Le stragi delle Filippine/Capitolo XVII - L'assalto alla fattoria
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Capitolo XVII
L'ASSALTO ALLA FATTORIA.
I meticci ed i chinesi che dormivano sotto le tettoie, svegliati bruscamente dal grido d'allarme del capo, si erano precipitosamente alzati coi fucili in mano e si erano lanciati all'aperto, tenendo le batterie delle armi nascoste sotto le casacche per non inumidire le cartucce. Hang, arrampicatosi sulla palizzata del cancello, aspettava un lampo per vedere se il temuto nemico si fosse realmente avanzato o se si trattava di qualche uomo mandato in esplorazione.
Passarono alcuni minuti di viva ansietà per tutti, poi un gran lampo ruppe bruscamente le tenebre, illuminando la foresta.
Per quanto fosse stato rapido, Hang aveva scorto, presso il tronco d'un tamarindo, due soldati, che tenevano puntati i loro moschetti da cavalleggeri verso la palizzata.
Non ne aveva scorti altri ma i loro compagni potevano trovarsi poco lontani. Comunque fosse, ormai sapeva che il loro rifugio era stato scoperto e che l'assalto non poteva tardare. Essendo inutile difendere la palizzata, tanto piú che non poteva offrire un riparo sufficiente in causa delle numerose fessure che si trovavano aperte fra tronco e tronco, comandò ai suoi uomini di ritirarsi nella casa, dietro le cui robuste pareti potevano sfidare impunemente le palle nemiche. Fatta barricare la porta con tutta la mobilia, dispose i suoi uomini dietro le sei finestre del piano superiore, le sole che esistevano, poi discese a pianterreno dove si trovavano Romero e Than-Kiú.
— È inutile che nasconda a te la gravità della situazione, — disse al meticcio. — Stiamo per venire circondati dai cavalleggeri del maggiore d'Alcazar.
— Ebbene, ci batteremo, — rispose il ferito. — Dammi il mio fucile ed aiutami a collocarmi presso qualche finestra.
— Tu, che hai un braccio quasi immobilizzato?... No, amico, — disse Hang. — Non abbandonerai il tuo letto.
— E credi che io possa rimanere qui inoperoso, mentre tuonano i fucili?...
— Non sono gli uomini che ci mancano. Romero, uno di piú o uno di meno non gioverebbe. Sono invece le munizioni che scarseggiano.
— Possediamo poche cariche?
— Appena quattrocento cartucce.
— Risparmiando i colpi potremo resistere ventiquattro ore.
— Ma se gli aiuti tardassero a giungere?
— Ci faremo uccidere, piuttosto che arrenderci.
Hang-Tu guardò Than-Kiú. Questa lo comprese, poiché disse, con un fiero sorriso:
— Non preoccuparti di me, Hang. Se vi farete uccidere, sarò felice di morire anch'io al vostro fianco.
— Speriamo che non sia necessario farci uccidere, — disse il chinese. — Abbiamo ancora qualche scampo.
— Quale? — chiese Romero.
— Lo so io e per ora non te lo dirò. Pensavo che i cavalli potranno esserci utili e poi abbiamo d'altro.
Ciò detto, senza spiegarsi di piú, lasciò la stanza e raggiunse i suoi compagni che si erano divisi in sei piccoli gruppi, collocandosi dietro le piccole finestre mezze barricate.
— No, — diss'egli — è inutile sprecare le nostre forze ed esporci tutti al pericolo. Siamo dodici: sei risponderanno al fuoco e gli altri riposeranno. Soprattutto risparmiate le cartucce e non fate fuoco che a colpo sicuro.
In quell'istante, nel bosco, si udí rimbombare il primo sparo. La palla infilò una finestra, traversò la stanza con un acuto sibilo ed andò a scrostare la parete opposta, ma senza aver colpito alcuno.
— Non perdono i loro colpi, — disse Hang, scotendo il capo. — Fortunatamente le pareti sono solide e senza un pezzo d'artiglieria non si abbatteranno.
S'affacciò con precauzione ad una finestra e guardò fuori.
La pioggia era cessata, ma la notte era sempre oscura ed il vento ululava ancora attraverso la foresta, torcendo i rami e le grandi foglie delle piante. Attese che un lampo rompesse quelle tenebre e vide, a cinquanta passi dalla palizzata, quasi dinanzi alla barricata del cancello, alcuni gruppi di cavalleggeri, i quali si tenevano nascosti dietro ai cespugli ed ai grossi tronchi degli alberi.
Abbassando rapidamente gli sguardi prima che la livida luce del lampo cessasse, gli parve d'aver veduto, pochi passi piú innanzi, un ufficiale d'alta statura che stava osservando la cinta.
Una vampa brillò negli occhi del capo degli uomini gialli.
Si voltò rapidamente, dicendo al mulatto che gli stava dietro:
— Dammi il mio fucile.
Si accertò che era carico e lo portò attraverso i grossi rami che ostruivano parte della finestra, aspettando che un lampo gli permettesse di mirare con maggiore sicurezza.
Un altro colpo di moschetto fu sparato dagli assedianti, e precisamente contro la finestra occupata da Hang. La palla fischiò sopra la testa del chinese, ma questi rimase perfettamente immobile. Attendeva sempre, collo sguardo sanguigno fisso nelle tenebre, un secondo lampo.
E il lampo non si fece attendere, illuminando sinistramente la foresta. Hang-Tu fece udire un crudele sogghigno.
Questa volta vedeva distintamente l'ufficiale ed in lui aveva ben distinto il maggiore d'Alcazar, il suo mortale nemico.
Premette rapidamente il grilletto e fece fuoco, ma la luce erasi spenta. Si curvò innanzi tendendo gli orecchi, sperando di udire, fra i fragori della burrasca, qualche grido che annunziasse che la palla era arrivata a destinazione, ma invece rintronarono tre colpi di fucile, i cui proiettili si cacciarono nelle pareti della casa con sordo rumore.
— Morte di Buddha e di Fo!... — esclamò Hang con rabbia. — L'ho mancato!... Sarà per un'altra volta.
Gli spari degli assedianti si succedevano agli spari, ma senza precipitazione. Gli spagnuoli non facevano fuoco se non quando i lampi permettevano loro di scorgere le finestre e mandavano le loro palle entro la stanza con mirabile precisione, ma senza però ottenere effetto alcuno, poiché gli assediati si tenevano nascosti dietro gli angoli del muro o dietro i tronchi degli alberi.
Anche i meticci ed i chinesi rispondevano, ma con molta parsimonia, volendo serbare le munizioni pel momento dell'assalto. Facevano fuoco piú per far comprendere al nemico che possedevano delle buone armi e che vegliavano, che colla speranza di colpirlo, essendo l'oscurità troppo fitta ed i lampi piuttosto radi.
Pure qualche volta le palle non andavano perdute, poiché già tre grida di dolore eransi udite echeggiare nella foresta.
Ad un tratto la situazione degli assediati si aggravò. Gli spagnuoli, che fino allora si erano limitati a sparare con lentezza, avevano ripreso il fuoco con vigore, fulminando le finestre con scariche micidiali.
Le palle grandinavano in gran copia, sibilando in tutte le direzioni, scrostando larghi tratti di muro e rendendo pericolosissimi i posti occupati dai difensori. Pareva che con quelle scariche incessanti volessero nascondere qualche sorpresa. Hang-Tu, inquieto, s'affacciò ad una finestra col pericolo di farsi sfracellare il cranio ed attese che un lampo gli permettesse di conoscere ciò che il nemico stava per intraprendere. Lo seppe subito: gli spagnuoli stavano per assalire la palizzata onde cercare di abbatterla.
— La cosa diventa grave, — mormorò. — Domani cercheranno di dare la scalata alle finestre.
Chiamò tutti alle armi, comandando scariche furiose per cercare di respingerli, ma s'accorse ben presto che erano munizioni sprecate.
Alcuni gruppi cavalleggeri, mentre i loro compagni continuavano il fuoco, avevano attraversato rapidamente lo spazio scoperto ed approfittando dell'oscurità erano giunti sotto la palizzata. Volerli snidare di là ora che si trovavano riparati, non era piú il caso. Era meglio risparmiare munizioni pel domani.
Hang-Tu, fatto cessare il fuoco, tese gli orecchi per udire se il nemico si preparava ad abbattere la cinta, ma senza risultato.
Guardò al di fuori per vedere se l'aveva superata, ma nel cortile non vide alcuna ombra. Le sue inquietudini continuavano ad aumentare. Quella manovra misteriosa doveva nascondere qualche cosa di grave.
— Si vede nulla? — chiese ai suoi uomini.
— No, — risposero tutti.
— Che cosa tenteranno?...
— Capo, — disse un meticcio, — temo che ci vogliano arrostire vivi.
— Bah!... Le palizzate non bruceranno cosí facilmente e poi sono abbastanza lontane dalla casa.
— Ma il bosco abbonda di piante gommifere e possono aver accumulato dei fasci di rami dietro la cinta.
— Comincio a credere che tu abbia ragione, ma la casa è in muratura e non ci arrostiranno.
— Ma i cavalli? — disse un chinese.
— Hai ragione, — disse Hang. — sono legati solidamente?
— Sí, capo, — risposero gl'insorti.
— Allora spero che ci possano servire a danno degli assedianti.
Gettò uno sguardo sui suoi uomini e ne indicò tre, i meticci piú vigorosi e piú audaci della piccola banda.
— Tenetevi pronti a seguirmi, — disse.
— Tentiamo un'uscita? — chiesero.
— Forse qualche cosa di meglio.
Ciò detto s'accostò ad una finestra e si mise in osservazione. Il fuoco di moschetteria era cessato, ma pareva che gli uomini nascosti dietro alla cinta fossero occupati in un lavoro misterioso. Hang li udiva parlare ed udiva pure dei leggeri colpi vibrati contro la cinta. I suoi sguardi distinsero anche delle masse oscure che volteggiavano in aria e che pareva fossero lanciate dai soldati che si tenevano nascosti dietro gli alberi.
— Sí, — mormorò il chinese — si preparano ad incendiare la palizzata con fascine di rami resinosi. Il mestizo aveva ragione, ma preparerò anch'io una sorpresa.
Poi volgendosi verso i suoi uomini:
— Se gli spagnuoli cercano d'invadere il cortile, cercate di respingerli con un fuoco vigoroso. Non occupatevi per ora di me: vi raggiungerò presto.
Fece cenno ai tre meticci scelti di seguirlo. Scavalcò il davanzale d'una finestra, la quale guardava dalla parte delle tettoie e si lasciò cadere giú, quasi senza far rumore, quantunque avesse spiccato un salto di quattro metri. I suoi compagni, uno dopo l'altro lo seguirono, senza che gli assedianti si fossero accorti di nulla.
I quattro uomini si cacciarono lestamente sotto le due tettoie, dove si trovavano i sedici cavalli.
— Uditemi, — disse Hang.
Si curvò verso i compagni e mormorò ai loro orecchi alcune parole.
Tosto si misero in moto, ma nel piú profondo silenzio, eseguendo delle manovre che pel momento parevano inesplicabili.
Intanto i cavalleggeri, nascosti dietro gli alberi, avevano ripreso il fuoco, sparando contro le finestre, come se volessero attirare altrove l'attenzione degli assediati. Questi, obbedendo agli ordini del capo, avevano subito risposto con molto vigore, mirando là dove vedevano balenare la polvere.
Ad un tratto dietro la cinta fu vista innalzarsi una luce vivissima, la quale si distendeva rapidamente tutta all'ingiro. Delle vampe, dei nuvoloni di fumo e delle scintille che il vento spingeva verso la casa, sorgevano da tutte le parti.
La palizzata, che doveva essere stata circondata da grandi fasci di rami resinosi, quantunque fosse stata inumidita dalla pioggia, aveva preso fuoco ed i grossi tronchi cominciavano a cadere.
Gli assediati, temendo che il nemico si precipitasse all'assalto o cercasse di metter fuoco anche al fabbricato, sparavano precipitosamente, approfittando della luce sparsa dall'incendio. Le loro palle non andavano perdute poiché, di quando in quando, qualche soldato troppo coraggioso che si spingeva fuori dagli alberi per sparare con maggiore precisione, cadeva fulminato.
Intanto le palizzate avvampavano con violenti crepitii allungando minacciosamente le loro lingue di fuoco verso la casa, con grande pericolo di appiccarsi al tetto. I pali, consunti e carbonizzati, cadevano a due, a tre alla volta, lanciando in aria lembi di scintille che il vento trascinava attraverso gli alberi della foresta come miriadi di stelle, e colonne di fumo le quali entravano per le finestre costringendo i difensori a ritirarsi ed a rallentare gli spari.
Hang-Tu ed i suoi tre compagni non davano intanto segni di vita, però ai bagliori dell'incendio si erano veduti i sedici cavalli allineati su due file sotto la prima tettoia, colla testa volta verso le palizzate. Le povere bestie, atterrite dalla vicinanza delle fiamme, nitrivano disperatamente e s'impennavano, ma pareva che un ostacolo impedisse loro di rompere le linee, per quanti sforzi facessero.
La moschetteria continuava. D'ambo le parti gli spari si succedevano senza tregua, ma con piú fracasso che danno, essendo gli assediati e gli assedianti al pari riparati.
Questi ultimi però, dopo qualche po' furono visti abbandonare gli alberi protettori, organizzarsi rapidamente su tre piccole colonne e avanzarsi celermente verso la casa sostenendosi con un fuoco infernale.
La cinta che si estendeva dinanzi alla piccola fattoria, consunta dal fuoco, era tutta crollata e permetteva l'attacco. Vi erano ancora dei pezzi di palizzata che finivano di bruciare, ma non erano certamente ostacoli insormontabili per gli agili soldati spagnuoli.
I meticci ed i chinesi cercavano di respingerli con furiose scariche, ma senza risultato. Forse la mancanza dei due coraggiosi loro capi li rendeva perplessi ed il timore cominciava ad invaderli.
D'improvviso, in mezzo allo scrosciare dei fucili, si udí tuonare la voce di Hang.
— Lasciate andare!...
Furono tosto veduti i tre meticci che lo avevano seguito, lanciarsi presso i cavalli colle destre armate di coltelli, poi recidere prontamente qualche cosa, forse delle corde.
I sedici cavalli che parevano diventati improvvisamente pazzi, si scagliarono innanzi con impeto irresistibile, varcando con un solo salto i tronchi ancora fiammeggianti.
Piombarono come un plotone serrato contro le tre colonne degli spagnuoli che si erano riunite e le sfasciarono mandando tutti a gambe levate, poi scomparvero nella foresta continuando la loro furiosa carica.
Hang-Tu ed i suoi compagni, vedendo i cavalleggeri fuggire disordinatamente in tutte le direzioni, scaricarono i loro fucili, poi inerpicatisi sul tetto della prima tettoia, guadagnarono la finestra piú vicina, salvandosi nella stanza superiore.
In quell'istesso istante, Romero, sorretto da Than-Kiú, era comparso sulla soglia della porta. Udendo quella furiosa fucilata, accorreva per prendere parte alla lotta.
— Ci assalgono? — chiese ad Hang.
— No per ora, — rispose il chinese, ridendo. — Ho mandato sottosopra le loro colonne d'assalto. Guarda Romero.
Il meticcio vide realmente, agli ultimi bagliori dell'incendio, gli spagnuoli che si salvavano precipitosamente nel bosco, credendo forse che dietro i cavalli vi fossero gli insorti.
— Fuggono!... — esclamò, stupito. — Ma cos'hai fatto?
— Una cosa semplicissima, — rispose il chinese. — Ho legato i nostri cavalli passando una corda nei loro morsi onde non si disperdessero, poi li ho resi furiosi cacciando nei loro orecchi un po' di cenere calda e li ho lasciati andare. Nessuno poteva resistere ad una simile carica e, come vedi, hanno sgominato i cavalleggeri del nostro maggiore.
— Ma i nostri cavalli sono perduti.
— Non potevano esserci piú di nessuna utilità, poiché se delle bande non verranno a liberarci, noi non potremo piú lasciare questa casa. Va a riposarti, Romero; credo che per questa notte gli spagnuoli ci lasceranno tranquilli.