Lettera agli onesti di tutti i partiti/Conclusione
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So benissimo che a Francesco Crispi, ai suoi tempi e a quelli d’ora, per accusare, nonché un uomo, tutto intero un partito, sarebbe bastata nemmen la centesima parte di quanto ho dovuto in queste pagine ricordare.
Oggi a lui basta un paio di documenti falsi da leggere alla Camera.
In altri tempi gli bastava anche meno: quando il 15 giugno 1867 vituperò nella Camera Bettino Ricasoli, accusandolo - egli! - d’aver rubato il danaro pubblico per pagar le elezioni e la stampa, e fu messo a dovere da Giuseppe Biancheri e da Nino Bixio che lo sferzò a sangue, Francesco Crispi invitato a produr prove, rispose che per gli uomini politici e per le assemblee politiche basta per prova “il convincimento morale”!
Quando più tardi nel 1868 volle accusare tutta la Destra di ladroneccio e di concussione, fece rubare, per danaro, nel cassetto di Paulo Fambri, segretario della Camera, dal noto Burei, le di lui carte, tra cui la lettera di suo cognato Brenna, che conteneva due parole sole, diversamente interpretabili a piacere “facciamo quattrini”. E con quelle due sole parole mise l’incendio in Camera, denunciò la Destra alla pubblica vendetta, scatenò lotte tremende, si eresse Minosse inesorabile.
Io non ho i metodi di Francesco Crispi: non vado a rubare nei cassetti degli altri e non mando - e quando l’odio politico osò accusarmi di qualcosa di simile, feci ciò che fa un galantuomo - trascinai l’accusatore in tribunale - lo ammisi alle prove - gli abbandonai alla luce del sole la mia vita intera - lo feci, con due sentenze solenni, condannare.
Io non ho i metodi di Crispi - non rubo documenti - non li sottraggo agli archivii della Consulta - non credo che bastino, come a Crispi, due documenti falsi o due parole di una lettera privata per accusare chicchessia. Perciò, per accusarlo, ho voluto essere innanzi alla certezza e ad elementi di prova che lo farebbero condannare da qualunque giurì.
Per chiamarlo testimonio falso non c’è bisogno di ragionamenti: basta prendere il testo ufficiale del suo esame per confrontarlo col testo dei suoi biglietti.
Per chiamarlo concussore nei fatti bancarii non v’è bisogno di ragionamenti: basta leggere negli atti ufficiali il suo discorso del 20 dicembre e mettervi a riscontro i documenti del suo debito occulto alla Banca in quel dì e del debito nuovo di quattro giorni dopo.
Per chiamarlo concussore nel fatto Herz non v’è bisogno di ragionamenti: basta leggere la testimonianza del suicida nell’ora della morte: la lettera di Reinach riconosciuta, la confessione di Crispi e la storia schiacciante delle sue bugie - una dopo l’altra smascherate. Per un affare onesto, confessabile, non si inventano a nasconderlo tante menzogne!
E ho voluto nella prova abbondare: lasciando pel giudizio, a cui Crispi non può più sottrarsi, il rimanente. So bene che, se tutto questo è non solo bastante, ma esuberante pei galantuomini, non basterà mai per i disgraziati, che servono Crispì a stipendio (con pubblico furto) da quindicimila lire al mese in giù; non servirà per coloro cui lega a Crispi la triste non frangibile solidarietà dell’interesse e della colpa: non basterà, non può bastare per deplorati come lui, benché meno aggravati di lui, dei quali Francesco Crispi ha dovuto alle urne farsi paladino - combattendo a morte i loro giudici - e dei quali ha dovuto farsi nella Camera la guardia del corpo, la sua guardia di onore.
Ma non tutti fra coloro nella Camera e fuori, che hanno creduto, non conoscendolo, in lui, non tutti a lui sono legati da solidarietà di quel genere: sono pur fra essi uomini di cuore, onest’uomini e gentiluomini. Per questi soltanto ho parlato e per tutti quelli che nelle mie file o in file diverse di qualsiasi partito, hanno invocato la tregua di Dio sul terreno, ove tutti i cuori onesti si incontrano. E ho parlato per la pubblica coscienza, la quale, infallibile giudice, sa distinguere il linguaggio del galantuomo indignato da quello del libellista, il linguaggio del vero da quello della menzogna - e alla quale mi presento serenamente colla fronte alta di chi compie un dovere.
Roma, 15 giugno 1895