Le stragi della China/17. La caccia al mandarino
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17.
La caccia al mandarino
Il giorno seguente, appena sorta l’alba, e quando già il tuonare delle artiglierie e le scariche della moschetteria cominciavano a scemare, un membro della Croce gialla superava la cinta del giardino, presentandosi agli uomini incaricati della guardia.
— Dov’è il vostro capo? — chiese. — Devo fargli delle comunicazioni urgenti da parte del fratello di Han.
Il signor Muscardo, che non aveva potuto chiudere gli occhi durante tutta la notte, in causa della profonda eccitazione provata, sentendosi chiamare, si affrettava a scendere nella sala pianterrena, dove era stato introdotto il messaggero.
— Signore, — disse questi muovendogli incontro, — abbiamo potuto avere notizie di padre Giorgio.
— Di mio fratello? — esclamò il signor Muscardo rasserenandosi.
— Abbiamo saputo che egli si trova prigioniero in una palazzina del mandarino, verso l’angolo orientale della città tartara.
— Come avete potuto saperlo così presto?
— Uno dei nostri affigliati, servo d’un capitano della guardia imperiale, questa mattina è venuto ad avvertirci che un europeo era stato introdotto nella cinta della Vac-hi-eng.
— Può essere un altro bianco.
— No, signore. Dalle informazioni avute ci risulta che si tratta veramente del parroco di Ming, poiché era condotto da una scorta guidata da Sum e da Ping-Ciao.
— E che cosa ha deciso di fare il capo della Croce gialla?
— Di agire senza perdere tempo.
— In qual modo?
— Impedendo innanzi a tutto a Ping-Ciao ed a Sum di mettere in opera i loro tristi disegni, per lasciare tempo a Wang di giungere.
— Non ti comprendo.
— Si tratta di rapire il mandarino ed il suo compagno.
— Avete un mezzo per poter entrare nella città tartara?
— No: nessuno può varcare quelle porte se non appartiene al consiglio dell’impero o alla guardia.
— Non so indovinare allora in quale modo noi potremo impadronirci del mandarino.
— Ping-Ciao ha una casa anche nella città mongola, che visita tutti i giorni e andremo ad attenderlo.
— Si recherà colà?
— Di questo siamo certissimi.
— Come lo sapete voi?
— Uno dei nostri uomini conosce perfettamente le abitudini di Ping-Ciao.
— E se mancasse? — chiese il signor Muscardo.
— Degli affigliati sono appiattati di già a tutte le porte della città tartara e seguiranno il mandarino. Cogli avvenimenti che succedono a Pechino, è impossibile che egli rimanga rinchiuso entro la cinta, mentre si sa che è alleato dei ribelli.
— Quando tenteremo il colpo?
— Questa sera, dopo calato il sole.
— Devo venire coi miei uomini?
— Più ve ne saranno e meglio riuscirà l’impresa. Alle nove vi attendiamo alla torre di Yung-ti.
Ciò detto il messo del capo della Croce gialla partì correndo, dirigendosi verso i bastioni.
— A questa sera — disse il signor Muscardo ai suoi uomini che lo interrogavano. — Siate pronti a seguirmi.
— E saremo decisi a tutto — rispose la guida.
Durante la giornata il cannone tuonò senza posa in direzione del palazzo dell’ambasciata inglese e l’incendio, che divorava i quartieri meridionali della città mongola, non cessò un solo momento.
Gli europei, barricatisi nella legazione, resistevano ancora tenacemente, malgrado gli sforzi reiterati dei boxers e delle truppe ribelli per espugnarla e massacrarne i difensori.
Il signor Muscardo ed Enrico si erano recati più volte sul tetto risparmiato dalle bombe, per cercare di vedere qualche cosa, però trovandosi l’abitazione in una bassura, non avevano potuto scorgere altro che le fiamme ed il fumo.
Appena tramontato il sole, il drappello lasciava la casa e procedendo con precauzione, per evitare le bande dei ribelli, che aumentavano sempre, giungevano felicemente alla torre.
Il fratello di Han li aspettava alla testa di sei uomini risoluti, armati di pugnali e di rivoltelle.
— Siete giunti in buon momento — disse avanzandosi verso il signor Muscardo. — Abbiamo appena ora ricevuto buone notizie.
— Riguardanti Ping-Ciao?
— Sì — rispose il capo della Croce gialla. — Il mandarino e Sum sono usciti dalla città tartara.
— E dove si sono diretti?
— Verso la villa.
— E dove si trova?
— Presso i bastioni di Ya-an-men.
— E di padre Giorgio, sapete nulla?
— Abbiamo potuto avere anche sue notizie.
— È vivo ancora?
— Si trova rinchiuso nei sotterranei del palazzo di Ping-Ciao.
— Chi te lo ha detto?
— Un domestico del mandarino che siamo riusciti a corrompere.
— Non vi avrà ingannati?
— Siamo prudenti noi; l’uomo è rimasto in ostaggio e se avrà mentito non gli concederemo il tempo per pentirsene — disse il capo della Croce gialla con voce minacciosa.
— Che mio fratello abbia ricorso a qualche inganno per guadagnare tempo? — si chiese il signor Muscardo.
— È probabile, padrone — disse Sheng. — Noi avevamo promesso di andarlo a liberare.
— Partiamo — fece l’ex bersagliere. — Per dove passeremo?
— Gireremo al largo della legazione inglese per evitare i boxers.
— Resistono ancora gli europei?
— Sì; però si dice che manchino di munizioni e anche di viveri. La catastrofe si avvicina.
— E le truppe internazionali non si avanzano?
— Sono state arrestate a Tien-tsin da centomila cinesi.
— Un disastro completo! — esclamò il signor Muscardo, con voce angosciata. — Chi si sarebbe immaginato che questo colosso che dormiva da duemila anni, avrebbe avuto un così tremendo risveglio? Basta, lasciamo i tristi pensieri ed occupiamoci del mandarino. Se posso averlo nelle mie mani, non mi sfuggirà di certo una seconda volta.
— Andiamo — disse il capo della Croce gialla. — L’ora è propizia per sorprenderlo.
I due drappelli si fusero e lasciarono silenziosamente la torre, attraversando alcuni giardini che si estendevano dietro ad un quartiere già quasi completamente distrutto dalle fiamme.
Il quartiere che percorrevano era però battuto dai proiettili, trovandosi a breve distanza dalla legazione britannica.
Le palle di cannone attraversavano le case semidistrutte, facendo crollare i muri rimasti ancora ritti e le bombe scoppiavano sui tetti lanciando dappertutto scaglie di ferro e rottami di porcellana. Le palle di fucile poi cadevano fitte fitte con un rumore simile a quello che produce la gragnuola, quando rompe le tegole.
I cinesi camminavano curvi, tenendosi rasenti ai muri od alle cinte dei giardini per non venire colpiti da quei proiettili. Anche il signor Muscardo ed Enrico si abbassavano di frequente, udendo sibilare sopra le loro teste le palle.
La zona pericolosa fu però oltrepassata senza malanni ed il drappello poté giungere inosservato nei quartieri orientali, già in gran parte spopolati.
Colà non si vedevano più né capanne, né casette, bensì splendide ville abitate dai ricchi commercianti di Pechino. Pagando una grossa taglia avevano potuto evitare la distruzione dei loro quartieri, se non il saccheggio d’una parte dei loro palazzi.
Il capo della Croce gialla, che conosceva tutte le vie della capitale, condusse il drappello attraverso a viuzze sfondate e polverose, frequentate solamente da bande di cani affamati e si arrestò dinanzi ad una muraglia molto alta, che pareva cingesse un giardino.
— Ci siamo — disse, volgendosi verso il signor Muscardo.
— Dove? — chiese questi.
— Alla villa del mandarino.
— Che sia in casa?
— Ho saputo che questa sera doveva avere un colloquio con alcuni capi di boxers, quindi lo troveremo.
— Che vi sia anche Sum con lui?
— Lo credo.
— Avrà molti servi?
— Certo; però noi siamo in buon numero e tutti armati e ci sarà facile avere il sopravvento.
— Scaleremo la muraglia?
— Abbiamo l’occorrente per farlo.
Chiamò uno dei suoi uomini il quale sciolse una lunga fune a nodi, munita all’estremità d’un robusto gancio.
— Lancialo — disse il capo della Croce gialla.
Il mongolo arrotolò la fune, la fece girare due o tre volte in aria, poi la scagliò contro la parete.
Il gancio di ferro, abilmente gettato, si infisse sul margine superiore della muraglia, resistendo a tutti gli sforzi.
— A me il primo — disse il capo.
S’aggrappò alla fune, e puntando i piedi sui nodi, si elevò lestamente, mettendosi a cavalcioni sulla cinta.
— Vedi nulla? — chiese il signor Muscardo, a cui il cuore batteva forte.
— Sì, la villa è illuminata — rispose il capo.
— Vedi nessuno nel giardino?
— Mi sembra che sia deserto.
— Possiamo salire?
— Avanti.
L’ex bersagliere ed i suoi compagni, uno dietro l’altro, diedero la scalata alla cinta e si lasciarono cadere dall’altra parte, nascondendosi in mezzo ad una folta aiuola di peonie e di rose thee.
Il giardino di Ping-Ciao era uno dei più vasti e dei più belli che il signor Muscardo avesse veduto fino allora e ricordava, in piccole proporzioni, il famoso palazzo d’estate degli imperatori cinesi, distrutto da lord Elgin, durante la spedizione anglo-francese del 1860.
Vi erano boschetti, ponti di marmo elegantissimi, chioschi di porcellana a trafori, stagni dove si vedevano graziose barchette dorate, piccole torri, archi trionfali e statue in gran numero che ornavano i viali.
All’estremità di quella specie di parco, si innalzava una superba costruzione a doppi tetti, coperti di tegole gialle, con vasti padiglioni del più puro stile cinese, ombreggiati da lauri fronzuti e da glicinie già in fiore e con boschetti graziosi dove zampillavano fontane in vasche di marmo candidissimo.
— Una vera reggia — disse il signor Muscardo, che si era avanzato sul viale principale assieme al capo della Croce gialla.
— Ping-Ciao è uno dei più ricchi mandarini della capitale — rispose il capo.
— Come faremo a sorprenderlo?
— Non vi sono che due finestre illuminate, quindi non sarà difficile sapere dove si trova.
— Che vi sia anche Sum?
— Non potrei assicurarlo, se però lo troveremo, cadrà anche lui in nostra mano.
— E come entreremo nel palazzo?
— Vedo degli alberi che spingono i loro rami fino alle finestre illuminate. Ci risparmieranno le scale.
— Tu hai risposta a tutto — disse il signor Muscardo.
Il capo sorrise senza rispondere ed affrettò il passo.
Il drappello, tenendosi all’ombra degli alberi e procedendo nel più profondo silenzio, giunse dinanzi alla costruzione principale dove si vedevano due finestre illuminate.
Un colossale albero della canfora spingeva i suoi rami fino ai davanzali, appoggiandosi contro il muro.
— Ci servirà per dare la scalata — disse il capo della Croce gialla.
— Vedi nessuno? — chiese il signor Muscardo.
— Sì, due ombre che si riflettono sulle persiane.
— Allora i capi dei boxers se ne sono andati.
— Lo suppongo.
— Fa’ circondare la casa dai nostri uomini, onde impedire la fuga al mandarino.
— Ne terremo però cinque o sei con noi perché ci prestino mano forte.
— Sì, e fra questi che vi siano Sheng e mio figlio.
I cinesi si divisero disponendosi a varie distanze, in modo da cingere tutta la palazzina, e rendere impossibile la fuga ai suoi abitanti.
Quando il capo della Croce gialla li vide tutti a posto, s’aggrappò ai rami inferiori dell’albero della canfora e con un’agilità che non si sarebbe mai creduta in quel corpo massiccio, guadagnò il tronco. Con una mano, e quasi senza sforzo, trasse in alto l’ex bersagliere, Enrico, Sheng e due membri dell’associazione.
— Seguitemi senza far rumore — disse. — Non urtate le fronde o non riusciremo a sorprendere né il mandarino, né il capitano della guardia.
S’aggrappò ad un grosso ramo che si spingeva fino ad una delle due finestre illuminate e adagio adagio s’innalzò finché giunse all’altezza voluta. L’ex bersagliere lo aveva seguìto su di un ramo parallelo.
— Ci sono — bisbigliò il capo. — Li vedete?
Il signor Muscardo guardò attraverso le persiane.
Due uomini stavano seduti dinanzi ad un tavolo laccato ed incrostato di madreperla, sorseggiando delle tazzine di thè. Bastò un solo sguardo per riconoscerli.
— Li vedo — rispose l’ex bersagliere, digrignando i denti. — Ora non ci scappano più.
— Potete slanciarvi nell’altra finestra?
— Il mio ramo tocca il davanzale.
— Io entrerò da questa.
— Io piombo sul mandarino.
— Ed io sul capitano della guardia. Siete pronto?
— Ho già un piede sul davanzale — rispose il signor Muscardo.
— Avanti!
Aveva appena pronunziato quel comando, che le due persiane cadevano sfondate.
Il signor Muscardo ed il capo della Croce gialla si erano slanciati nella stanza colle rivoltelle in pugno, gridando contemporaneamente:
— Guai a chi si muove!
Il mandarino e Sum erano balzati in piedi mandando due grida di stupore.
— Fuggi! — gridò il capitano estraendo precipitosamente una rivoltella e facendo fuoco con precipitazione.
Ping-Ciao aveva subito approfittato di quel momento. Con un salto da tigre si era slanciato dietro ad un paravento che divideva in due la sala mentre Sum, rovesciata la tavola per impedire agli assalitori che lo seguissero, continuava a far fuoco all’impazzata, gridando:
— Al soccorso! A me, servi!
Il signor Muscardo, che era sfuggito per miracolo alle palle della rivoltella, si scagliò sul bandito e con una seggiola lo atterrò, disarmandolo.
— Tieni questo brigante! — gridò ad Enrico che si era pure slanciato nella stanza seguìto da Sheng e dai due affigliati.
Quindi si precipitò dietro al paravento assieme al capo della Croce gialla. Fatti pochi passi dovette arrestarsi dinanzi ad una parete che non presentava, almeno allo sguardo, nessuna apertura.
— Scomparso! — gridò.
— Sparito — disse il capo della Croce gialla.
— E per dove è passato? Qui non vi sono né finestre, né porte.
— Ci sarà qualche passaggio segreto.
— Non lasciamolo sfuggire!
— No, lo prenderemo ancora — rispose il capo della Croce gialla.
Col calcio della rivoltella batté la parete che era di legno con piastrelle di porcellana e udì subito, dal suono, che dietro vi era un vuoto.
— Il passaggio è qui — disse.
Indietreggiò di cinque o sei passi, poi si precipitò addosso alla parete con l’impeto di una catapulta. La spalla massiccia del gigante sfondò d’un colpo solo mezza muraglia, mettendo allo scoperto un piccolo corridoio che scendeva verso il piano inferiore.
— Seguitemi! — gridò, impugnando la rivoltella.
Dinanzi a loro vi era una gradinata scavata nello spessore del muro. La scesero a precipizio e giunsero in un secondo corridoio che, pareva passasse sotto la casa.
— È fuggito per di qui! — gridò il capo della Croce gialla.
— Avanti! Avanti!
In quell’istante una formidabile detonazione rimbombò. La casa intera fu sollevata sotto lo scoppio di una mina o di un barile di polvere e si disarticolò.
Il pavimento del piano superiore, il tetto e le pareti si sfasciarono come se fossero di carta, seco trascinando la mobilia, Enrico, Sheng, il capitano ed i due affigliati e seppellendo sotto le macerie il signor Muscardo ed il gigante.
Fortunatamente le case cinesi sono costruite con una leggerezza unica e con legname di pochissimo spessore. Diversamente la catastrofe sarebbe stata completa.
Prima che i cinesi, che circondavano la casa, avessero organizzati i soccorsi, tutti i seppelliti erano in piedi, non avendo riportate che delle leggere contusioni, causate più che altro dalle tegole di porcellana.
Di sotto le macerie alcuni servi, sorpresi nel sonno da quello scoppio violentissimo, balzavano fuori, a tutte gambe attraversando il giardino.
Il signor Muscardo ed il gigante, senza badare alle ferite, si erano slanciati innanzi colla speranza di ritrovare la galleria e di continuare la caccia al briccone. Furono costretti a fermarsi quasi subito perché l’esplosione aveva fatto crollare anche le vôlte del passaggio riempiendo il suolo di macerie.
Il terreno del giardino, per un tratto di cinquanta o sessanta metri era stato sconvolto, presentando una profonda fenditura che andava a terminare presso il muro di cinta.
— Siamo stati giuocati! — gridò il signor Muscardo, fermandosi presso la cinta.
— Non arrestiamoci qui — rispose il capo. — Forse il mandarino non è lontano.
Enrico e Sheng accorrevano in loro aiuto.
— Padre, sei ferito? — chiese il giovane con voce angosciata.
— Poche contusioni che guariranno presto — rispose l’ex bersagliere. — E tu?
— Quasi nulla.
— E Sum? Fuggito anche lui?
— È nelle mani dei nostri.
— Non lasciamo Ping-Ciao, guadagnerà troppo via — disse il capo. — Inseguiamolo!
Varcarono la muraglia e si lasciarono cadere dall’altra parte, entrando in un altro giardino. Al di là del muro scoprirono un’apertura seminascosta da alcuni cespugli di peonie.
— È uscito di qui — disse il capo. — Questo è lo sbocco del passaggio segreto.
— Dove sarà fuggito quel birbante? — si chiese il signor Muscardo.
— Cerchiamolo.
Si divisero e si gettarono in mezzo ai viali ed alle aiuole, correndo in tutte le direzioni. Alcuni cinesi erano pure giunti e si erano messi anche loro in caccia frugando i cespugli, perlustrando le macchie formate dagli alberi, salendo sui muri di cinta, visitando i chioschi ed i padiglioni e perfino i laghetti.
Quel giardino, che era annesso alla palazzina del mandarino, quantunque diviso da una muraglia, terminava in una stradicciuola deserta, non essendo fiancheggiata che da poche capanne di paglia e di fango e che sembravano disabitate.
Il signor Muscardo ed i suoi compagni la percorsero tutta sfondando le porte delle casupole e visitandole e dovettero in breve convincersi dell’inutilità delle loro ricerche.
La viuzza terminava in una delle principali arterie della città cinese, con bellissimi palazzi e ville ed una infinità di case e casette. Come proseguire le ricerche in quel caos d’abitazioni? Sarebbe stata una follia e non senza pericolo, potendo essi venire scambiati per saccheggiatori e presi a colpi di fucile.
— Ogni altra ricerca è vana — disse il capo della Croce gialla, con accento scoraggiato. — Ping-Ciao non si raggiungerà più.
— Dove si sarà rifugiato quel bandito? — si domandò il signor Muscardo con ira.
— Temo che sia andato a chiedere aiuto ai boxers.
— Che ritorni?
— Certo e noi faremo bene a non attenderlo per non farci prendere.
— Vuoi abbandonare la città?
— Se ci preme la vita, andiamocene subito. Ping-Ciao non abbandonerà Sum.
— E mio fratello? Ping-Ciao lo ucciderà per vendicare il capitano.
— Non lo farà perché noi lo avvertiremo, che se tocca un capello al missionario, noi uccideremo Sum.
— Puoi farlo?
— Abbiamo degli ufficiali nella città tartara e s’incaricheranno loro di farlo sapere al mandarino. Ritorniamo subito prima che giunga qualche banda di ribelli.
La prudenza consigliava di non fermarsi troppo a lungo in quel luogo. Il mandarino, che doveva avere già riconosciuto il signor Muscardo, anche sotto le vesti mongole, doveva certamente ritornare per tentare di catturarlo.
Rivarcarono adunque la cinta e tornarono alla villa.
La casa non era che un ammasso di rovine. La mina fatta scoppiare dal mandarino per proteggere la propria fuga, aveva fatto crollare perfino i padiglioni laterali ed i chioschi vicini.
Per fortuna Muscardo ed il capo si erano indugiati un po’ dinanzi alla parete; diversamente sarebbero stati infallantemente uccisi dall’esplosione.
Quando ritornarono, trovarono Sum ben legato ed imbavagliato. Il briccone, quantunque avesse tutto da temere dai due italiani, mostravasi così tranquillo come se il caso non fosse suo.
— Più tardi parlerai, furfante! — gli disse il signor Muscardo, minacciandolo col pugno! — Pel momento non abbiamo tempo da perdere.
Sum alzò le spalle.
— Come faremo a condurlo con noi? — chiese Enrico.
— Cerchiamo una portantina — disse il capo della Croce gialla. — Ne troveremo qualcuna fra le macerie.
Frugando fra i rottami, riuscirono infatti a trovarne una ancora in ottimo stato.
I cinesi fanno anche oggidì molto uso di queste portantine che chiamano kien e ne hanno di bellissime. Sono molto comode, eleganti, leggere, coperte da persiane e da tende di seta, con bastoni molto elastici.
Sum fu cacciato dentro la kien senza che opponesse resistenza, poi il drappello partì, di corsa, temendo di venire da un momento all’altro assalito dal vendicativo mandarino.
— Dove andiamo? — chiese il signor Muscardo, al capo della Croce gialla.
— La vostra casa è sicura? — chiese il gigante.
— Si trova fra ville disabitate e mezze distrutte.
— Andiamoci, così eviteremo di passare nei dintorni della legazione inglese e di farci crivellare dalle palle. E tu, corri — disse poi, rivolgendosi verso uno degli affigliati — corri ad avvertire Yen, raccontagli ogni cosa e digli che faccia sorvegliare le porte della città tartara.