò così, di maschio e vivace calore, e si diffonde a vivificare tutti i corpi che intorno ad esso centro si raggirano: sì che con certa similitudine, come nel cuore dell’animale si fa una continua rigenerazione di spiriti vitali, che sostengono e vivificano tutte le membra, mentre però viene altresì ad esso cuore altronde somministrato il pabulo e nutrimento, senza il quale ei perirebbe, così nel sole, mentre ab extra concorre il suo pabulo, si conserva quel fonte onde continuamente deriva e si diffonde questo lume e calore prolifico, che dà la vita a tutti i membri che attorno gli riseggono. Ma come che della mirabil forza ed energia di questo spirito e lume del Sole, diffuso per l’universo, io potessi produr molte attestazioni di filosofi e gravi scrittori, voglio che mi basti un solo luogo del Beato Dionisio Aeropagita nel libro De divinis nominibus, il quale è tale: «Lux etiam colligit convertitque ad se omia, quæ videntur, quæ moventur, quæ illustrantur, quæ calescunt, et uno nomine ea quæ ab eius splendore continentur. Itaque Sol Ilios dicitur, quod omnia congreget colligatque dispersa.» E poco più a basso scrive dell’istesso: «Si enim Sol hic, quem videmus, eorum quæ sub sensum cadunt essentias et qualitates, quamquam multæ sint ac dissimiles, tamen ipse, qui unus est æqualibiterque lumen fundit, renovat, alit, tuetur, perficit, dividit, coiniungit, fovet, fœcunda reddit, auget, mutat, firmat, edit, movet, vitaliaque facit omnia, et unaquæque res huius universitatis, pro captu suo, unius atque eiusdem Solis est particeps, causasque multorum, quæ participant, in se æquabiliter anticipatas habet; certe maiore ratione etc.»

Ora, stante questa filosofica posizione, la quale è forse una delle principali porte per cui si entri nella contemplazione della natura, io crederrei, parlando sempre con quella umiltà e reverenza che devo a Santa Chiesa e tutti i suoi dottissimi Padri, da me riveriti e osservati ed al giudizio de’ quali sottopongo me ed ogni mio pensiero, crederrei, dico, che il luogo del Salmo potesse aver questo senso, cioè che «Deus in Sole posuit tabernaculum suum» come in sede nobilissima di tutto ’l mondo sensibile; dove poi si dice che «Ipse, tanquam sponsum procedens de thalamo suo, exultavit ut gigas ad currendam viam», intenderei, ciò esser detto del Sole irradiante, ciò è del lume e del già detto spirito calorifico e fecondante tutte le corporee sustanze, il quale, partendo dal corpo solare, velocissimamente si diffonde per tutto ’l mondo: al qual senso si adattano puntualmente tutte le parole. E prima, nella parola «sponsus» aviamo la virtù fecondante e prolifica; l’«exultare» ci addita quell’emanazione di essi raggi solari fatta, in certo modo, a salti, come ’l senso chiaramente ci mostra; «ut gigas,» o vero «ut fortis», ci denota l’efficacissima attività e virtù di penetrare per tutti i corpi, ed insieme la somma velocità del muoversi per immensi spazii, essendo l’emanazione della luce come instantanea. Confermansi dalle parole «procedens de thalamo suo», che tale emanazione e movimento si deve referire ad esso lume solare, e non all’istesso corpo del Sole; poi che il corpo e globo del Sole è ricetto e «tanquam thalamus» di esso lume, né torna ben a dire che «thalamus procedat de thalamo». Da quello che segue, «a summo cæli egressio eius», aviamo la prima derivazione e partita di questo spirito e lume dall’altissime parti del cielo, ciò è sin dalle stelle del firmamento o anco dalle sedi più sublimi. «Et occorsus eius usque ad summum eius»: ecco la reflessione e, per così dire, la reimanazione dell’istesso lume sino alla medesima sommità del mondo. Segue : «Nec est qui abscondat a calore eius»: eccoci additato il calore vivificante e fecondante, distinto dalla luce e molto più di quella penetrante per tutte le corporali sustanze, ben che densissime; poi che dalla penetrazione della luce molte cose ci difendono e ricuoprono, ma da questa altra virtù, «non est qui se abscondat a calore eius». Né devo tacer cert’altra mia considerazione, non aliena da questo proposito. Io ho già scoperto il concorso continuo di alcune materie tenebrose sopra il corpo solare, dove elleno si mostrano al senso sotto aspetto di macchie oscurissime, ed ivi poi si vanno consumando e risolvendo; ed accennai come queste per avventura si potrebbono stimar parte di quel pabulo, o forse gli escrementi di esso, del quale il Sole da alcuni antichi filosofi fu stimato bisognoso per suo sostentamento. Ho anco dimostrato, per l’osservazioni continuate di tali materie tenebrose, come il corpo solare per necessità si rivolge in sé stesso, e di più accennato quanto sia ragionevol il creder che da tal rivolgimento dependino i movimenti de’ pianeti intorno al medesimo Sole. Di più, noi sappiamo che l’intenzione di questo Salmo è di laudare la legge divina, paragonandola il profeta col corpo celeste, del quale, tra le cose corporali, nissuna è più bella, più utile e più potente. Però, avendo egli cantati gli encomii del Sole e non gli essendo occulto che egli fa raggirarsi intorno tutti i corpi mobili del mondo, passando alle maggiori prerogative della legge divina e volendola anteporre al Sole, aggiunge: «Lex Domini immaculata, convertes animas» etc.; quasi volendo dire che essa legge è tanto più eccellente del Sole istesso, quanto l’esser immaculato ed aver facoltà di convertire intorno a sé le anime è più eccellente condizione che l’essere sparso di macchie, come è il Sole, ed il farsi raggirar attorno i globi corporei e mondani.

So e confesso il mio soverchio ardire nel voler por bocca, essendo imperito nelle Sacre Lettere, in esplicar sensi di sì alta contemplazione: ma come che il sottomettermi io totalmente al giudizio de’ miei superiori può rendermi scusato, così quel che segue del versetto già esplicato, «Testimonium Domini fidele, sapientiam præstans parvulis», m’ha dato speranza, poter esser che la infinita benignità di Dio possa indirizzare verso la purità della mia mente un minimo raggio della sua grazia, per la quale mi si illumini alcuno de’ reconditi sensi delle sue parole. Quanto ho scritto, signor mio, è un piccol parto, bisognoso d’esser ridotto a miglior forma, lambendolo e ripulendolo con affezione e pazienza, essendo solamente abbozzato e di membra capaci sì di figura assai proporzionata, ma per ora incomposte e rozze: se averò possibilità, l’anderò riducendo a miglior simmetria; intanto la prego a non lo lasciar venir in mano di persona che, adoprando, invece della delicatezza della lingua materna, l’asprezza ed acutezza del dente novercale, in luogo di ripulirlo non lo lacerasse e dilaniasse del tutto. Con che le bacio riverentemente le mani, insieme con li Signori Buonarroti, Guiducci, Soldani e Giraldi, qui presenti al serrar della lettera.

Di Firenze, li 23 Marzo 1615

Di V. S. molt’Illustre e Reverendissima

Servitore obligatissimo

Galileo Galilei