Le stragi della China/1. Le rovine di Khang-hi
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2. Il capo del Giglio azzurro | ► |
1.
Le rovine di Khang-hi
La sera del 14 giugno del 1900, due uomini erano usciti dalla porta d’occidente dell’immensa città di Pechino, prendendo la via che conduce verso il meraviglioso Canale Imperiale, il quale mette in comunicazione la capitale cinese col fiume giallo, ossia lo Hoang-ho.
Il sole non era ancora tramontato, perciò quei due misteriosi personaggi avevano potuto attraversare il ponte di pietra dei bastioni senza che le sentinelle avessero opposto ostacoli. Diversamente sarebbero stati costretti ad attendere l’indomani, non permettendosi, ai sudditi del Celeste Impero, di lasciare la capitale dopo la scomparsa dell’astro diurno.
I nostri due personaggi cavalcavano due bellissimi destrieri, di statura piccola, dai garretti solidi e dall’incollatura robusta; e, dalle vesti che indossavano, si capiva che dovevano essere due persone distinte.
Il primo poteva avere quarant’anni e rappresentava il vero tipo mongolo: pelle giallastra, faccia larga e schiacciata, naso piccolo e depresso, labbra sottili, ombreggiate da un paio di baffi pendenti, occhi dal taglio obliquo e cranio rasato fornito sulla nuca d’una coda, lunga un buon metro.
L’altro, più giovane d’una diecina d’anni, aveva la pelle quasi biancastra, i tratti del viso più angolosi, i baffi più abbondanti e più rigidi e la corporatura più robusta, il vero tipo del manciù, la razza nordica che da una infinita sequela di secoli si è imposta tenacemente a quella cinese.
Entrambi indossavano ricchi costumi mongoli. Avevano larghe casacche di seta azzurra a fiorami, abbottonate sul lato destro, con ampie maniche che si allungavano e che formavano campana verso i polsi; calzoni, pure larghissimi e di seta bianca, che giungevano al di sotto delle ginocchia; ricche cinture molto alte, sostenenti delle borsette eleganti nelle quali i cinesi tengono l’inseparabile ventaglio, la pipa, l’orologio e gli occhiali; scarpe di feltro dalla suola molto alta e larga verso la punta.
Non differivano che nei cappelli. Mentre il manciù aveva una specie di calotta adorna d’una piuma di pavone, il cinese portava invece un cappello in forma di cono, adorno sulla punta d’un bottone di corallo e d’una fibbia d’oro con diamanti, distintivo riservato ai mandarini di seconda classe, personaggi importantissimi in Cina.
I due nostri uomini, dopo d’aver galoppato dieci o dodici minuti senza essersi scambiata una parola, giunti su di una piccola elevazione del suolo si erano arrestati quasi contemporaneamente, guardando l’immensa città che si estendeva quasi ai loro piedi.
Il sole stava per scomparire fra una nuvola nerissima che s’alzava lentamente sull’orizzonte. I suoi ultimi raggi facevano scintillare vivamente le gigantesche cupole a scaglie azzurre o gialle dei templi di Fo e di Confucio, i tetti di porcellana dei vasti padiglioni del palazzo imperiale, quelli delle torri ad otto o dieci piani, delle guglie, delle bastionate, e le aste dorate sostenenti enormi draghi cigolanti sotto la brezza notturna.
— Guarda, Sum — disse il mandarino, volgendosi verso il suo compagno. — Il sole è rosso come se avesse bevuto sangue.
— Ed i suoi raggi si proiettano precisamente sul palazzo imperiale — aggiunse il manciù, mentre un sorriso feroce si disegnava sulle sue labbra sottili.
— Vuoi dire che annunzia una notte di sangue?
— Sì, Ping-Ciao.
— Allora sarò finalmente vendicato — disse il mandarino con voce cupa.
— I boxers battono ormai le provincie dell’impero. Io vedo le loro orde devastatrici correre, come lupi affamati, le campagne, tutto distruggendo sul loro passaggio. Chi li arresterà?
— Sei sicuro delle nostre truppe?
— Aspetto che quelle legioni giungano sotto le mura di Pechino ed esse abbatteranno in un fiat le vecchie muraglie che i tartari non hanno mai rovesciate. I nostri soldati, appena le vedranno, faranno causa comune con quegli insorti e vedremo tutta la Cina in fiamme.
— E cacceremo in mare gli europei, Sum? — chiese il mandarino.
— Non risparmieremo nessuno: né inglesi, né francesi, né russi, né tedeschi, né italiani.
— E distruggeremo quegli uomini dalle tonache nere che sono qui venuti a portare una nuova religione?
— Saranno i primi a cadere sotto i colpi dei boxers.
— Sai, io l’odio immensamente.
— Chi?
— Quel prete che ha indotto mio figlio a rinnegare la religione dei suoi padri per abbracciare quella degli europei.
Il manciù guardò attentamente il mandarino, il cui viso in quel momento manifestava una collera impossibile a descriversi; poi disse:
— Dunque è vero che Wang ha rinnegato la religione dei suoi padri?
— Sì — rispose il mandarino, chinando il capo. — Io ho cercato di nascondere questa vergogna piombata sulla mia casa; giacché lo hai saputo, io non posso che confermartela.
— E come, tuo figlio, così prode, così leale, si è lasciato abbindolare da quegli uomini dalla sottana nera?
— Riprendiamo la via — disse il mandarino, con un sospiro. — Te lo racconterò, ad una condizione.
— Quale?
— Di fornirmi i mezzi per vendicarmi di quel prete.
— Fra una mezz’ora tu vedrai il capo del Giglio azzurro e prima che il sole spunti, le fiamme avranno divorato il villaggio che alberga il tuo nemico.
Voltarono i cavalli e discesero silenziosamente il poggio, mentre il sole scompariva in mezzo alla nera nuvola e la capitale dell’impero si copriva di punti luminosi, come se una miriade infinita di lucciole fosse piombata sui tetti della immensa città.
Cavalcarono alcuni minuti per la deserta e silenziosa campagna, senza scambiarsi una parola, poi il mandarino disse:
— Tu sai quanto era prode mio figlio.
— L’ho veduto combattere come un leone contro i giapponesi, sui bastioni di Taku.
— Tu sai quanto io l’amavo.
— Era l’unico erede del tuo nome — rispose il manciù.
— Eppure egli ha abbandonato la sua famiglia ed ha rinnegato la sua fede per abbracciare quella importata da quegli odiati uomini dell’Occidente, i più terribili nemici della nostra razza — disse il mandarino, con collera crescente. — Già da qualche tempo mi ero accorto che in lui era avvenuto un cambiamento. Sfuggiva la mia compagnia e quella dei suoi amici, non frequentava più i templi dedicati a Fo, né quelli innalzati in onore di Confucio; e alla notte si assentava per correre a Ming, dove si diceva che vi fossero dei cristiani. Un giorno scomparve, né più lo rividi e seppi che egli mi aveva lasciato per abbracciare la nuova religione.
— E dove si trova ora?
— Tutte le mie ricerche sono state vane.
— E non speri di ritrovarlo?
— Lo saprò dall’uomo che lo ha indotto a rinnegare la sua religione — disse il mandarino. — Dovessi tagliuzzarlo giorno per giorno, sottoporlo ai più orribili tormenti, egli dovrà ben dirmelo.
— Quel prete abita a Ming?
— Sì, Sum.
— Domani non rimarrà in piedi una sola casa di quel borgo e quel prete sarà in tua mano.
— Me lo giuri?
— Sì, Ping-Ciao.
— Vi sono molti cristiani nel borgo.
— Ed i boxers sono migliaia e migliaia.
— Tu mi dài la vita.
— E noi da te avremo il governo.
— L’appuntamento è lontano?
— No — rispose il manciù. — Fra una mezz’ora noi giungeremo alle rovine di Khang-hi. Sproniamo i cavalli e teniamo pronte le rivoltelle. I cristiani possono essersi accorti della presenza dei boxers ed aver indovinato i nostri progetti.
I due cavalli, vivamente eccitati, partirono al galoppo, costeggiando delle piantagioni di gelsi e di giuggioli.
Il mandarino era ricaduto nei suoi pensieri e pareva non si accorgesse nemmeno della presenza del manciù che gli cavalcava a fianco.
Aveva chinata la testa sul petto ed aveva lasciato andare le briglie.
Sum, invece, di quando in quando si alzava sulle staffe e guardava attentamente la campagna, quasicché temesse una qualche sorpresa e di frequente si guardava alle spalle.
— Questa solitudine non mi rassicura affatto — disse. — Dove si saranno nascosti i boxers? Eppure le loro bande devono già essersi accampate sulle rive del Canale Imperiale.
Era a questo punto delle sue riflessioni, quando vide due ombre umane balzare fuori da una macchia di gelsi e slanciarsi sul sentiero.
Una voce imperiosa tosto chiese:
— Chi vive?
— In guardia, Ping-Ciao — disse il manciù, levando dalle fonde della sella una rivoltella.
Il mandarino, strappato bruscamente ai suoi pensieri da quel grido d’allarme, aveva rialzata la testa:
— I boxers? — chiese.
— Potrebbero essere dei cristiani — rispose Sum.
— Chi vive? — ripeté uno di quegli uomini, spianando un fucile contro i due cavalieri. — Rispondete, o faccio fuoco.
— Mi dirai prima chi sei tu — disse Sum, puntando la rivoltella. — Noi siamo uomini che non hanno paura.
— I boxers non temono nemmeno l’imperatrice — disse l’uomo dal fucile.
— Noi siamo amici.
— La parola d’ordine allora?
— Giglio azzurro.
— Il punto di ritrovo?
— Le rovine di Khang-hi.
— Allora passate: siete gli uomini attesi da Pechino.
Il mandarino ed il suo compagno rimisero i cavalli al galoppo, passando fra i due boxers.
— Che vigilanza! — disse il mandarino, quando furono un po’ lontani.
— Necessaria per non allarmare i lupi e per sorprenderli nei loro covi — rispose Sum. — Temevo che gl’insorti non fossero ancora giunti sulle rive del Canale Imperiale e che la tua vendetta si dovesse rimandare.
— Non sarà giunta che l’avanguardia.
— Il grosso non sarà lontano e appena il capo darà l’ordine della strage si massacreranno tutti gli europei che si trovavano a Pechino e a Tien-tsin.
— E nelle provincie meridionali?
— Succederà la medesima cosa e fra quindici giorni non ci sarà in Cina né un uomo dalla faccia bianca, né un cane di cristiano. Affrettiamo il passo, Ping-Ciao: i capi del Giglio azzurro non devono tardare a radunarsi.
Erano giunti sulle rive del Canale Imperiale, uno dei più colossali lavori intrapresi dai cinesi, degno di star a fronte della muraglia costruita ai confini della Tartaria.
Questo canale riunisce i grandi fiumi della regione settentrionale, ed è tanto largo da permettere alle più grosse giunche, ossia ai bastimenti a vela che usano quei popoli, di salire fino ai dintorni di Pechino.
I due cavalieri salirono l’argine costruito in pietre enormi, e si misero a percorrerlo verso levante, passando sotto una vera arcata di verzura, formata da doppie file di lauri immensi.
Di mano in mano che avanzavano, la presenza dei ribelli diventava sempre più evidente. Di quando in quando, in mezzo ai campi coltivati a cotone, si vedevano agitarsi gruppi di ombre umane che subito sparivano, e comparire dei punti luminosi che immediatamente si spegnevano.
Nessuno si mostrava presso l’argine e nessuno si faceva innanzi per molestare i due cavalieri. L’ordine di lasciarli liberi doveva essere già stato dato, mediante segnali, dalle sentinelle d’avanguardia.
Il mandarino ed il suo compagno, pur tenendosi pronti, galopparono per una mezz’ora, poi abbandonarono l’argine e si diressero verso una piccola palude, sulle cui rive vedevasi alzarsi una massiccia ed informe costruzione, formata da alcune torri a diversi piani e da parecchie cupole in gran parte diroccate.
— Le rovine di Khang-hi — aveva detto il manciù al compagno.
Rallentarono la furia dei cavalli e armarono le rivoltelle per tenersi pronti a qualsiasi sorpresa. Con vivo stupore, non videro, invece, comparire alcuna persona.
— Si tengono sicuri di non venire disturbati — disse Sum.
— Sai dove terranno la loro adunanza?
— Lo so, Ping-Ciao — rispose il manciù.
Giunti dinanzi alle rovine, balzarono a terra e legarono i cavalli ad un gelso che restava a poca distanza.
Quelle rovine, scelte dai boxers per tenere le loro adunanze, erano imponenti.
Occupavano una estensione immensa ed avevano l’aspetto d’un’antica fortezza. Muraglie immense, di uno spessore enorme, in gran parte diroccate, cingevano le torri e le cupole del fabbricato centrale, adorno d’un numero infinito di idoli di metallo dorato.
Sul dinanzi, sulla cima d’una scalinata spaziosa, giganteggiava un Buddha di dimensioni mostruose. Aveva le gambe incrociate alla maniera dei turchi, la testa inclinata sul petto e le braccia abbandonate sul ventre.
Quel gigante, che misurava in altezza almeno dieci metri, aveva la faccia dorata e le mani ed i piedi inargentati.
Dinanzi, sospeso a due aste di ferro incrociate, vi era un gran disco di metallo lucentissimo, un gong, ancora in ottimo stato.
Il manciù, dopo essersi assicurato che non vi era alcuna sentinella nei dintorni, salì la gradinata e con un martello che si trovava appeso ad una delle aste, percosse vigorosamente il disco metallico.
Al fragore prodotto da quell’istrumento, un uomo, che doveva esser rimasto nascosto fino allora fra le gambe del dio, balzò agilmente a terra, avvicinandosi rapidamente al mandarino ed al suo compagno.
Era un giovane cinese di quindici o sedici anni, dagli occhi intelligenti ed i tratti del volto delicati, e vestito poveramente con una casacca di grosso cotone azzurro e calzoni corti.
Sul capo portava un cappello di paglia di riso, in forma di fungo, che gli nascondeva parte del volto.
— Dove andate? — chiese.
— All’appuntamento del capo del Giglio azzurro — rispose il mandarino.
— Il tuo nome?
— È necessario?
— Sì, se tu vuoi entrare.
— Il mandarino Ping-Ciao.
Il giovane cinese udendolo aveva fatto un gesto di spavento, subito frenato.
L’oscurità, molto fitta in quel luogo, aveva impedito al mandarino ed al suo compagno di sorprendere quell’atto.
— Siete le persone che attendono — disse poi il giovane, con voce tremula: — seguitemi.
Salì fra le gambe della statua gigantesca e s’introdusse attraverso una stretta apertura che prima né il mandarino, né il manciù avevano notata.
— Si sono già radunati? — chiese Ping-Ciao, prima di entrare.
— Sì — rispose il giovane.
— Sono molti?
— Una ventina.
— Vi è il capo supremo?
— È giunto or ora.
— Conducimi da lui.
S’introdussero in quel passaggio e si trovarono in una galleria rischiarata da un gran numero di lanterne di carta oliata, a fiorami ed a disegni barocchi, e che spandevano una pallida luce, molto apprezzata dai cinesi, nemici dichiarati del gas e anche della luce elettrica.
Il giovane cinese camminava rapidamente, come se avesse voluto nascondere la inesplicabile commozione che lo aveva preso, udendo il nome del mandarino.
Giunto all’estremità della galleria, discese quaranta o cinquanta gradini e si cacciò in un secondo passaggio quasi tenebroso, non essendo illuminato che da pochissime lanterne, collocate ad una grande distanza le une dalle altre.
— Dove ci conduce? — chiese il mandarino, il quale cominciava a diventare inquieto. — Non si vede nessuno, né si ode alcun rumore qui.
— T’inganni: guarda!
Ad uno svolto della galleria era improvvisamente comparso un punto luminoso d’una intensità sorprendente. Pareva che dei fuochi giganteschi ardessero all’estremità di quel passaggio sotterraneo.
— Sono là dentro? — chiese il mandarino.
— Sì — rispose il giovane, con voce soffocata. — Sono là, che preparano il massacro dei cristiani.
— Si direbbe, dal tono della tua voce, che ciò ti dispiaccia — notò il manciù.
— No, signore — disse il giovane con accento sicuro. — Sono un membro del Giglio azzurro anch’io.
Allungò il passo come se avesse voluto evitare qualche nuova domanda, e giunse in breve all’estremità della galleria, arrestandosi dinanzi ad un immenso sotterraneo dove bruciavano delle cataste di legna.
— Entrate — disse, tirandosi da una parte. — I capi del Giglio azzurro si trovano dinanzi a voi.
Attese che il mandarino ed il suo compagno avessero varcata l’apertura, poi mormorò a denti stretti:
— Avrò sempre il tempo di avvertire padre Giorgio e suo fratello e di sventare le vostre trame.