Le stragi della China/19. La prigione nera
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19.
La prigione nera
Il giorno seguente, qualche ora prima che il sole tramontasse, un drappello composto di cinesi che indossavano gli sfarzosi costumi degli abitanti delle regioni meridionali, in seta a fiorami di tinte forti, bottoni d’oro e lapislazzuli, s’arrestava dinanzi alla porta meridionale della città tartara, al principio del ponte di pietra gettato sul fossato.
Vi erano il capo della Croce gialla, il signor Muscardo, Enrico, Sheng e otto cinesi di forme robustissime, otto affigliati, scelti fra i più coraggiosi ed i più forti di tutta la società.
I soldati manciù che vegliavano dinanzi alla porta, vedendo avanzarsi quel drappello, avevano puntate contro di esso due mitragliatrici, mentre davano l’allarme al corpo di guardia che si trovava sul torrione sovrastante.
Un ufficiale, vestito di panno azzurro a bordi color d’arancio, con stivali altissimi di feltro nero, ed il capo coperto da un elmetto di ferro, adorno d’un fiocco di seta rossa, mosse incontro al drappello, tenendo in pugno la scimitarra.
— Che cosa volete voi? — chiese.
— Attendiamo i boxers per entrare con loro — disse il capo della Croce gialla, facendosi avanti. — Noi siamo rappresentanti degl’insorti delle provincie meridionali.
— Avete un ordine di entrata?
— Sì, firmato da Sum, capitano della guardia imperiale.
— Lo conosco.
— Allora prendete — disse il capo, porgendogli il biglietto. — È esatto e porta il sigillo del capitano.
— Gli è che questa sera il nuovo imperatore non potrà ricevervi. Egli non è stato avvertito della vostra presenza in Pechino.
— Ci accamperemo dentro le mura e aspetteremo domani.
— Avete qualche conoscenza in città.
— Siamo noti a uno dei vostri mandarini, a Ping-Ciao — disse il capo con voce risoluta, deciso già a tutto tentare pur di riuscire nel suo disegno. — Anzi andremo ad alloggiare da lui.
— Se Ping-Ciao ed il capitano Sum vi conoscono, non mi assumo la responsabilità di respingervi. Entrerete coi capi boxers e si avvertirà frattanto l’imperatore.
I dodici rappresentanti degl’insorti delle provincie meridionali, si ritrassero fino ad un gruppo di lauri, sedendosi su alcune rovine per attendere l’arrivo dei capi boxers.
— È fatto — disse il capo della Croce gialla al signor Muscardo che gli si era seduto accanto. — La partita che abbiamo giuocata sembra che sia favorevole per noi.
— Che non si abbia alcun sospetto?
— La carta di Sum ci copre.
— E se l’ufficiale facesse avvertire Ping-Ciao?
— Allora per noi la sarebbe finita. Tuttavia non credo che si prenda questo disturbo, specialmente in questo momento. Quando lo farà, noi saremo già entrati nella casa del mandarino.
— Quanto mi sembrano lunghe queste ore! Ogni momento che passa è un martirio di più per mio fratello. Tre giorni senza mangiare! Miserabile Ping-Ciao!
— Non è più che questione di ore.
— Agiremo subito?
— Questa notte stessa — rispose il capo della Croce gialla.
— E se il colpo mancasse? — chiese il signor Muscardo con angoscia.
— Wang è già partito da ventiquattro ore e per lo meno domani sarà qui.
— E se i tuoi corrieri non l’avessero trovato?
— Ho dato a loro indicazioni esatte.
— Potrebbe essersi recato altrove in questi giorni.
— Non andiamo a cercare l’improbabile.
— Che atroce situazione! Ho il cuore che sanguina pensando alla fame che strazia le viscere al mio povero Giorgio.
— Vi dico che noi lo salveremo e che domani sarà libero. Ecco i capi boxers che si avanzano. Che lugubre drappello!
Sulla via che conduceva alla città cinese era comparsa una colonna fiancheggiata da uomini che portavano delle torce accese e precedute da un gruppo di musicanti che suonavano degli hiune, specie di clarino di terracotta, in forma d’uovo, con sei buchi, dei koane-tsce, sorta di flauti formati con dodici canne di bambù, di ineguali lunghezze e dei chè a venticinque corde.
Dietro ai suonatori venivano centocinquanta capi boxers, rappresentanti varie provincie del centro e del settentrione, tutti d’aspetto feroce, con elmetti di ferro e maglie di acciaio e le cinture rigonfie d’armi d’ogni specie, antiche e moderne. Poi venivano i loro aiutanti, i quali portavano sulle picche le teste ancora sanguinanti di parecchi europei catturati nell’assalto delle legazioni.
Vedendo avanzarsi quel corteo, l’ufficiale della guardia aveva fatto aprire la porta della città tartara, mentre sui bastioni laterali si schieravano due compagnie di soldati con parecchi cannoni, e diverse mitragliatrici, onde impedire qualsiasi disordine da parte di quel popolaccio che si affollava dietro i boxers urlando minacciosamente.
— Andiamo — disse il capo della Croce gialla, alzandosi. — Appena entrati ci separeremo non avendo noi nulla da fare al palazzo imperiale.
Lasciarono passare i capi ed i loro aiutanti che portavano quei lugubri trofei e s’inoltrarono risolutamente sotto la massiccia porta, mentre la folla veniva trattenuta da una compagnia di soldati manciù disposta in ordine di battaglia.
L’ufficiale che comandava il corpo di guardia non oppose alcun ostacolo, sicché il drappello poté entrare senz’altro nella città imperiale, sfilando sull’immenso viale che conduce nei giardini del palazzo abitato dall’imperatore.
Appena però giunti sotto i filari degli alberi, i quali proiettavano una fitta ombra, i dieci cinesi ed i due europei, uno ad uno si squagliarono, lasciando che i capi boxers procedessero per loro conto.
L’appuntamento era stato dato al tempio di Ti-tan, dedicato alla Terra, uno dei più vasti della città tartara, ove risiedono l’unico sacerdote e l’imperatore, il quale ogni anno si reca, con gran pompa, in un apposito recinto ad arare un campo ed a seminarlo.
I dieci cinesi ed i due italiani vi giunsero quasi nello stesso tempo, quantunque avessero preso vie diverse per allontanare qualunque sospetto sui loro progetti.
— Non manca nessuno? — chiese il capo della Croce gialla.
— No — rispose Sheng, per tutti.
— Avete le corde e gli uncini?
— Anche la scala — risposero.
— Seguitemi.
Il capo s’inoltrò in una via fiancheggiata da splendidi palazzi del più puro stile cinese e andò ad arrestarsi dinanzi ad una muraglia alta almeno otto metri, formata da blocchi di marmo e da larghe piastre di porcellana.
— Perlustrate i dintorni — comandò.
Mentre i cinesi si sparpagliavano in diverse direzioni, si volse verso il signor Muscardo ed Enrico, dicendo:
— È qui che si trova vostro fratello.
— E l’abitazione del mandarino? — chiese il signor Muscardo, con voce soffocata.
— Si trova in mezzo a questo giardino.
— Vi sarà Ping-Ciao?
— Si troverà al palazzo imperiale in questo momento onde assistere, nella sua qualità di consigliere dell’impero, al ricevimento dei capi boxers.
— Mi rincrescerebbe di non trovarmelo dinanzi — disse il signor Muscardo, con voce cupa.
— Voi pensate a vendicarvi.
— Ti dico che se me lo vedo dinanzi non lo risparmierò — disse l’ex bersagliere con ira. — Pensa che per colpa sua l’intera popolazione di Ming è stata distrutta.
— Voi farete quello che vorrete di quell’assassino. Anch’io l’odio e forse più di voi.
I cinesi ritornavano in quel momento. Avevano perlustrate tutte le vie vicine e non avevano veduto nulla di sospetto in alcun luogo.
— Gettate i ganci — disse il capo della Croce gialla.
Due cinesi sciolsero le funi che portavano annodate alla cintura, al disotto della casacca e fornite di ganci, e si provarono a lanciarle. Furono tentativi inutili, perché essendo la cima della muraglia guernita di tegole di porcellana, le punte scivolavano senza far presa.
— Me l’ero immaginato — disse il capo. — Ho fatto portare una scala di corda ed i miei uomini sono così agili da non invidiare i clowns.
— La cinta è alta assai — osservò Enrico.
— La supereremo.
Ad un segnale del capo, due cinesi, i più robusti della banda, si appoggiarono contro il muro inarcando le reni, ed un terzo, poi un quarto ed un quinto, salirono l’uno sull’altro, formando una piramide umana.
L’ultimo con uno slancio sorprendente s’era già aggrappato alla cima della muraglia mettendovisi a cavalcioni, ed aveva assicurati fortemente i due ganci della scala di corda.
— La cosa non era poi tanto difficile — disse il capo, lieto di quel felice successo. — A voi, signore.
L’ex bersagliere salì pel primo, quindi Enrico, poi tutti gli altri. La scala fu gettata dall’altra parte ed i dodici uomini scesero nel giardino che si estendeva intorno al palazzo del consigliere dell’impero.
Subito scorsero dei lumi che brillavano in mezzo alle alte piante.
— I servi sono ancora svegli — disse il capo della Croce gialla. — Attenderanno il padrone.
— Entreremo egualmente? — chiese il signor Muscardo, che non riusciva a frenare l’impazienza.
— Li sorprenderemo — rispose il capo, con tono risoluto. — I servi non opporranno molta resistenza.
Quel giardino era più spazioso di quello che avevano invaso nella città cinese ed anche più bello. Aveva ampi viali fiancheggiati da palme e da lauri grandissimi, aiuole ricche dei fiori più scelti e più profumati, serre immense abbellite di statue e coi tetti di porcellana, grotte artificiali, laghetti graziosi, ponti, chioschi e torri di marmo bianchissimo oltre una grande quantità di fontane zampillanti.
Si vedeva che il ricchissimo mandarino non aveva lesinato nella costruzione delle sue ville.
Il drappello, nel più profondo silenzio, e tenendosi celato sotto le piante dei viali, poté giungere inosservato là dove s’innalzava il palazzo, una vera meraviglia dell’architettura cinese.
Quella costruzione aveva la forma quadrata ed al centro s’innalzava in forma di piramide a più piani, con tetti arcuati e dorati, con cornicioni ricchi di fregi e d’intagli e terminava in un’asta di ferro dorato sostenente un drago grandissimo.
Ai quattro lati vi erano quattro cupolette di porcellana azzurra, una destinata alla sala degli antenati, un’altra a Confucio il celebre filosofo cinese, una terza a Buddha e la quarta al Cielo.
All’intorno poi, staccati dal fabbricato principale, si vedevano sei graziosi padiglioni di marmo, ombreggiati da alberi altissimi, dove il padrone offriva agli ospiti il thè e dove andava a riposarsi durante le ore calde.
Il capo della Croce gialla ed il signor Muscardo, si erano fermati dinanzi alla porta principale, alla quale si accedeva per mezzo d’una vasta scalinata.
— Dove si troverà mio fratello? — chiese l’ex bersagliere.
— Nei sotterranei, ha detto Sum — rispose il capo.
— Come faremo a trovarlo?
— Ce lo indicheranno i servi del mandarino.
— Cosa conti di fare?
— Entrare improvvisamente nella casa coi pugnali e le rivoltelle e terrorizzare la servitù.
— Sai quanti uomini vi sono?
— Mi sono già informato e so che non ce ne devono essere più di sei qui. Gli altri dormono in un padiglione che deve trovarsi all’estremità del giardino.
— Cerchiamo innanzi tutto d’impedire la fuga.
— Quattro dei nostri circonderanno la casa con l’ordine di far fuoco su chiunque cercasse di fuggire.
Come si vede già in tutte le case cinesi signorili, al di sotto della grande lanterna, che pendeva sulla porta, eravi un gong col relativo martello.
— Siete tutti a posto? — chiese il capo.
— Tutti — rispose Sheng.
Il capo afferrò il martello e percosse fortemente il disco metallico, il quale mandò un suono molto acuto.
Qualche momento dopo un servo si affacciò allo sportello, chiedendo:
— Chi siete?
— Ordini di Ping-Ciao.
— Come siete entrati?
— Il tuo padrone ci ha data la chiave — rispose prontamente il capo. — Apri e fa’ presto.
— Io ho avuto ordine di non aprire a nessuno.
— Vuoi che ti faccia bastonare dal tuo padrone? Ti ho detto che ci manda il mandarino.
Dinanzi a quella minaccia, il servo non esitò più. Levò la spranga e comparve sulla soglia, tenendo in mano una piccola lanterna.
Il capo fu lesto ad afferrarlo pel petto mentre gli metteva la canna della rivoltella nella gola, dicendogli con voce minacciosa:
— Se parli ti uccido!
— Signore — balbettò il povero uomo, cercando di retrocedere. — Io non vi ho fatto nulla per meritare la morte.
— Legate ed imbavagliate quest’uomo — disse il capo.
Due cinesi lo afferrarono e mentre il gigante continuava a minacciarlo con la rivoltella, lo ridussero all’impotenza.
— Gettatelo nel giardino — continuò il capo.
Quando anche quell’ordine fu eseguito, il capo, i due europei, Sheng e due affigliati salirono la scala di marmo che conduceva al piano superiore.
Appena giunti al pianerottolo, due servi, che forse avevano udito qualche rumore, cercarono di sbarrare a loro il passo.
Udendo l’intimazione e vedendo in aria rivoltelle e pugnali, ritennero opportuno non fare resistenza e si lasciarono legare ed imbavagliare dopo aver ricevuto promessa che non sarebbero stati uccisi.
— Non ve ne devono essere ancora che tre o quattro — disse il capo. — Andiamo a trovarli.
In quel momento si udirono grida minacciose partire da una stanza laterale e grida d’aiuto.
— Uccidiamo quei ladri!
— Al soccorso!
— Prendete le armi!
— Barrichiamo la porta!
Il capo della Croce gialla s’era slanciato da quella parte gridando:
— Chi non s’arrende è uomo morto!
Quattro servi gli si avventarono addosso cercando di atterrarlo, mentre un quinto gli tirava un colpo di coltello al petto.
Il signor Muscardo ed Enrico erano vicini. Mentre il primo sviava il colpo che avrebbe dovuto spaccare il cuore del capo, il secondo scaricava in alto alcuni colpi di rivoltella per spaventare gli assalitori.
Questi, vedendo che avevano da fare con persone che avevano armi da fuoco e che sembravano anche decisi a servirsene, si gettarono a terra, domandando grazia.
— Chi è di voi che funge da maggiordomo? — chiese il capo.
— Sono io — rispose colui che gli aveva vibrato il colpo di coltello.
— Legate ed imbavagliate gli altri quattro — disse il capo ai suoi affigliati.
Mentre i servi venivano condotti via, il capo puntò la rivoltella sul maggiordomo, dicendogli:
— Se menti, ti caccio in petto le sei palle che contiene quest’arma.
— Cosa volete da me? — chiese il mongolo con voce tremante.
— Sapere dove il tuo padrone ha rinchiuso il prigioniero che è stato condotto qui tre o quattro giorni fa.
— Io non ho veduto nessun prigioniero! — esclamò il maggiordomo, simulando il massimo stupore. — In questa casa non ci siamo che noi.
— Tu sei un birbante! — gridò il signor Muscardo. — Conducimi subito dal prigioniero o io ti getto dalla finestra.
— Vi assicuro signori, che siete stati ingannati.
— Ce lo ha detto Sum, il capitano della guardia imperiale, l’anima dannata del tuo padrone. Mentisci ancora, se l’osi!
— Oh! Sum ha detto questo?! — balbettò il maggiordomo, diventando livido. — Non sapevo che tradisse i segreti del mio padrone.
— C’è dunque questo prigioniero? — chiese il signor Muscardo, che non sapeva più trattenersi.
— Il cristiano è qui — rispose il maggiordomo a denti stretti.
— È vivo ancora?
— Stamane lo era.
— Canaglia! — gridò il signor Muscardo scuotendolo ruvidamente. — Egli sta morendo di fame!
— Non sono stato io signore, a sopprimergli il vitto. È stato il mio padrone che ha voluto così.
— Conducimi subito da mio fratello.
— Io non ho le chiavi, signore.
— Faremo atterrare la porta — disse il capo della Croce gialla.
— Il padrone mi ucciderà!
— E se non ti sbrighi ti ammazzerò prima io! — gridò il signor Muscardo.
Il maggiordomo, vedendo l’ex bersagliere ed Enrico impugnare le rivoltelle, comprese che non poteva più indugiare e che la sua vita era appesa ad un filo.
— Seguitemi — disse.
— Precedici! — continuò il capo della Croce gialla.
Il maggiordomo discese la gradinata di pietra e uscì nel giardino, girando attorno alla palazzina e fermandosi dinanzi ad una porticina di legno di tek, laminata di piastre metalliche.
Era d’un tale spessore e così robusta che per atterrarla ci sarebbe voluta una catapulta o per lo meno un cannone.
— La chiave! — intimò il signor Muscardo.
— Se vi ho detto che l’ha il padrone.
— Ti lascio mezzo minuto per deciderti, poi ti uccido come un cane! — gridò l’ex bersagliere.
Il maggiordomo vide brillare negli occhi dell’italiano un lampo così minaccioso, da deciderlo a non mentire di più. Si frugò nella tasca interna della casacca e la chiave venne fuori.
— Apri, miserabile — disse il capo della Croce gialla.
Il mongolo obbedì e la pesante porta girò sui cardini con un lungo cigolìo. Un tanfo pestifero sfuggì dal corridoio che s’apriva dietro la porta, facendo indietreggiare i due italiani ed i cinesi.
— Cosa si trova qui dentro? — esclamò il signor Muscardo, impallidendo.
— La buca del carcere nero — balbettò il maggiordomo.
— E mio fratello si trova in una di quelle buche?
— Lo sospetto.
— Chi ve lo ha messo?
— Il mio padrone.
— Avanti o ti scortico vivo!
Il maggiordomo che tremava di paura, accese una lanterna che si trovava appesa al muro e s’inoltrò nello stretto corridoio, il quale scendeva sotto terra.
I due italiani e gli affigliati lo seguivano col cuore stretto da un’ansietà facile a supporsi.
L’idea che il disgraziato missionario potesse trovarsi in una di quelle fetide buche che i cinesi chiamano carceri nere, aveva atterrito tutti.
Queste carceri sono pozzi scavati nel suolo, profondi otto, dieci e talvolta perfino quindici metri e riempiti fino a metà d’immondizie di ogni specie, le quali esalano odori pestilenziali.
Il condannato viene gettato là dentro e mantenutovi per parecchi mesi ricevendo quel tanto nutrimento da impedirgli di morire di fame. I disgraziati che riescono a resistere a quella spaventevole tortura, quando escono sono veri scheletri e difficilmente si rimettono in salute. I più muoiono in causa della puzza nauseante in mezzo alla quale sono costretti a vivere e che sviluppa in loro malattie mortali.
I due italiani ed i quattro affigliati affrettarono il passo, turandosi il naso.
Scesa una breve gradinata entrarono in un vasto sotterraneo umidissimo, il quale occupava una estensione eguale all’intera casa.
All’intorno, fisse nelle pareti di marmo, vi erano numerose catene ed in mezzo alla cantina s’apriva un pozzo che aveva una circonferenza di sei o sette metri ed era privo di parapetto. Era precisamente da quel buco tenebroso che uscivano quei miasmi puzzolenti.
— Il cristiano è là dentro — disse il maggiordomo.
La risposta fu un pugno tremendo scaricatogli sul cranio dal capo della Croce gialla, e che lo gettò al suolo morto.
Il signor Muscardo ed Enrico, intanto, si erano precipitati verso il pozzo gridando:
— Fratello!
— Zio!
Dal fondo di quel buco orribile s’alzò un rantolo.
— Mio fratello muore! — gridò il signor Muscardo, con voce strozzata. — Presto, una fune!
Un cinese staccò una lunga catena che era appesa al muro e la calò nel pozzo.
— Scendo io — disse il capo della Croce gialla, arrestando l’ex bersagliere che stava per calarsi.
Il gigante respinse i due italiani e s’aggrappò alla catena, portando fra i denti la lanterna che il maggiordomo aveva lasciata cadere.
Il signor Muscardo, Enrico e gli affigliati, curvi sul pozzo, lo seguivano con gli sguardi, in preda ad un’ansietà indicibile.
Quell’antro era profondo dieci o dodici metri e riempito in parte d’immondizie di già corrotte ed esalanti odori così carichi di miasmi deleteri, da rendere difficile il respiro.
Il capo della Croce gialla, vincendo la ripugnanza che lo strozzava, in pochi istanti giunse nel fondo. Un grido d’orrore gli uscì dalle labbra.
Padre Giorgio, quasi nudo, pallido, emaciato, giaceva su quel letto ributtante, ripiegato su se stesso. Se non si fosse udito un rantolo rauco che gli sfuggiva ad intervalli dalla gola, si sarebbe potuto crederlo morto.
— Padre! — esclamò il capo della Croce gialla, con voce atterrita. — Padre! Siamo venuti a salvarvi!
L’infelice aprì gli occhi che teneva chiusi e guardò, con le pupille semispente, il gigante.
— Ucci... detemi!... — balbettò con un filo di voce.
— Padre, sono venuto a salvarvi. Vostro fratello vi aspetta lassù.
— Mio... fratello — mormorò il missionario, mentre lo sguardo gli si animava. — Mio... fratello... Enrico... che li veda... muoio...
Il capo della Croce gialla si legò la catena attorno le reni, poi prese delicatamente quel magro corpo che non aveva più la forza di reggersi e se lo strinse al petto, gridando:
— Tirateci su!
I due italiani ed i cinesi radunarono le loro forze e li trassero fino all’orlo del pozzo.
Il signor Muscardo prese il moribondo e lo depose su di una stuoia che si trovava lì presso. Le lagrime gli cadevano sulle gote mentre Enrico e Sheng singhiozzavano.
— Giorgio! — esclamò l’ex bersagliere. — Mio povero fratello, tu muori!...
— Zio! — mormorò Enrico, inginocchiandoglisi vicino.
Il missionario riaprì gli occhi che aveva richiusi e li fissò sull’ex bersagliere, poi su Enrico, quindi su Sheng, mentre un dolce sorriso gli sfiorava le labbra.
— Troppo... tardi... — mormorò con voce appena intelligibile.
— Datemi qualche cosa, egli muore! — gridò il signor Muscardo.
Il capo della Croce gialla gli porse una fiaschetta contenente alcune gocce di liquore.
Padre Giorgio, vedendo che suo fratello gliela accostava alle labbra, la respinse colla mano.
— Tar... di... muoio... addio... — mormorò.
— Fratello!...
— Zio!...
Padre Giorgio alzò, con uno sforzo supremo le braccia, posò le mani sulla testa dell’uno e dell’altro, cercando un’ultima volta di sorridere. Il suo sguardo a poco a poco si spegneva, mentre dalle labbra contratte gli usciva un rantolo affannoso.
Ad un tratto cadde fra le braccia di Sheng.
— Ad... dio... — mormorò ancora.
Poi si abbandonò completamente: era morto.
— Tutto è finito — disse il capo della Croce gialla. — Giuro che vendicherò i cristiani di Ming ed il loro missionario.
Il signor Muscardo era balzato in piedi mandando un urlo feroce:
— Voglio il sangue di Ping-Ciao!... — ruggì. — Vieni, Enrico!...
Stava per slanciarsi fuori dal sotterraneo, quando nel giardino si udirono rimbombare alcuni spari, quindi si videro gli affigliati rimasti a guardia della casa, precipitarsi nel corridoio con le rivoltelle ancora fumanti.
— Stiamo per venir presi!... — gridavano. — Arriva la guardia imperiale!...