Lettere (Filippo Sassetti)/Lettera XVI

Lettera XVI

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XVI.

Al Medesimo.


Molto Magnifico Sig. mio. osservandiss.


Se io avessi avuto bene tra le mani le regole del Galateo, o pure fattone qualche capitale, io lasciava stare il darvi consiglio sopra il mandare, o non mandare danari in India, giacchè voi non me ne chiedevate; ma egli è il diavolo; ciascuno vuol parere aver belle invenzioni alle mani, e va fortificando le sue risoluzioni, quando non si può meglio, a spese degli amici; che faremo? ella sta così, come io vi dico; una parte de’ vostri danari vennero ad andar male, e perdersi (dico per voi, che quanto al caso in se si dice quà, che tutto quello, che portava quella Nave, secondo lui e’ si salvò) una parte ne era tornata addietro, e due parti che fanno quattro, stanno in India indisposte. Oh che buona ventura è, se la Tancina può andare già in busca del marito, giacchè io vi proposi questo avviamento per farle la dota! Io vi mando a’ vostri la copia della Lettera, che mi scrive di Goa Lorenzo Strozzi, dove dà ragione della causa, perchè rimangano indisposti. E quanto a quest’anno sarà stato un apporsi a non comprare niente per mandare a Portogallo, perchè i prezzi d’ogni cosa sono quà maggiori, che non sono in Portogallo; e giacchè egli hanno perduto due anni di tempo, ne perderanno un altro per vedere quello, che e’ sapranno fare alle mie mani, che potrei forse mandarglieli in luogo, che nè voi, nè io avessimo più travaglio; lasciate un poco fare a me, che se voi ve ne lodate a questa volta, io vel perdono. Quanto ad andarvi proponendo qualche altra cosa, io me ne passerò così brevemente, perchè io mi penso, che questa vi basterà, e che voi non vorrete più negozj d’India. Voi sapete, come diceva in Venezia quel facchino in abito di Vescovo: fasì mò vù; questo è quanto a questo capo, del quale mi sono spedito, come disse quel Prete al suo Chierico, che gli rimproverava il non aver saputo leggere un mal passo: non lo fallai io bene? disse’egli. Quanto al resto, noi ci conducemmo poi alla per fine, sebbene in capo di sette mesi, col più travaglioso viaggio, che avesse mai Nave; domandatene la storia nostra, che io mando al Sig. Lorenzo Canigiani; sette mesi in Mare sempre sempre, e non diventar pesce eh? elle son cose salvatiche, e Messer Nicio, per certo non arrivò fin quì, che durava fino adesso a dire: acqua. L’altre quattro Navi della nostra compagnia con miglior discorso del loro Piloto passarono le difficultà più tosto di noi, e facendo il cammino loro tra la costa d’Affrica, e l’Isola di San Lorenzo, furono a Mozambique, dove si riposarono 20. 0 25. giorni, e di quì partite vennero vennero a Goa al tempo consueto, senza avere mai un travaglio, che sia, o ammainar pure un tratto la vela, e giunti quì, ebbono comodità di fare il negozio loro o in tutto, o in parte, conforme alla qualità di ciascuno. Il nostro Piloto, che l’anno passato fu a dare nel Verzino sopra que’ bassi, impaurito a questa volta innanzi, che si mettesse a traversare la Linea, si messe tanto sotto la Costa di Guinea, che calmandosi i venti, vi ci raggirammo la povertà di 46. giorni, e perdendo quì questo tempo, e questa occasione, trovammo tutte le stagioni, e’ venti mutati in modo, che oltre al correre per perduti perdutissimi, quando noi fummo a passare il Capo di Buona Speranza, trovammo poi venti contrarj, che tra in detto luogo, e sotto l’Isola di San Lorenzo, ci trattenemmo più d’altri 45. giorni, ed avendo già scorso tant’oltre col tempo, ci fu forza di andare fuori della detta Isola senza pigliare Terra nessuna, cosa molto travagliosa, e appunto stando di fronte alla metà di essa, demmo sopra una corda di bassi detti i Garagiai, i più pericolosi, e paurosi, che sieno in tutta questa carriera, dove chi tocca non ha nessun genere di rimedio, non vi sendo se non tre, o quattro secche di arenali, dove non è acqua, nè alberi, nè cosa nessuna, e tanto il gran caldo, che l’uova senza esse covate si nascono. Piacque a Dio di tirarcene fuori, e insieme liberarci da altri travagli, perchè montando tutta quella Isola, entrammo in questi Mari d’India, dove non sono burrasche, nè venti fozzosi, nè ci gonfia il Mare, ma sempre ci è tranquillità, e vento piacevole, quanto sia il Mare, che è sempre piano, e tanto giocondo alla vista, che nessuno lo riconoscerebbe da quello di dianzi, e ben se gli poteva dire come quel Bergamasco, che scappato da una grandissima tempesta, in vedendo poi il Mare molto tranquillo, esclamò: mò el fa el gatton; la veduta d’un giorno solamente di così tranquille onde faparere altrui bene impiegato ogni travaglio. E con tutto questo, come noi venivamo quà sospettando quello, che era, che l’altre Navi fossero andate a Goa, dove mi veniva grandissimo danno, per andare in mano d’altri tre quarti delle mie commersioni, veniva molto abbattuto; ma giunto poi quà, davo grazie a Dio, che i danari, che venivano a consegnare a me, fussero andati in mano d’altri, per la dolorosa comodità, che ci era d’impiegare un solo badalucco, stimando, che in Goa averebbono avuto miglior comodità, o se pure avessero fatti i negozj disavvantaggiosi, altri sarebbono, che darebbono le male satisfazioni. Ma anche in questo ho avuto cattivo riscontro, perchè a Lorenzo Strozzi sono avanzati nelle mani più di 20 .... di danari, ch’ei ricevette in assenza mia, e gli tiene a mio ordine, e altri me ne hanno consegnati, e consegnano quì; dove non è nulla in che impiegare con isperanza di profitto, di maniera che io mi rimarrò quà con essi nelle mani; e quanto all’interesso, ed utile degli amici, meglio è così, che il profitto ricompensa il tempo, che si perde, ma come ciascuno desidera di rivedere il suo in viso, è il diavolo; tuttavia io non ci posso altro fare, e non sono per disperarmi. Tornando al viaggio, Messer Giovanni, Orazio, ed io siamo stati sempre sani, per grazia d’Iddio; è ben vero, che se noi avevamo da andare più oltre, o stare 15. giorni più al Mare, che noi l’avremmo passata male, perchè io almeno cominciavo già a sentire delle infermità comuni a questa carriera, delle quali ammalarono in un giorno 160. persone. Le malattie sono queste: cominciano in mala maniera, a enfiare le gengive, e impedire il mangiare, e massime il biscotto; ad altri s’infradiciano, e caggiono; ad altri si si fanno tanto grosse, che bisogna tagliarle col rasoio per poter serrar la bocca, la quale getta, come e’ vengono in questo male, un odore tanto cattivo, quanto voi potete immaginarvi; con le gengive enfiano le ginocchia, e tutte le gambe a poco a poco, e si vanno scuoprendo in esse certe lentiglie, le quali vanno allargando, sicchè elle pigliano la gamba tutta, la quale all’enfiare dà tanto dolore, che è grandissima pietà a vedere i poveri infermi; febbre non si scuopre, ma poco appresso dà un dolore di petto, il quale non proibisce però la respirazione, ma termina bene la vita; a questo accidente seguita la morte in due giorni, spegnendosi quasi una lampada per mancamento d’olio. Ora di questi infermi ne sbarcammo nell’Ospedale fino a 160. i quali oggi sono quasi guariti tutti, se non due, che ci vennero tanto maltrattati, che nello sbarcare si morirono. Non ci mancò poi di avere avuto a vista di Terra un poco di contrasto, che stemmo per calme otto giorni senza poterla pigliare. Vennero a noi questi Cuiussi di Terra in loro piccoli burchiellini1, nè quali và un uomo, che rema con un remo simile ad una mestola da stiuma; portavanci delle loro coselline, foglie di Betle, che è il comune cibo loro, certi loro fichi fatti a modo di cornetti, cocchi, o noci d’India, che quando sono acerbi si chiamano lagne, e se ne fa molto conto, per essere pieni drento d’un acqua dolcissima, e molto grata al gusto, e particolarmente, quando sono freschi, che dicono esser sanissimi. Altre frutterelle ci recavano, sgraziate a maraviglia, le quali furono messe subito da Messer Giovanni da due al quattrino a due reali l’una, reclamante il Provveditore della Grascia2, che era in Nave, quanto e’ poteva, ma non v’ebbe rimedio veruno, che non abbassarono di prezzo finchè fummo in Terra. Ora questa gente è nel vestire molto lussuriosa, che tengono il maggior sarto del Mondo, che fa loro i panni; questi è Messer Domeneddio. Voglio inferire, che vanno ignudi dal minore fino al Re di questa Terra, al quale fummo a baciar le mani in casa sua là in un Palmaio, dove ci dette buona, e grata udienza, e mandoccene pochissime parole. La Villa, dove questo Re tiene i suoi Palagi, e dove vivono i suoi Cittadini, è come dire tanti porcili, quante case sono; e non dico questo per voler menomare le cose altrui, ma fate conto, che elle sieno sotto terra in pochetto, e che dentro non vi si possa per un uomo stare ritto. Sono le mura, e anche il tetto, tutte di foglia di palme, e l’uscio, e le finestre sono la medesima cosa; io non viddi mai la più laida cosa di quella. La vita degli abitatori è differente, perchè vi sono Gentili, Giudei, e Mori; tra i Gentili vi è una razza, che sono forestieri in tutta questa terra d’India, che si chiamano Bramani, i quali non possono ammazzare cosa nessuna, anzi trovandosi dove si ammazzano galline, e altri animali, gli comprano per dar loro la vita. Questi hanno molti buoni costumi nelle Leggi loro, ma non gli osservano; hanno il vincolo del matrimonio strettissimo, intanto che morendo il marito, quando il corpo si va a bruciare, la moglie, che resta, si getta ancora ella nel capannello, checchè qualcuno di costà se ne dica; è ben vero, che questo è in elezione sua, ma vi è ordine, per servarvi sempre il buon costume, che in quel momento del fare la resoluzione ella beva una bevanda, che la fa furiare, e nabissare, e correr là a quel fuoco. Dicono aver avuto principio questo costume dal darsi già un bel tempo le vedove, ma io tengo per certo, che ciò dependa dala strettezza del vincolo, che è tra la moglie, e ’l marito di questa gente. Gli altri Gentili naturali non l’intendono in questa maniera nè in mangiare, nè in sottoporsi al cervello d’una moglie, perchè e’ mangiano d’ogni cosa, e pigliano più d’una moglie fino a quante ne vogliono, e le donne altresì si fanno cavare i loro appetiti, quando e’ vengono loro, e questo apertamente, che nessuno se ne prende cura; solo lascia l’uomo, che và a starsi con lei, alla porta, non la bestia, che non si potrebbe fare quello, perchè è entrato, ma la spada, e la rotella, che vuol dire, che la Signora sia accompagnata, e vassene chi viene poi alle sue consolazioni. Di quì viene, che questa seconda gente non riconosce la sua generazione, perchè sebbene chiamano figliuolo chiunque nasce in casa, non lasciano loro per queto niente, ma eredi sono i figliuoli della sorella, che è cosa certa esser nati dalla banda di quella donna del medesimo sangue; e questo ha luogo in tutta questa costa d’India, così ne i Re, come ne’ Rocchi, nè Cavalli, e ne’ Delfini. Questa è quasi tutta gente di guerra, e non ha niente del suo, se non quello, che il Re le dà, che sono tante Palme, che le danno tanti cocchi; e non sarà vero, che voi gli giunghiate mai senza le loro armi, che sono di alcuni di spada, e rotella, d’altri d’arco, e frecce; altri sono archibusieri, e altri portano zagaglie fatte a loro maniera. Alcuni pochi ve ne sono mercanti, che chiamano Ciattini, e intendono in tutte sorte di cose. Quegli altri sciagurati di que’ Bramani sono tutti o sensali, o mercatanti, poltroni come le cimici. Gridano tra loro uno abbaiamento, che il diavolo non lo intenderebbe; e quando e’ vengono al giuoco delle pugna, sono tenuti tra loro medesimi micidiali, e ladri, e ogni male. Quanto a ingannare altrui, perdetene il pensiero, che e’ lo fanno, se possono; ma se altri se n’avvede, in casa l’uomo si fa la giustizia da se, che si tamburano come vitelle gonfiate. Ora io ho fatto un lungo scrivervi, e ho detto poche cose, e quelle di niun valore; scusatemi, e perdonatemi, facendo conto, che io non posso più, essendomisi appunto sul tempo dell’estremo travaglio ammalato Orazio. Sia di tutto ringraziato Iddio. Ricordo tenermi in vostra grazia e degli amici, e salutare il Signor Giovanni .... per mia parte, e offeritemegli dove io vaglia, e possa. Raccomandatemi a vostro fratello, e fate vezzi alla vostra Signora. Addio.


In Cocchino a’ .... di Dicembre 1583.

Affezionatis. servit.

Filippo Sassetti.


Note

  1. Specie di piccole barche di cui si faceva uso soprattutto sui corsi d’acqua e negli ambienti lacustri. N. d. C.
  2. Si tratta di un ufficiale il cui compito era controllare che venissero rispettati i provvedimenti sui prezzi dei generi alimentari. N. d. C.