Le traduzioni poetiche, il De rerum natura di Lucrezio e l'antichità e nobiltà della medicina

Giambattista Vico

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V

LE TRADUZIONI POETICHE

IL «DE RERUM NATURA» DI LUCREZIO

E L’ANTICHITÁ E NOBILTÁ DELLA MEDICINA

Prefazione alla Sifilide di Girolamo Fracastoro, tradotta da Pietro Belli.
(1731)

Al discreto leggitore Giambattista Vico.


Il signor don Pietro Belli, nato da una delle piú nobili famiglie che illustrano la cittá di Lecce — la quale, dopo Napoli, capitale di questo Regno, e per magnificenza di edifici e per frequenza di abitatori e per isplendore di civili costumi e per ricchezza di marittimi traffichi, è la piú riputata, — adorno di buone cognizioni di filosofia, assai bene inteso di lingua latina e nella toscana versatissimo, ha tradotto la Sifilide di Girolamo Fracastoro, la qual ora, o per elezione o per fortuna, hai tu, discreto leggitore, preso tra le mani. Mi piace di ragguagliarti cosí della cagione la quale l’ha mosso a far questa traduzione, come del consiglio e’ha seguitato in condurla.

La principal cagione, la quale l’ha indutto a farla, è stata per profittare nella toscana poesia, la qual facultá non può con piú util esercizio acquistarsi che col, traducendo, gareggiare i poeti migliori della lingua latina, tanto naturalmente eroica, sublime e grande quanto è tenera, gentile e dilicata volgarmente la greca. Perché, cosí faccendo, le nobil maniere del concepire poetico restano piú altamente impresse nella [p. 46 modifica]fantasia col trattenervisi molto sopra e col proccurare di renderle nella nostra favella con iguale splendore, ornamento e bellezza; ond’è avvenuto che gli piú valorosi toscani poeti del Cinquecento sono stati anco chiari poeti latini, come lo furono Giovanni Casa, Pietro Bembo, Giacomo Sannazaro ed altri.

In sí fatto studio egli, com’era diritto e ragione, ha ammirato il conte dell’Anguillara nella traduzione della Metamorfosi d’Ovidio, Annibal Caro in quella dell'Eneide di Virgilio, ed in quella della Tebaide di Stazio l’eminentissimo cardinal Bentivogli, sommo e sovrano ornamento a’ dí nostri della letteratura italiana in pregio di poesia quanto lo fu in quello della prosa l’altro cardinal Bentivogli, scrittore delle Guerre di Fiandra.

Con assai diritto giudizio, quella del Marchetti non gli è paruta di tanto, accagionché Tito Lucrezio Caro tenne uno stile di sermon volgare latino, dello che meritò pur una somma lode d’aver portato nella lingua latina, ed in versi di piú, un’affatto nuova materia greca; ma, a riserva delle poetiche introduzioni a’ suoi libri e d’una o d’altra digressione — come quella nella nota dilicata innimitabile descrizione della tenera giovenca c’ha perduta la madre, e quella nella nota grande incomparabile ove descrive la pestilenza d’Atene, — del rimanente tratta le materie fisiche con uno stile niente diverso da quello con cui si sarebbon insegnate in una scuola latina di filosofia naturale. Onde s’intenda quanto taluno, nonché degli stili poetici latini, sia affatto ignorante di essa lingua medesima, il quale ragguaglia coloro che non hanno veduto l’opera che ’l padre Quinzi della Compagnia di Gesú abbia scritto i suoi nobilissimi libri De’ bagni alla maniera di Lucrezio: quando ed esso chiarissimo autore apertamente professa d’avergli lavorati sull’esempio della Georgica di Virgilio, ove tratta poeticamente di essa arte villereccia, e l’opera stessa, ad ogni scolaretto c’ha nella scuola della gramatica Virgilio spiegato, manifestamente il dimostra.

Perciò il nostro avvedutissimo traduttore si ha eletto piú degli altri questo celebratissimo poeta, il quale sol di tanto [p. 47 modifica]ha da ceder agli piú celebrati latini nel tempo; ma, per questo istesso, egli non dee loro ceder punto in valore, anzi, mi fo lecito dirlo, gli supera. Perché quelli avevano scritto quando essa lingua vivente fioriva, e questi scrisse quando per lungo tratto di secoli era giá morta, e scrisse poeticamente d’una materia affatto nuova, nonché a’ latini, a’ medesimi tempi suoi.

E tutto ciò il signor Belli ha egli fatto per avvezzare l’ingegno con simigliante esercizio non solo a parlare poeticamente di ciò che deve, perocché quel poeta che parla di ciò che vuole, egli è il triviale pittor d’Orazio, il quale

...scit simulare cupressum;


ma anco per accostumarlo al piú difficile, perché piú grande, lavoro della poesia, il qual è con la novitá della materia strascinarsi dietro, come necessaria, la novitá della locuzione, e con entrambe destare la maraviglia, la qual sola passione del cuor umano è quella che col silenzio acclama allo stil sublime.

Però egli sembra ch’essa materia non abbia dell’eroico. Ma a chiunque leggiermente vi rifletta sopra e combini, sífa manifesto che ella lo ha pur benissimo.

Perché la medicina negli antichissimi tempi fu professione d’eroi: onde tant’erbe ne serbano ancor i nomi fin al di d’oggi. Medea co’ suoi rimedi rinnovella il suo vecchio padre Esone. La moglie di Tono, re d’Egitto, ad Elena rigala il nepente. E di esser lo dio della medicina fa vanto esso Apollo, il quale nella Scienza nuova si è ritruovato dio della luce civile o sia della nobiltá. Ed a’ tempi barbari ricorsi ella fu solamente praticata da’ grandi signori, de’ quali insigne è Giovanni signor di Procida, che fu l’autore del Vespro siciliano, e ne serba oggi ancor il nome il suo empiastro: com’altri medicamenti pur gli serbano di re e di grandi, quali sono il «Mitridatico», l’«unguento della Contessa», e oggi è celebratissimo purgante la «polve del conte Palma». Il qual costume eroico veggiamo rimasto tra’ potenti signori, i quali si gloriano di graziosamente dispensare chi uno, chi altro efficace [p. 48 modifica]specifico per gli malori che travagliano la salute degli uomini; e gli re d’Inghilterra si pregiano d’esser principi della real Societá anglica, la quale per lo piú si compone di medici, i quali in quel reame son nobilissimi; e la casa de’ granduchi di Toscana, fra le altre, pone magnificenza nella sua Fonderia.

Il vero è che essa materia è trattata con principi i quali ora non soddisfano al buon gusto del risicare presente, perché l’autore siegue la vanitá dell’astrologia e spiega le ragioni naturali di cotal morbo per «qualitá». Ma, nientemeno, vi sfolgora di tempo in tempo alcuni grandi lumi di fisica e medicina: oltreché questi libri sono necessarissimi d’esser trapportati in tutte le lingue viventi, almeno per la storia naturale d’un tanto malore, e’ha dato il guasto ad una gran parte ed ha gravemente infievolito l’altra di quasi tutto il gener umano.

Ciò sia detto d’intorno all’elezione di tal fatica, e’ ha fatto con saggio avvedimento il nostro nobil traduttore di tal poeta. Ora mi rimane poc’altro a dire della condotta che vi ha tenuto.

Egli si è ristretto tra gli autori principi della toscana favella, particolarmente poeti, per apparecchiare all’idee poetiche latine la materia piú pura e l’impronta migliore che posson unquemai avere le voci e le frasi nostre poetiche italiane. Quindi, nel tradurre questi aurei libri, ha avuto due cose principalmente dinanzi agli occhi: la veritá de’ sentimenti per esser fedele, e la degnitá dell’espressioni per esser esatto traduttore. E, per l’interesse della veritá, d’intorno alle voci dell’arte, le quali non si sanno che da’ maestri dell’arti, egli, particolarmente nella botanica, come la prudenza il richiedeva, si è consigliato con saccenti espertissimi professori. Per la degnitá, poi, si è a tutto potere studiato dentro i medesimi tratti latini di dir in volgare né piú né meno né altrimenti, per isperimentare quanto possa la nostra rendere del nerbo e vigore c’ha la poetica latina favella; e, per ciò fare, ha usato, ove la bisogna il richiedeva, alcune maniere antiche, le quali, anco senza cotal necessitá, a tempo e luogo adoperate, fanno grave e veneranda essa poetica locuzione. [p. 49 modifica]

Prendi adunque, o discreto leggitore, a leggere questa lodevolissima traduzione con animo di compiacertene, il qual animo certamente non puoi tu avere se non la prendi a leggere almeno con una indifferente curiositá di veder ciò che dica. E ti priego a giudicarne su questa riflessione: che del tuo giudizio ha a giudicare il comune de’ dotti; e non voglio né debbo — né ’l voglio perché non debbo — estimarti che tu non sappia discernere i confini eterni delle cose le quali tra loro a morte combattono, e che si abbia teco a poner in consulta la necessitá se tu ami meglio d’appruovarti appo gl’indifferenti per giudice di cuor diritto ed equanime o di accusarti per un invidioso livido e dimagrato.

Vivi felice, ch’i filosofi diffiniscono con salute e con sapienza.