Le stragi delle Filippine/Capitolo XXIV - Fra coccodrilli e serpenti
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Capitolo XXIV
FRA COCCODRILLI E SERPENTI
Tre giorni dopo, cioè il 21 marzo, la piccola banda lasciava definitivamente il rifugio, per tentare di giungere a Cavite.
Romero, ormai completamente guarito dalla ferita riportata durante la ritirata da Salitran, era in grado di prendere vigorosamente parte all'estrema lotta che si doveva combattere nel piú forte baluardo dell'insurrezione, contro le truppe riunite dei generali Polavieja e Lachambre.
La piccola banda, durante quei sei giorni passati sulla montagna, aveva potuto radunare delle provviste sufficienti per attraversare la distanza che la separava dalle rive del mare, senza essere costretta a ripiegarsi sui villaggi, i quali ormai dovevano essere tutti occupati dagli spagnuoli. Essendo riusciti, i tagali ed i meticci, ad uccidere un piccolo cignale, avevano seccata parte della carne al sole, una ventina circa di chilogrammi, e questi potevano bastare per alcuni giorni.
Per maggiore fortuna, quasi tutti gli spagnuoli che avevano preso parte all'assalto di S. Nicola, già da quattro giorni erano partiti, seguendo il corso dello Zapatè. Era quindi certo Hang, tenendosi sempre sulle montagne, di poter attraversare il paese senza venire inquietato.
Scesa la montagna, Hang-Tu aveva guidato i compagni attraverso a certe vallate selvagge e boscose, ma che si dirigevano verso il nord, seguendo due aspre catene di monti. Uno dei tagali, pratico del paese, gli si era messo vicino per le necessarie indicazioni.
Pareva che la guerra non avesse lasciata alcuna traccia in quelle vallate. Probabilmente nessun combattimento era colà avvenuto, essendo lontane da qualunque centro popoloso.
Alberi maestosi e antichissimi coprivano i fianchi dei burroni e delle montagne, spingendosi a grandi altezze, abitati solo da numerose bande di scimmie che volteggiavano fra i rami, salutando i cavalieri con grida scordate o con latrati piú o meno acuti. Si vedevano giganteggiare i tek dal legno durissimo, spingendo le loro cime a cinquanta e piú metri dal suolo, i laureti cubilaban dai quali si ricava un olio aromatico ricercatissimo, gruppi di papayer, di tornasoli, d'alcanti, di ebani verdi, di legno del ferro, cosí chiamati perché le loro fibre sono cosí resistenti da far rimbalzare le scuri piú affilate: di superbi cocchi dalle grandi foglie piumate, di latanieri, di tamarindi, di frangipani e d'alberi della cassia, formando tutti insieme delle vere foreste, forse non ancora calpestate da alcun uomo bianco.
È incredibile la feracità del suolo di quelle isole. Tutte le piante siano d'origine indo-malese od europea vi allignano facilmente, anzi dànno maggior copia di frutta che in qualunque altro paese. Un solo tubero non ha mai potuto svilupparsi su quelle terre, un tubero che può invece crescere in qualunque altra regione del globo e senza la menoma difficoltà, ossia la patata.
La fauna non mancava di essere rappresentata entro quelle tranquille vallate. Bande di cervi e di cignali si vedevano fuggire attraverso i pendii, nascondendosi entro le piú cupe macchie e anche non pochi serpenti fuggivano all'avanzarsi dei cavalieri e fra quelli qualcuno anche di quei pericolosi rettili chiamati pitoni tigri, lunghi oltre trenta piedi e dotati di tale forza, da stritolare fra le loro spire perfino un bue.
In alto invece svolazzavano bande di kokatoe bianche col capo adorno di un pennacchio color rosa-pallido, di pappagalli dalle penne variopinte, di tortorelle verdi e di certi uccellacci chiamati calao delle foreste, mentre in riva ai torrenti, che scendevano i pendii scrosciando, si vedevano non pochi trampolieri col dorso verde, il ventre giallo e la coda azzurra e talvolta qualcuno di quegli strani volatili chiamati tabau, quali hanno talvolta l'abitudine di seppellire le uova in terra, lasciando al calore del sole la cura di schiuderle, né piú né meno come fanno i coccodrilli ed i caimani.
La piccola banda a mezzodí fece una fermata di alcune ore in fondo ad una cupa vallata, dove crescevano alcune palme di cocco già cariche di noci e alcuni alberi del pane, la cui frutta poteva somministrare una pasta tenera, dolciastra, somigliante per gusto a certe specie di zucche.
Alle quattro pomeridiane Hang-Tu si riponeva in marcia, seguendo altre vallate, solcate nel mezzo da piccoli corsi d'acqua che pareva si dirigessero tutti verso il mare e tutti ricchissimi di certi pesciolini esili, i quali costituiscono, per quelle isole, un vero flagello, specialmente durante la stagione delle piogge.
Straripando i corsi d'acqua, le uova di quei pesciolini si disperdono dappertutto e dopo pochi giorni si ritrovano i piccini in tutti i luoghi, ove regna anche solo l'umidità. Invadono perfino i pozzi ed i serbatoi corrompendo le acque e se ne trovano in grandissimo numero perfino nelle cantine, nei sotterranei delle chiese ed anche nelle tombe.
Il paese, che la piccola banda percorreva, era sempre selvaggio, coperto di antichissime foreste, ma non disabitato del tutto, poiché di quando in quando, sui fianchi delle montagne, vedevano alzarsi colonne di fumo e si udiva a rullare l'avitam, specie di tamburo adoperato dagli indigeni per accompagnare i mapaganit, ossia cantori di professione che girano pei villaggi.
Degli spagnuoli però non si vedeva alcuna traccia, segno evidente che le popolazioni di quelle vallate, forse ancora mezzo selvagge, non avevano abbracciata la causa della libertà, preferendo rimanersene tranquilli nei loro villaggi.
Alla sera la banda si accampava sui fianchi boscosi d'una montagna, la quale pareva altissima. Hang-Tu avrebbe voluto scalarla per vedere se di lassú poteva scorgere il mare, ma temendo di smarrirsi dovette rinunciarvi.
Il giorno seguente la piccola carovana entrava in una cupa vallata ingombra di piante acquatiche ed interrotta qua e là da paludi, le cui acque stagnanti esalavano miasmi che potevano produrre febbri pericolose.
Essendo chiusa fra alte montagne dai fianchi tagliati quasi a picco, assolutamente inaccessibili agli animali, ed irte di enormi piante che crescevano quasi orizzontalmente, una mezza oscurità regnava entro quell'umido vallone.
Hang-Tu non sapeva dove terminasse, ma vedendo che si dirigeva verso il nord, ossia in direzione del mare, credette bene d'inoltrarsi. Procedeva però con prudenza, temendo che quelle piante acquatiche e quei pantani nascondessero dei serpenti e dei coccodrilli.
I suoi timori dovevano in breve venire confermati, poiché mentre stava attraversando un banco di sabbia e di fango tenacissimo in parte sommerso, ad un tratto il suo cavallo s'arrestò, mandando un nitrito di spavento.
— Che vi siano delle sabbie mobili? — si chiese Hang-Tu. — Non c'è da fidarsi di questi terreni.
Spronò l'animale per costringerlo a raggiungere un macchione di canne, ma il destriero, invece di avanzare, cercò di retrocedere, manifestando un vivo terrore.
— Hang-Tu, che cosa succede? — chiese Romero, che gli stava a breve distanza.
— Non lo so, ma se il mio cavallo è spaventato deve avere i suoi motivi, — rispose il chinese.
— Affondato nel fango?...
— Non mi pare.
— Torna indietro; faremo il giro dall'altra parte.
— La via non sarà migliore, Romero.
Spronò per la seconda volta e piú forte di prima, ma invece di obbedire il cavallo s'inalberò cosí bruscamente, che per poco il chinese non fu sbalzato di sella.
— Dannazione!... — urlò Hang.
Furioso per quella scossa, stava per piantare gli speroni nel ventre dell'ostinato animale, quando vide uscire dal macchione sette od otto orribili rettili, i quali gli si precipitavano incontro colle grandissime mascelle aperte.
Era una banda di coccodrilli, formidabili mostri, lunghi dai sei ai sette metri, coi corpi corazzati da scaglie ossee d'un tale spessore da far rimbalzare le palle dei migliori fucili e con certe bocche lunghe un buon metro e armate di denti lunghi e solidi quanto l'acciaio.
Hang-Tu era coraggioso, ma nel vedersi dinanzi quei rettili impallidí:
— Badate!... — gridò ai compagni. — Sono ben piú terribili degli spagnuoli!...
Aveva armato rapidamente il fucile, ma prima che lo avesse puntato, un coccodrillo, il capo banda, aveva avventato un tale colpo di coda al cavallo, da spezzargli le gambe anteriori, come se fossero due semplici stecchi.
Il povero animale cadde bruscamente sulle ginocchia, sbalzando il cavaliere tre metri piú innanzi, in mezzo al fango. Romero e Than-Kiú avevano mandato un urlo di terrore, credendo che Hang-Tu fosse perduto, ma il valoroso chinese si era prontamente alzato, tenendo ancora in pugno il fucile.
Vedendosi dinanzi due coccodrilli aveva scaricato l'arma fra le mascelle aperte del primo fracassandogli il palato, poi estratta rapidamente la catana, con un coraggio disperato si era scagliato contro il secondo, tempestandolo di colpi cosí terribili, da costringerlo alla fuga.
Romero intanto e gli altri tutti, scesi precipitosamente di sella, si erano gettati contro i cinque altri, i quali ormai avevano assalito il cavallo del chinese, stritolandogli la testa e le gambe.
Scaricarono le armi, poi impugnati i fucili per la canna, si misero a percuotere furiosamente i musi dei superstiti, per costringere quei ributtanti e feroci mostri a rientrare nella macchia.
Un meticcio, vedendo che uno di essi, invece di retrocedere cercava di gettarsi addosso agli altri cavalli, lo inseguí sparandogli contro una fucilata, ma la palla rimbalzò sulle grosse scaglie senz'altro risultato che di irritare maggiormente il rettile, il quale rispose con un colpo di coda.
Il meticcio che si trovava proprio dietro, colpito in pieno petto, fu scaraventato sei passi lontano.
Hang-Tu, che aveva veduto ogni cosa, si era precipitato in soccorso del disgraziato, ma ormai era troppo tardi. Il meticcio era morto sul colpo. La potente coda del mostro gli aveva sfondato il petto, fracassandogli le costole e perfino la spina dorsale.
Il rettile, vedendosi dinanzi quel secondo avversario, cercò d'investirlo, ma Romero ed i suoi compagni, che erano riusciti a fugare gli altri, furono lesti ad accorrere e con tre o quattro fucilate ben dirette lo abbatterono.
— Grazie, Romero, — disse Hang-Tu, porgendo la mano al meticcio. — Grazie compagni.
— Sei ferito? — chiese Than-Kiú che era ancora pallidissima.
— No, — rispose Hang, — ma se non avessi avuta la mia fedele catana, credo che gli uomini gialli non avrebbero piú avuto contare sul loro capo.
— E quel povero uomo?...
— Non ci rimane che seppellirlo.
— Ecco un altro valoroso perduto — disse Romero. — Tutti finiscono cosí, in questa disgraziata campagna.
— Capo, — disse in quel momento un tagalo, che si era avanzato verso il banco di sabbia. — Non è prudente fermarci qui. Vedo le piante acquatiche muoversi in diversi luoghi e temo che vi siamo altri coccodrilli.
— E stanno per assalirci, — aggiunse un meticcio.
— Prendiamo il nostro povero compagno onde non serva di pasto a quegli schifosi sauriani e affrettiamoci a cercare un altro passaggio, — rispose Hang.
— Ma il tuo cavallo è perduto, — disse Than-Kiú.
— Mi resta quello del morto.
Afferrò il cadavere del meticcio e abbandonò precipitosamente il banco di sabbia, dirigendosi verso la parte opposta della valle, dove sperava di trovare, sul fianco della montagna, un passaggio migliore.
Si ritrovavano in buon punto, poiché altri dieci o dodici coccodrilli erano usciti dal macchione di piante acquatiche, scagliandosi sul cavallo del chinese che stava spirando sul banco di sabbia.
Qualcuno dei piú arditi cercò d'inseguire i cavalieri, ma alcuni colpi di fucile li costrinsero ad arrestarsi.
Giunti ai piedi della montagna, su di un terreno scoperto e roccioso, i cavalieri sostarono per dare sepoltura al povero meticcio, poi s'allontanarono frettolosamente, ansiosi di abbandonare quell'umida valle, non volendo passare la notte con quei vicini cosí pericolosi e probabilmente molto affamati.
Hang-Tu, che era salito dietro a Than-Kiú, aveva raccomandato ai compagni di tenere le armi pronte, avendo scorto, in mezzo alle piante acquatiche, altri gruppi di sauriani. Pareva che in quel luogo si fossero rifugiati tutti i rettili della vallata dello Zapatè, tanto erano numerosi.
Il drappello ora s'avanzava tenendosi proprio sotto il fianco della montagna, che talvolta era tagliato a picco, il passaggio si abbassava a livello dei terreni paludosi, serpeggiando fra le piante acquatiche ed i coccodrilli vi si potevano radunare.
Piú d'uno infatti di quei rettili, attirato dal rumore che producevano i cavalli, si mostravano presso il terreno, ma Hang-Tu ed i suoi compagni si affrettavano a salutarlo con una tempesta di palle, le quali, qualche volta riuscivano offensive, malgrado le scaglie impenetrabili che corazzavano quei mostri.
Ma pareva che anche altri ospiti pure pericolosi si celassero fra le piante e fra gli acquitrini, poiché dall'alto del sentiero il drappello aveva veduto contorcersi anche numerosi serpenti, per lo piú lunghi boa e pitoni, rettili che in quelle isole dell'arcipelago Filippino raggiungono dimensioni esagerate, essendosene uccisi di quelli che misuravano perfino ventisei o vent'otto piedi, ossia piú di nove metri.
Quei serpenti non sono velenosi, ma come fu detto, posseggono una tale forza da stritolare fra le loro viscose spire non solo gli uomini piú robusti, ma perfino dei cavalli e dei buoi.
Durante tutta la prima giornata il drappello continuò ad inoltrarsi in quella vallata, sparando colpi di fucile per tenere lontani quei numerosissimi rettili, e verso il tramonto s'accampava in una seconda vallata molto piú ampia della prima, ingombra bensí di piante, ma priva di paludi e quindi anche di coccodrilli.
Essendo tutti stanchissimi, dopo una parca cena s'affrettarono a coricarsi sopra ad alcuni fasci di fresche erbe, al riparo d'una fronzuta felce. Avevano però radunata una catasta di legna secca per mantenere acceso il fuoco durante la notte e scelti gli uomini di guardia, non per tema degli spagnuoli, ma dei serpenti che non dovevano mancare anche in quella seconda vallata.
La notte pareva che dovesse trascorrere tranquilla, poiché fino al penultimo quarto di guardia nessun allarme aveva svegliato gli uomini. Verso l'alba però, Hang-Tu e Romero, che riposavano l'uno accanto all'altro, venivano bruscamente svegliati da una vigorosa scossa, seguíta da una voce che pareva atterrita:
— Non mandate nessun grido, od è perduta!...
I due capi, stupiti e spaventati, avendo subito compreso che si trattava di Than-Kiú, non essendovi con loro nessun'altra donna, si erano prontamente alzati coi fucili in mano, ma senza pronunciare una parola.
Dinanzi a loro, nascosto dietro il tronco della felce, stava un tagalo, l'ultimo del quarto di guardia. Il povero indigeno era grigiastro, ossia pallidissimo ed i suoi occhi manifestavano un terrore impassibile a descriversi.
— Che cos'hai?... — chiese Hang-Tu, con un filo di voce.
— Capo, — balbettò il tagalo, battendo i denti — Than-Kiú da un momento all'altro può venire stritolata.
— Da chi?... — chiesero Romero ed Hang, con angoscia.
— Da un pitone che le si è aggomitolato vicino, forse per godersi il tepore del fuoco.
Romero aveva fatto atto di slanciarsi verso la giovane chinese, ma Hang-Tu lo aveva trattenuto, dicendogli:
— Non commettiamo imprudenze; vediamo prima.
Tenendo in mano i fucili armati i due capi fecero il giro della grande felce e gettarono uno sguardo su Than-Kiú.
La giovanetta dormiva profondamente, avvolta nel suo ampio mantello di seta bianca, col capo appoggiato ad un braccio, il quale serviva come di guanciale. Accanto a lei, a tre o quattro passi dal fuoco, i cui tizzoni stavano per spegnersi, Hang e Romero videro arrotolato un enorme serpente, un pitone che doveva misurare almeno otto metri di lunghezza e grosso quanto la coscia d'un uomo.
La testa dell'immondo rettile si era dolcemente appoggiata su un lembo del mantello della giovane, sicché se essa si fosse svegliata, avrebbe pure interrotto il sonno del pericoloso vicino.
La posizione del Fiore delle Perle era spaventosa. Al primo movimento che avesse fatto, il rettile non avrebbe tardato ad avvolgerla fra le sue potenti spire e stritolarla.
Hang e Romero si erano fermati, entrambi pallidissimi ed indecisi. Fare fuoco non osavano, poiché le palle potevano colpire la giovanetta ed avvicinandosi temevano di svegliare il pitone e precipitare la catastrofe.
D'altronde bisognava affrettarsi, poiché l'alba stava per spuntare ed i cavalli potevano, da un istante all'altro, alzarsi rumorosamente.
— Hang, che cosa facciamo? — chiese Romero, con terribile ansietà.
— Lascia il fucile e impugna la sciabola, mentre io sfodero la catana, — rispose il chinese, che aveva conservato il suo sangue freddo. — Le armi da taglio sono migliori e piú sicure contro quei rettili.
— Lo assaliamo?...
— Sí, ma non facciamo rumore. Finché Than-Kiú rimane coricata non può venire presa fra le spire del pitone, ma se si sveglia e si alza, allora è perduta. Avanti e silenzio.
Impugnando uno la sciabola e uno la catana, s'avanzarono silenziosamente, in punta di piedi, cogli sguardi fissi sul serpente, pronti a scagliarsi su di lui.
Già non distavano che quattro o cinque passi, quando uno dei cavalli fece udire un nitrito sonoro.
Il rettile, svegliato bruscamente, alzò la testa, ma nel fare quella mossa, colle sue ruvide squame, urtò il bel viso di Than-Kiú.
Un grido era sfuggito ad Hang, vedendo che la giovane stava per alzarsi:
— Non muoverti!...
Poi i due uomini si erano scagliati innanzi, colle armi alzate.
Il pitone, avvedutosi del pericolo, aveva svolte precipitosamente le spire e si era raddrizzato piú di mezzo, mandando sibili di rabbia. Vedendo presso di sé la chinese, vi si precipitò sopra cercando di stringerla fra le potenti anella, ma Than-Kiú, quantunque si sentisse urtare dalle scaglie del rettile, non si era mossa. La valorosa giovane, al pari di Hang, sapeva che finché rimaneva a terra aveva la possibilità di sfuggire alla morte.
Hang e Romero con un ultimo balzo furono addosso al mostro. Questi, con una rapida mossa sfuggí al colpo di catana del primo e cercò di avvolgere fra le spire il meticcio, passandogli la coda fra le gambe per fargli perdere l'equilibrio, ma aveva trovato degli avversari degni di lui.
Romero, con un salto si era sottratto a quel colpo di coda ed aveva risposto con una sciabolata, ma la lama, forse mal diretta, era rimbalzata sulle scaglie del rettile. Hang-Tu però si era slanciato in soccorso dell'amico, scagliando sulla testa del pitone un tal colpo di catana, da fracassargliela.
La lotta non era tuttavia ancora finita. Quantunque cosí mutilato e sanguinante, il mostro cercava ancora di assalire e di stritolare i suoi avversari. Si dibatteva con furore avvolgendo e svolgendo le spire e balzando ora a destra ora a sinistra, ma altri avversarii accorrevano.
I meticci ed il tagalo, svegliatisi, avevano afferrato i fucili, e mentre gli uni strappavano Than-Kiú, due o tre altri avevano scaricate le armi e le palle non erano andate perdute.
La sciabola di Romero e la catana del chinese terminarono di uccidere il formidabile rettile in piú pezzi.
— Per Buddha e Fo!... — esclamò Hang, asciugando l'arma insanguinata. — Se non ci affrettiamo a lasciare queste vallate, finiremo per lasciare le ossa.
— Than-Kiú, — disse Romero, avvicinandosi alla giovane chinese, — quanto ho tremato per te! Fanciulla, sei una valorosa e nessun'altra donna avrebbe resistito a simile prova senza morire di spavento.
— Than-Kiú non voleva morire e non si mosse, — rispose la giovane chinese. — Grazie del tuo soccorso, mio signore.
— A cavallo, — comandò Hang. — sospiro il momento di lasciare queste selvagge vallate.
Il drappello si rimise in sella e lasciò frettolosamente quell'accampamento che per poco non diventava fatale al gentile Fiore delle Perle ed ai due capi dell'insurrezione.
Tutto quel giorno ed anche il seguente, salvo brevi fermate per prendere un po' di riposo e allestire i pasti, Hang-Tu ed i suoi compagni marciarono fra monti e valli, e verso il mezzodí del terzo, un meticcio che li aveva preceduti per cercare un passaggio in mezzo una gola, ritornava al galoppo annunciando la vicinanza del mare.
Tutti s'affrettarono ad attraversare la gola e giunti all'estremità s'arrestarono, spingendo lontano gli sguardi.