Le stragi della China/15. La fuga

15. La fuga

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14. Il supplizio dei pettini 16. Gli orrori di Pechino

15.

La fuga


Il signor Muscardo, a cui la rabbia ed il dolore avevano fatto girare il capo, udendo quelle parole aveva cessato di opporre resistenza.

— Un capo della Croce gialla! — aveva esclamato. — L’uomo di cui mi aveva parlato la giovane cinese! Vedremo cosa saprà fare!

Il carnefice, sapendosi forse sorvegliato, trascinava brutalmente il prigioniero minacciandolo con pugni e caricandolo d’ingiurie. Quando lo vedeva arrestare per dare un ultimo sguardo a padre Giorgio, che veniva condotto verso un’altra capanna, lo spingeva ruvidamente sagrando come un ossesso e raddoppiando le minacce.

A vederlo si sarebbe detto che avesse una smania feroce di fargli provare il supplizio dei pettini in surrogazione del missionario, scampato così miracolosamente a quell’atroce supplizio.

Quando però giunsero alla capanna, lontani dagli sguardi degli aiutanti, delle sentinelle e di Ping-Ciao, il capo della Croce del Pei-ho disse al prigioniero, con voce dolce:

— Perdonate se io vi ho trattato duramente: ho dovuto agire così per non suscitare sospetti.

— Vedi che io non mi lagno — rispose l’ex bersagliere. — Cos’è che hai da dirmi?

— Che tutto è pronto per la vostra fuga.

— Non m’inganni tu! — esclamò il signor Muscardo che non voleva ancora credere a tanta fortuna.

— Vi ho detto che io sono un capo della Croce gialla. Ho già salvato il missionario perché senza di me, a quest’ora il suo corpo sarebbe stato tagliuzzato prima del ritorno del mandarino. A mezzanotte io sarò qui e vi darò le ultime istruzioni.

— Vi sono due banditi del mandarino che vegliano presso questa capanna.

— Farò mettere doppia dose di oppio nelle loro pipe e quando io tornerò qui essi dormiranno profondamente. Silenzio, siate prudenti ed attendetemi.

Lo spinse bruscamente dentro la capanna mettendogli, nell’istesso tempo, qualche cosa sulla kangue, poi chiuse la porta con fracasso.

Enrico e Sheng, che aspettavano il suo ritorno in preda ad angosce mortali, udendo la sua voce, avevano esclamato:

— E padre Giorgio? È ancora vivo?

— Silenzio, ragazzi — rispose il signor Muscardo. — Sì, egli è ancora vivo e pel momento non corre alcun pericolo.

— E tu, padre?

— Nessuno mi ha toccato, anzi torno con un coltello od un pugnale che servirà a tagliare le canne delle vostre gabbie.

— Chi te lo ha dato?

— Il capo dei carnefici.

— Non comprendo nulla — disse Enrico.

— Egli è quel capo della Croce del Pei-ho di cui ha parlato la giovane cinese.

— E veglia su di noi?

— Fa qualche cosa di meglio, ragazzo mio; egli ha preparato la nostra fuga.

— E verrà con noi anche padre Giorgio? — chiese Sheng.

— No, egli è nelle mani del mandarino, e se noi non glielo strapperemo, pagherà per tutti.

Poi, accoccolatosi fra le due gabbie raccontò ai giovani quanto era avvenuto e dello stratagemma inventato per salvare momentaneamente la vita al missionario, riuscito però solamente in parte.

— Padre Giorgio viene condotto a Pechino! — esclamò Enrico, con angoscia. — Allora egli è perduto!

— Ci andremo anche noi e tutto tenteremo per salvarlo. Forse le ambasciate non sono ancora state distrutte dai boxers e dagli imperiali e col loro appoggio noi potremo mettere a posto anche un consigliere dell’impero.

— E se tutti i rappresentanti delle nazioni fossero stati trucidati?

— Allora agiremo da soli. Ci camufferemo da cinesi, ci faremo anzi credere dei boxers fanatici per non venire riconosciuti ed una volta entrati nella capitale, vedremo cosa si potrà fare. Io sono deciso a tutto, anche a pugnalare Ping-Ciao ed il suo dannato compagno, quell’odioso Sum che è il suo ispiratore.

Si abbassò e piegata la kangue, fece rotolare nella gabbia di Enrico il coltello datogli dal capo della Croce del Pei-ho, un’arma solidissima, foggiata a pugnale, colla lama leggermente ricurva.

— Taglia le tue canne — disse. — Poi darai la libertà anche a Sheng.

— E se qualche guardiano entrasse?

— Scivolerete nelle vostre gabbie. Fa troppo scuro qui perché qualcuno possa accorgersi se manca qualche canna.

— E tu come ti libererai dalla kangue?

— Troveremo il modo d’aprirla — disse Sheng.

— Solamente all’ultimo momento — osservò il signor Muscardo. — È troppo visibile per potermene sbarazzare senza che gli altri se ne accorgano. Presto, tagliate le canne e non dovrete camminare che quando sarà giunto l’istante di andarcene.

Enrico aveva impugnato il coltello e, quantunque la gabbia fosse così stretta da impedirgli quasi di muoversi, si era messo alacremente all’opera. I bambù hanno le fibre assai resistenti, però il coltello tagliava come un rasoio.

Bastarono pochi colpi per recidere tre canne e ottenere un varco sufficiente per lasciar passare un corpo umano.

Enrico si trascinò fuori e cercò di alzarsi. Le sue gambe invece gli si piegarono e cadde al suolo.

— Padre! — esclamò con ispavento. — Non posso reggermi in piedi. Le mie membra sono rattrappite!

— Sheng ti riattiverà la circolazione del sangue — rispose il signor Muscardo. — Io lo sapevo che le forze ti sarebbero mancate e perciò ti ho consigliato di agire subito. Poche fregagioni basteranno per rimetterti in gambe. A te, ora Sheng.

Le traverse della seconda gabbia caddero ed il giovane cinese poté lasciare la sua angusta prigione. Più elastico e più resistente dell’europeo, poté non solo mantenersi ritto, ma anche aiutare il padroncino a riacquistare le proprie forze, mediante un massaggio molto energico.

Intanto il signor Muscardo si era messo in osservazione dietro ad una fessura della parete, spiando ansiosamente l’arrivo del capo della Croce del Pei-ho.

Tutte le lanterne erano state spente nel recinto ed ogni rumore era cessato. Solamente di tratto in tratto si udiva qualche lamento mandato dagli uomini condannati a morire di fame.

Dinanzi alla capanna, i due banditi posti a guardia dei prigionieri, fumavano in piccole pipe di conchiglia, col cannello lunghissimo. Dall’odore del fumo, il signor Muscardo capì che aspiravano l’oppio, quel narcotico velenosissimo che è anche oggidì largamente usato dal popolo cinese, malgrado i severi divieti del governo imperiale.

— Che quel rappresentante della Croce gialla abbia mantenuta la parola? — si chiese il signor Muscardo. — Mi pare già che questi due miserabili non si reggano più e che comincino a sognare.

L’oppio somministrato in dose doppia ai due guardiani, cominciava realmente a fare il suo effetto. I due fumatori si erano già sdraiati al suolo e agitavano le braccia come se cercassero di afferrare delle visioni volteggianti attorno a loro.

Ancora qualche minuto e dovevano cadere in un profondo letargo.

— Dormono — disse ad un certo momento il signor Muscardo, volgendosi verso Enrico ed il giovane cinese. Il momento della fuga si avvicinava.

Nell’istesso tempo scorse un’ombra umana che si avvicinava lentamente, con infinite precauzioni.

Era sorta dietro ad una catasta di legna che si trovava a breve distanza dai due guardiani.

Dall’alta statura, il signor Muscardo la riconobbe subito.

— Il capo della Croce del Pei-ho — disse con voce soffocata dall’emozione. — Enrico, Sheng, l’ora della liberazione sta per suonare.

Il vecchio cinese si accostò ai due guardiani, per accertarsi se dormivano, poi li spinse col piede senza che essi facessero alcun movimento.

Rassicurato pienamente sugli effetti dell’oppio, tirò destramente il catenaccio ed aprì la porta, dicendo:

— Eccomi! Io ho mantenuto la mia promessa.

— Grazie! — rispose il signor Muscardo. — Io non avevo dubitato di te: e mio fratello, il missionario?

— È partito da due ore, con Ping-Ciao e Sum, sotto buona scorta.

— Per la capitale?

— Sì.

— Rinchiuso nella gabbia?

— No, in una lettiga.

— E...

— Silenzio, pensiamo a voi, ora. Non ho tempo da perdere.

— Siamo ai tuoi ordini.

— Tutti dormono nel campo e anche il villaggio è deserto, essendo le bande dei ribelli partite per la capitale. Si dice che si sia impegnata una fiera battaglia contro gli europei rinchiusi nelle ambasciate, ed una parte delle truppe imperiali incaricate di proteggerli e che l’imperatrice sia stata avvelenata. Pechino è in fiamme ed il sangue scorre a fiumi. Sapete ove si trova il ponte di Palikao?

— Lo so io — rispose Sheng.

— Sotto il ponte siete aspettati da alcuni affigliati della Croce gialla. Troverete tre cavalli e tutto l’occorrente per travestirvi da mongoli. Non avete che da rispondere alla parola d’ordine.

— E quale?

— Cristo e Croce gialla. Seguirete, poi, il Pei-ho che pel momento non è guardato che da poche orde di ribelli e cercherete di guadagnare Tien-tsin dove troverete truppe europee. Mi hanno detto che colà si combatte e con vantaggio dei vostri.

— Noi non vogliamo andare a Tien-tsin, bensì a Pechino — disse il signor Muscardo. — Dobbiamo salvare il missionario.

— Io vi ammiro — rispose il rappresentante della Croce gialla. — Al vostro posto altri non avrebbero indugiato a fuggire verso la costa.

— Io non posso abbandonare mio fratello nelle mani del mandarino.

— Andate incontro ad una morte certa e non so se troverete ancora il capo della Croce gialla per salvarvi.

— Siamo decisi ad affrontare tutti i pericoli pur di liberarlo.

— Voi siete coraggiosi e generosi. Avete appoggi a Pechino?

— Le ambasciate.

— Forse a quest’ora non sussistono più — disse il vecchio mongolo con voce triste. — Conoscete Pechino?

— Sì, avendola visitata più volte.

— Sapete dove si trova la porta di Yung-ti?

— La conosco.

— Presso quella porta si trova una torre quadrata, a cinque piani, colle tegole di porcellana rossa e sormontata da un drago giallo. È là che si radunano i membri della Croce. Chiederete a nome mio del capo Tuan ed avrete aiuti e consigli. È inutile che vi rechiate colà di giorno; non trovereste nessuno.

— La parola d’ordine?

— Sempre Cristo e Croce gialla.

— Il tuo nome?

— Han, capo della Croce del Pei-ho.

— Cosa posso fare ora per te? Ho molto oro nella mia cintura, prendine quanto ne vuoi.

— L’oro può essere più utile a voi che a me — disse il vecchio cinese, con un sorriso. — A me basta di aver compiuta una buona azione e di aver strappato tre cristiani ad una morte atroce.

— E non correrai pericolo rimanendo qui?

— Non temete per me: nessuno diffida.

Si tolse dalla cintura una piccola chiave e aperse la kangue che cingeva il collo dell’ex bersagliere.

— Andate — disse poi. — Siete liberi.

Quindi, prima che il signor Muscardo, Enrico e Sheng avessero potuto ringraziarlo, s’allontanò a rapidi passi scomparendo fra le tenebre.

— Fuggiamo! — esclamò il signor Muscardo. — Puoi camminare, Enrico?

— Le mie gambe hanno ripreso la loro elasticità, padre — rispose il giovane.

— Allora partiamo senza indugio.

Si slanciarono verso la porta rimasta aperta. Le sentinelle russavano sonoramente senza fare il più lieve movimento ed il recinto era oscuro e deserto.

Anche Han, il capo della Croce del Pei-ho, era scomparso.

— Disarmiamo questi banditi — disse l’ex bersagliere, accostandosi alle due sentinelle. — Almeno potremo difenderci nel caso che la nostra fuga venisse scoperta.

V’erano due fucili di vecchio modello, ad avancarica, ancora in ottimo stato e due scimitarre.

I fuggiaschi se ne impadronirono, levarono ai due addormentati le munizioni, poi si diressero verso la cinta.

Stavano per raggiungerla, quando udirono una voce lamentevole gridare:

— Un pezzo di pane! Muoio!

Era uno dei dodici disgraziati condannati a perire lentamente di fame.

— Sì, uscite anche voi — disse il signor Muscardo. — Siete cristiani al pari di noi.

Afferrò la scimitarra e con tre o quattro colpi spezzò alcune canne.

I compagni del misero che aveva domandato un pezzo di pane, destati da quei colpi, erano balzati in piedi, credendo che si volesse ucciderli.

— Salvatevi — disse il signor Muscardo.

I dodici prigionieri si erano slanciati attraverso all’apertura come bestie feroci.

— Silenzio! — comandò il signor Muscardo, con voce minacciosa.

— Signore — disse uno di quei miserabili. — Voi fuggite?

— Sì, e vi consiglio di fare altrettanto.

— Permetteteci di seguirvi.

— Venite, se così vi piace.

— Grazie, signore: la nostra vita vi appartiene.

— Avete forze sufficienti per camminare?

— Potremo resistere fino all’alba.

— Venite, e silenzio!

La cinta era poco elevata. L’ex bersagliere con un salto raggiunse la cima e vi si pose a cavalcioni per aiutare Enrico e Sheng che non potevano giungervi.

Il passaggio si compì senza difficoltà e senza che alcuno se ne fosse accorto. I dodici cinesi avevano già varcata la cinta senza bisogno del soccorso, quantunque la fame li avesse ridotti in così miserando stato da gareggiare cogli scheletri.

Al di là della cinta tutti si erano fermati per vedere se vi erano sentinelle che potessero dare l’allarme o contrastare la fuga.

I cinesi si erano gettati a terra mettendosi a strisciare come serpenti. Il signor Muscardo li aveva imitati, dicendo ad Enrico ed a Sheng:

— Lasciamoci guidare da costoro.

— Io non scorgo alcuna sentinella, padre — disse Enrico. — Anche le case sono tutte buie e silenziose.

— Non fidiamoci di questa calma.

I cinesi, sempre strisciando, attraversarono un prato che si estendeva dietro il recinto e raggiunsero un vecchio bastione diroccato dalle artiglierie francesi durante la famosa spedizione del 1860, e scesero nel fossato che si prolungava in direzione del Pei-ho.

— Dove ci conducete? — chiese il signor Muscardo, accostandosi ad uno di quegli affamati.

— Vi conduciamo fuori della borgata, signore — rispose l’interrogato. — Seguendo il bastione siamo certi di non incontrare nessuno.

— Io debbo andare al ponte di Palikao ove sono atteso.

— Venite con noi.

— Fermi — disse in quel momento il capo-fila, che s’era inoltrato già nel fossato.

I quindici fuggiaschi si arrestarono, aggomitolandosi fra l’erba fitta che cresceva sulla scarpa.

L’ex bersagliere aveva prestamente raggiunto il capo-fila, armando il fucile.

— Cos’hai veduto? — gli chiese.

— Vi è una sentinella sul bastione.

— Dove?

— Proprio sopra di noi.

— Ti ha veduto?

— Non mi sembra.

— Prendi questo coltello — disse il signor Muscardo dandogli quello che gli aveva regalato il capo della Croce del Pei-ho.

— Saprò farne buon uso al momento opportuno — disse il cinese.

L’ex bersagliere s’era alzato adagio adagio, guardando la cima del bastione.

Un’ombra umana passeggiava presso il margine superiore, voltandosi ogni dodici o quindici passi. Teneva sulla spalla un fucile od una picca.

— Ecco un uomo che ha voglia di andarsene all’altro mondo — borbottò il signor Muscardo.

— L’avete veduto? — chiese il capo-fila.

— Sì — rispose l’ex bersagliere. — Potremo passare senza che ci scorga?

— È impossibile e darebbe l’allarme.

— Un grido sarebbe la nostra perdita.

— La nostra morte, signore, e fra i più spaventevoli supplizi.

— Cosa fare? Tornare indietro e cercare un’altra via?

— Saremmo costretti ad attraversare la borgata e non risponderei più della nostra salvezza.

— Non possiamo rimanere qui fino all’alba.

— Vado ad ucciderlo — disse risolutamente il cinese.

— Tu, così debole?

— Ho ancora forza bastante per trucidare quell’uomo. Se manco al colpo, fuggite subito verso il fiume e cercate di nascondervi a bordo di qualche giunca. So che ve ne sono molte ancorate presso la riva.

— Vuoi la mia scimitarra?

— Preferisco il coltello che mi avete dato.

— Va’ e fa’ presto; prima che sorga l’alba dobbiamo essere sulla via che conduce a Pechino.

In quel luogo il bastione formava un angolo che era molto diroccato. Una vera spaccatura, prodotta forse dallo scoppio di alcune granate o d’una mina, lo aveva diroccato dalla base alla cima.

Il cinese si cacciò silenziosamente in quella fenditura che l’angolo del bastione rendeva molto oscura e si mise ad arrampicarsi coll’agilità d’una scimmia, guardando attentamente dove posava i piedi e le mani per non far cadere qualche sasso e richiamare l’attenzione della sentinella.

Il signor Muscardo ed Enrico lo seguivano con gli sguardi, pronti a soccorrerlo ed anche a far uso dei loro fucili se fosse stato necessario.

Una viva ansietà si era impadronita di loro, dipendendo dall’audacia e dall’astuzia di quel cinese, la loro libertà e anche la loro vita.

Il capo-fila agiva con una prudenza ammirabile. Ogni momento si fermava, incrostandosi, per modo di dire, contro il bastione e tenendosi sempre all’ombra.

Quando la sentinella gli volgeva le spalle allontanandosi, affrettava la salita, per poi arrestarsi di nuovo quando udiva il passo ad avvicinarsi.

Ad un certo momento il signor Muscardo ed Enrico lo videro comparire sul margine del bastione. La sentinella gli aveva appena allora voltate le spalle.

Rapido come la folgore, il cinese si slanciò. Si udì in alto un sordo gemito, poi un corpo umano piombò nel fossato come sacco di stracci.

— È il nostro cinese o la sentinella? — si chiese il signor Muscardo, balzando in piedi.

— È l’uomo che vegliava — rispose Enrico. — Ecco il nostro cinese che ritorna.

Il capo-fila scendeva rapidamente lungo la spaccatura, portando con sé la picca che aveva strappato alla sentinella.

— È fatto — disse. — Il passo è libero.

— Che pugno solido hai tu! — disse il signor Muscardo. — La fame non ha ancora indebolito i tuoi muscoli.

Il drappello si rimise a strisciare seguendo sempre il fossato, il quale girava dietro le ultime case della borgata.

Giunti all’estremità del bastione, i quindici fuggiaschi risalirono la scarpa e si gettarono in mezzo ad un campo coltivato a gelsi.

Ormai erano fuori del borgo e potevano considerarsi salvi, non essendovi alcun accampamento da quella parte.

— Dov’è il ponte? — chiese il signor Muscardo al capo-fila.

— A venti minuti di strada da qui — rispose il cinese.

— Andiamoci subito; fra due ore spunterà l’alba.

— Chi vi aspetta?

— Sei cristiano tu, innanzi tutto?

— Sì, signore.

— Ed i tuoi compagni?

— Lo sono pure. Appartenevano alla parrocchia di Yang-fu.

— È stato ucciso il vostro missionario?

— Lo hanno asperso di petrolio e abbruciato fra i rami d’un albero.

— Allora posso dirti che sono atteso da alcuni affigliati della Croce gialla.

— Conosco questa società formatasi per difendere i cristiani e gli stranieri. Col suo appoggio non avrete da temere e vi proteggerà fino alla costa.

— Noi non andiamo alla costa — disse il signor Muscardo.

— Dove volete andare?

— A Pechino.

Il cinese lo guardò con istupore.

— Voi ignorate che i boxers devastano la capitale!

— So che l’anarchia regna in città e che vi si commettono stragi orrende.

— E voi invece di fuggire verso Tien-tsin andate colà!

— Devo salvare una persona che mi è cara, mio fratello, che era missionario a Ming.

— I boxers vi riconoscerebbero subito per un europeo e non vi risparmierebbero.

— Tutto è pronto per trasformarci in mongoli.

— Vi esporreste egualmente a gravi pericoli.

— Sono deciso a sfidare la morte pur di salvare mio fratello e strapparlo dalle mani di Ping-Ciao.

— Il consigliere dell’impero!

— Sì, il mandarino. Credi impossibile che io possa giungere a Pechino?

Il mongolo non rispose: rifletteva.

— Sì, — rispose dopo qualche istante, — sarebbe possibile ad una condizione. Mi permettete di darvi un consiglio?

— Parla liberamente.

— Fatevi credere un boxer di ritorno da una spedizione. Noi saremo i vostri prigionieri.

— Non ti capisco.

— Un capo boxer che si trascina dietro cinque o sei prigionieri non potrà destare sospetti. Voi ed i vostri due compagni e qualcuno di noi, vi fingerete ribelli; gli altri, solidamente legati, passeranno per cristiani presi in qualche villaggio.

— Si esporrebbero a dei gravi pericoli.

— Cosa importa? Eravamo condannati a morire di fame e voi ci avete data la libertà, quindi la nostra vita vi appartiene. D’altronde voi ci proteggerete almeno fino a Pechino. Solamente ricorrendo a questo stratagemma voi potreste entrare in città senza destar sospetti. Diversamente non risponderei della vostra esistenza.

— Sì — disse Sheng, che aveva assistito a quel colloquio. — Questo è l’unico mezzo di giungere a Pechino e per ingannare anche Ping-Ciao. Se voi lo vorrete, padrone, prenderò anch’io il posto d’un prigioniero.

— È inutile — disse il capo-fila. — Ve ne sono perfino troppi e una parte di noi dovranno fingersi ribelli. Non sarebbe credibile che tre uomini potessero averne presi dodici. Ecco il ponte: avanti e silenzio!

Erano allora giunti presso il Pei-ho, corso d’acqua che attraversa tutta la provincia di Pechino e che va a scaricarsi in mare presso Taku, seguendo a breve distanza il Canale Imperiale.

Il capo-fila, che conosceva benissimo il paese, si diresse verso il magnifico ponte di pietra gettato sul fiume, già celebre per la rotta subita dalla cavalleria manciù durante la guerra del 1860 contro i francesi e gli inglesi, sconfitta che doveva aprire le porte di Pechino alle truppe alleate.

— Dove vi attendono? — chiese il mongolo al signor Muscardo.

— Sotto il ponte.

Il cinese, dopo di essersi assicurato che non vi erano sentinelle nei dintorni, prese la riva del fiume, conducendo il drappello sotto la prima arcata che si appoggiava su un tratto privo d’acqua.

Stavano per giungervi, quando udirono il nitrito di alcuni cavalli, poi una voce gridare:

— Chi vive? Rispondete o faccio fuoco.

— Cristo e Croce gialla — rispose il signor Muscardo.

Un uomo era uscito da un ammasso di sassi, brandendo con la destra una rivoltella, mentre nella sinistra teneva una piccola lanterna di carta oleata.

— Chi vi manda? — chiese.

— Han — rispose il signor Muscardo.

— Siete le persone aspettate; osservo però che Han mi aveva parlato di tre uomini mentre voi siete molti di più.

— Prima di fuggire abbiamo liberato dodici cinesi che erano condannati a morire di fame.

— Cristiani?

— Tutti.

— Voi siete europeo?

— Sì.

— Fratello del missionario di Ming?

— Come lo sai?

— La Croce gialla veglia su tutti i cristiani — disse il cinese, sorridendo. — Qui vi sono tre cavalli, delle armi e tutto l’occorrente per camuffarvi da mongoli. Seguitemi.

— Hai dei viveri? I dodici cinesi che abbiamo liberato muoiono di fame.

— Verrà dato a loro da mangiare.

Mandò un leggero fischio. Subito due altri cinesi, che si erano tenuti nascosti dietro un cumulo di sassi, si fecero innanzi.

Erano armati come il loro compagno e portavano pure delle piccole lanterne.

— Date da mangiare agli uomini che hanno condotto qui questi europei, — disse colui che sembrava il capo, — essi muoiono di fame.

— Venite — aggiunse poi, volgendosi verso il signor Muscardo ed Enrico. — Il tempo stringe.

Mentre i suoi due compagni distribuivano dei viveri ai dodici cinesi, che non potevano quasi più reggersi in piedi, tanto la fame li aveva sfiniti, condusse i due italiani verso l’ultima pila del ponte che s’appoggiava sul suolo asciutto e si fermò dinanzi ad una pietra che pareva fosse stata smossa.

— È il nostro nascondiglio — disse.

Spostò la lastra ed introdusse i due italiani in una specie di galleria scavata nella roccia ed illuminata da una grande lanterna di talco.

Le pareti del rifugio erano coperte di vestiti, di cappelli, d’armi d’ogni specie, di bardature d’animali e di cartucciere ben fornite di munizioni. Non mancavano nemmeno degli specchi d’acciaio, come si usano ancora in Cina.

Il mongolo staccò un vestito di seta azzurra a fiori, decorato d’un drago a quattro unghie ed un cappello di feltro col bottone di lapislazzoli e fibbia d’oro e d’argento, distintivo dei mandarini militari di quarta classe e li porse al signor Muscardo, dicendogli:

— Questo vestito vi renderà rispettato anche fra i boxers, ora che una parte delle truppe ha abbracciato la loro causa.

Gli diede poi una sopravveste che aveva ricamata nel mezzo una tigre, altro distintivo serbato ai mandarini militari di tale grado, mentre quelli civili portano una grù; poi un paio di scarpe dalla suola molto alta e finalmente una bella coda, lunga un metro e mezzo.

Ad Enrico, invece, diede un costume da soldato manciù, di panno azzurro a liste color arancio, colle maniche molto ampie.

— Mettete questo intanto — disse. — Poi completeremo la vostra trasformazione.

— La nostra tinta ed i nostri capelli non ci tradiranno? — chiese il signor Muscardo.

— Dovrete sacrificare le vostre capigliature.

— Non le piangeremo.

Il cinese, quando li vide vestiti recò un bacino contenente un liquido giallastro col quale bagnò i loro volti e le loro mani, quindi con pochi colpi di rasoio fece cadere buona parte delle loro capigliature e accomodò le code in modo da rendere perfetta l’illusione.

— Nessuno potrà ora riconoscere in voi due stranieri, — disse il mongolo, soddisfatto della sua opera, — tanto più che voi parlate benissimo la nostra lingua. Sceglietevi ora le armi.

Il signor Muscardo si passò fra le pieghe della cintura una di quelle sciabole a lama larga e diritta chiamata catane ed una rivoltella, mentre Enrico prendeva un fucile a retrocarica.

— Ed ora partite — disse il mongolo. — L’alba non è lontana.

Fuori li aspettavano tre piccoli cavalli di razza manciù, buoni e robusti animali, coi garetti solidi, che sono abituati alle lunghe corse e che sono d’una sobrietà incredibile. Erano bardati alla tartara, con sella piccola, su una gualdrappa di grosso panno e con staffe corte.

— Grazie dei vostri aiuti — disse il signor Muscardo, salendo in arcione.

— Che Dio vi guardi — rispose il mongolo.

I due italiani e Sheng salirono la riva e giunsero sul ponte. Colà li aspettavano i dodici cinesi che avevano liberato dalla gabbia.

Sei si erano armati di vecchi fucili e di scimitarre, regalati a loro dai compagni del mongolo; gli altri invece si erano fatti legare le braccia dietro al dorso e unire con una lunga corda.

— Ecco i nostri prigionieri — disse l’uomo, che aveva ucciso la sentinella.

— Ed io il mandarino che li conduco al macello — rispose l’ex bersagliere, sorridendo.

— Un magnifico capitano d’armi, signore — disse il cinese. — Vi confesso che non vi avrei riconosciuto se non avessi veduto con voi il vostro servo.

— In marcia per Pechino — disse il signor Muscardo. — Ho fretta di giungervi.

— Non sarà così facile entrarvi, colle migliaia di ribelli che circondano la città.

— Ad un mandarino che conduce dei prigionieri si farà largo.

— A Pechino si combatterà. Anche ieri ho udito tuonare il cannone per parecchie ore.

— Che la capitale sia in fiamme?

— Questo lo sapremo — rispose il cinese.

La piccola colonna procedeva rapidamente girando al largo di Palikao, le cui case si scorgevano vagamente verso il sud.

Il cinese, che era della provincia, la guidava facendole attraversare piantagioni d’indaco e di cotone quasi interamente rovinate dai ribelli, i quali dovevano essersi accampati in quei dintorni prima di concentrarsi intorno alla capitale.

Poco prima dell’alba, il drappello giungeva su di un’altura coltivata a giuggioli e dalla quale si poteva dominare un vasto tratto di paese. Appena giunti lassù, la guida mostrò al signor Muscardo una immensa cortina di fumo a riflessi rossastri, che si alzava a grande altezza, mescolata a turbini di scintille.

— La capitale è in fiamme — disse.

— Sì — disse il signor Muscardo, che era diventato preoccupato. — Un immenso incendio avvampa in Pechino. Quali atroci stragi si stanno commettendo in quel formicaio umano!

— Udite il cannone?

— Ed anche le scariche di fucileria.

— Devono essere i boxer, che assaltano i palazzi delle ambasciate.

— Poveri europei! — esclamò il signor Muscardo, con un sospiro.

Fecero una breve fermata sull’altura per concedere un po’ di riposo ai dodici cinesi, ancora molto malfermi in gambe, poi ridiscesero al piano prendendo la strada che mette in comunicazione la capitale con Palikao.

L’alba cominciava a rischiarare il cielo. Le tenebre, sotto quella rapida invasione di luce rosea, si dileguavano dalle alture prima e dalle bassure poi.

Quando il sole comparve, Pechino non distava più di quattro miglia. L’immensa città si estendeva a perdita d’occhio con le sue numerosissime cupole, la sua selva di torri e di campanili, le sue muraglie massicce, i suoi bastioni merlati, le sue migliaia e migliaia di antenne.

Turbini di fumo passavano, spinti da un forte vento del nord, sopra quel caos di tetti, formando un ombrello di proporzioni gigantesche. Lingue di fuoco s’alzavano da ogni parte, abbassandosi ed alzandosi colle selvagge contrazioni dei serpenti, mentre si udivano le artiglierie tuonare con un rimbombo cupo e prolungato.

Quando i mostri di bronzo tacevano, si potevano distinguere anche le scariche di moschetteria.

— Padre — disse Enrico. — Quale orribile spettacolo deve offrire la capitale!

— Sembra una bolgia infernale — rispose l’ex bersagliere, il quale pareva assai commosso.

— Potremo noi giungervi?

— Se ha potuto entrare Ping-Ciao, vi arriveremo anche noi.

Si volse verso la guida, chiedendogli:

— Da quale porta passeremo?

— I quartieri che bruciano sono posti presso quella di Tao-an-men; ci conviene quindi cercarne un’altra. Quella d’oriente mi sembra sgombra di fumo.

— Sono atteso a quella di Yung-ti.

— Il cannone non tuona da quella parte.

— Sai condurmi?

— Conosco Pechino a menadito.

— Mi affido a te.

La via che percorrevano cominciava ad ingombrarsi di gente. Famiglie intere fuggivano disordinatamente trascinandosi dietro i bambini e salvandosi nelle campagne circostanti.

Dappertutto s’incontravano carri carichi di suppellettili e di mercanzie, strappate a grande stento dal fuoco che divorava i quartieri della città cinese.

Urli, pianti, imprecazioni echeggiavano da tutte le parti mescolati a muggiti di buoi ed a nitriti di cavalli spaventati.

I villaggi che circondavano la capitale erano tutti in fiamme e la cenere e le scintille, trasportate dal vento, cadevano fitte sulle vie e nelle piantagioni, come se un cratere vomitante fuoco e lave si fosse aperto nel mezzo dell’immensa città.

Il cannone tuonava senza posa, fra lo scrosciare della moschetteria e i clamori assordanti.

Lungo gli argini del Canale Imperiale, ormai vicino, si vedevano passare, come spinte dall’uragano, bande d’insorti armati di fucili, di picche, di coltellacci, di scimitarre, tutto rovesciando sul loro passaggio. Così correvano, a torme, come lupi affamati e assetati di sangue.

Nelle vicinanze e nelle vie della capitale si combatteva con furore selvaggio. Erano i boxers che cercavano di opprimere le truppe imperiali o erano gli uni e gli altri uniti contro gli europei? Ecco quello che si chiedevano angosciosamente il signor Muscardo ed Enrico.

— Signore, — disse la guida, volgendosi verso l’ex bersagliere, — non continuiamo più per questa via o andremo a terminare in mezzo ai quartieri incendiati.

— Ed in mezzo ai combattenti — aggiunse Sheng, che cavalcava a fianco del padrone, stringendo il fucile.

— Ed io non ho alcuna voglia di farmi uccidere né dai boxers né dalle truppe imperiali — rispose il signor Muscardo.

Tagliarono l’onda dei fuggiaschi che ingombrava la via, aprendo il passo con urla e minacce e si gettarono nuovamente in mezzo ai campi devastati, seguendo le massicce muraglie della città.

Anche dietro a quei bastioni, vecchi di parecchie diecine di secoli, eppure ancora in ottimo stato, le fiamme si alzavano altissime fra un turbinìo incessante di fumo densissimo.

Sulle torri quadrate e grossissime che facevano angolo coi bastioni, i cannoni tuonavano con fracasso assordante, con un rimbombo spaventevole.

— Pechino deve essere una immensa rovina — disse il signor Muscardo, il cui cuore battevagli forte. — Sarà sfuggito al disastro, mio fratello?

— La parte settentrionale della città mi sembra sia intatta — rispose la guida. — Il fuoco si estende solamente attorno alle ambasciate.

— E la città mongola che sia stata forzata dai ribelli?

— Le mura sono troppo solide per venire atterrate dai boxers.

— E le truppe?

— Non credo che si siano rivolte contro la corte imperiale.

Di passo in passo che si allontanavano dai quartieri meridionali, l’incendio scemava e anche le urla dei combattenti diventavano meno distinte. Pareva che una calma relativa regnasse nella parte settentrionale della capitale.

Rovine però se ne vedevano dappertutto nei pressi dei bastioni. Gran numero di case diroccate e mezzo divorate dalle fiamme, ponti fatti saltare, muraglie traforate da brecce e ammassi di cadaveri che spandevano nauseanti e soffocanti esalazioni, lasciati là ad imputridire sotto i cocenti raggi del sole.

Il drappello, giunto presso la prima delle cinque porte della città cinese si trovò dinanzi ad una forte colonna di boxers e di truppe imperiali con numerosi pezzi d’artiglieria e parecchie mitragliatrici.

Quelle truppe si erano già impadronite delle torri e dei bastioni, per minacciare da quel lato la città tartara.

Vedendo giungere il piccolo drappello, un’onda di ribelli si rovesciò incontro ai nuovi arrivati, impugnando minacciosamente le armi.

— Stringetevi tutti intorno ai prigionieri — disse il signor Muscardo ai sei cinesi che fingevano da guardiani.

Un capo insorto, riconoscibile per la piuma di pavone che gli pendeva dal berretto di feltro, con un grido stridente arrestò la folla che pareva si preparasse a massacrare il drappello e mosse verso il signor Muscardo, il quale s’era fermato impugnando risolutamente la rivoltella.

— Chi siete e dove andate? — chiese l’insorto con voce minacciosa.

— Chi io sia basta guardare la tigre ed il drago che porto sul petto — disse l’ex bersagliere. — Anche sul cappello porto un bottone che tutti sanno cosa significa.

— Sì, sì, un mandarino militare — disse il ribelle, cambiando tono. — Dove vai?

— Desidero entrare in città.

— Chi sono quegli uomini legati?

— Prigionieri cristiani che ho catturati a Yang-fu.

— Non è necessario che tu li conduca in città; se sono cristiani li decapiteremo qui. I carnefici non mancano fra i miei uomini.

— Questi prigionieri devono fare delle importanti rivelazioni.

— Le faranno dinanzi a noi.

— Non posso acconsentire al tuo desiderio — disse il signor Muscardo, con voce ferma. — Io non devo trasgredire gli ordini ricevuti, né mancare alla parola data.

— Dipendi da qualcuno tu? — chiese l’insorto, guardandolo fieramente.

— Sì, dal mandarino Ping-Ciao, consigliere dell’impero.

— Il mandarino di cui tu parli è nostro alleato, — disse il boxer, rasserenandosi, — ed ha diritto alla nostra protezione.

Si volse verso la turba che lo aveva seguìto, pronta a scagliarsi sul drappello e a farlo a pezzi, e gridò:

— Fate largo a questi uomini: sono nostri amici.

Il signor Muscardo, che aveva fretta di uscire da quel vespaio, fece caracollare il cavallo, anche per nascondere la propria emozione e si cacciò nel solco apertosi fra quelle masse di ribelli.

Tutti gli si erano precipitati dietro, per paura di venire tagliati fuori e scannati da quella folla sanguinaria che li guardava minacciosamente e anche sospettosamente.

— L’abbiamo scampata per miracolo — disse Enrico a suo padre. — Credevo che ci arrestassero per appurare se noi eravamo veramente dipendenti del mandarino.

— Anch’io per un momento mi sono sentito mancare l’animo — rispose il signor Muscardo. — Senza quella felice idea non so se noi a quest’ora saremmo stati ancora nel numero dei viventi.

— Avremo delle noie anche in città.

— Mi pare che questa parte sia tranquilla, anzi quasi deserta. Non si combatte che verso il sud.

— E dove andremo intanto?

— Ci accamperemo in qualche giardino ed occuperemo qualche casa abbandonata — rispose l’ex bersagliere. — Questa sera poi andremo a trovare il capo della Croce gialla. Eccoci al ponte: coraggio, Enrico. L’ultimo pericolo è passato.

Un momento dopo il drappello passava sotto la massiccia vôlta aperta nel bastione ed entrava nella capitale dell’impero.