Le piacevoli notti (1927)/Notte prima
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il libro delle favole ed enimmi
di messer Giovanfrancesco Straparola da Caravaggio,<brintitolato Le Piacevoli Notti.
Proemio
In Melano, antica e principal cittá di Lombardia, copiosa di leggiadre donne, ornata di superbi palagi e abbondevole di tutte quelle cose che ad una gloriosa cittá si convengono, abitava Ottaviano Maria Sforza, eletto vescovo di Lodi, al quale per debito di ereditá, morto Francesco Sforza Duca di Melano, l’imperio del stato ragionevolmente apparteneva. Ma per lo ravoglimento de’ malvagi tempi, per gli acerbi odij, per le sanguinolenti battaglie e per lo continovo mutamento de’ stati, indi si partí, ed a Lodi con la figliuola Lucrezia, moglie di Giovan Francesco Gonzaga, cugino di Federico Marchese di Mantova, nascosamente se n’andò, ivi per alcun tempo dimorando. Il che avendo presentito li suoi, non senza suo grave danno il perseguitorono. Il miserello vedendo la persecuzione de’ parenti suoi ed il mal animo contra lui e la figliuola che dinanzi era rimasa vedova, prese quelle poche gioie e denari che egli si trovava avere, ed a Vinegia con la figliuola se n’andò: dove trovato il Ferier Beltramo, uomo di alto legnaggio, di natura benigno, amorevole e gentile, fu da lui insieme con la figliuola nella propia casa con strette accoglienze onorevolmente ricevuto. E perchè la troppa e lunga dimoranza nell’altrui case il piú delle volte genera rincrescimento, egli con maturo discorso indi partire si volse, ed altrove trovare propio alloggiamento. Laonde ascese un giorno con la figliuola una navicella, ed a Morano se n’andò. Ed adocchiatovi un palagio di maravigliosa bellezza che allora vuoto si trovava, in quello entrò; e considerato il dilettevole sito, la spaziosa corte, la superba loggia, l’ameno giardino pieno di ridenti fiori e copioso de vari frutti ed abbondevole di verdeggianti erbette, quello sommamente comendò. Ed asceso sopra le marmoree scale, vidde la magnifica sala, le morbide camere ed un verone sopra l’acqua, che tutto il luogo signoreggiava. La figliuola, del vago e piacevole sito invaghita, con dolci ed umane parole tanto il padre pregò, che egli a compiacimento di lei il palagio prese a pigione. Di che ella ne sentí grandissima allegrezza, perciò che mattino e sera se ne andava sopra il verone mirando li squamosi pesci che nelle chiare e maritime acque in frotta a piú schiere nuotavano, e vedendogli guizzare or quinci or quindi sommo diletto n’apprendeva. E perchè ella era abbandonata da quelle damigelle che prima la corteggiavano, ne scelse dieci altre non men graziose che belle, le cui virtú e leggiadri gesti sarebbe lungo raccontare. De’ quai la prima fu Lodovica, i cui begli occhi, risplendenti come lucide stelle, a tutti, che la guardavano, ammirazione non picciola porgevano. L’altra fu Vicenza, di costumi lodevoli, bella di forma e di maniere accorta, il cui vago e delicato viso dava grandissimo refrigerio a chiunque la mirava. La terza fu Lionora, la quale, avenga che per la sua natural bellezza alquanto altera paresse, era però tanto graziosa e cortese, quanto mai alcun’altra donna trovar si potesse. La quarta fu Alteria dalle bionde treccie, la quale con fede e donnesca pietá di continovo alli servigi della Signora dimorava. La quinta fu Lauretta, vaga di aspetto, ma sdignosetta alquanto; il cui caro ed amoroso sguardo incatenava ciascuno che fiso la mirava. La sesta fu Eritrea, la quale, quantunque picciola fusse, non però si teneva alle altre di bellezza e di grazia inferiore; per ciò che in lei erano duo occhi scintillanti e lucidi piú che ’l sole, la bocca piccola e ’l petto poco rilevato, nè cosa alcuna in lei si trovava che di somma laude degna non fusse. La settima fu Cateruzza per cognome Brunetta chiamata; la quale tutta leggiadra, tutta amorosa con le dolci ed affettuose sue parole non pur gli uomini nelle amorose panie invescava, ma il sommo Giove avrebbe potuto far giú discendere da l’alto cielo. L’ottava fu Arianna, giovane di etá, di faccia venerabile, di aspetto grave e di eloquenza ornata; le cui divine virtú accompagnate da infinite lodi, come stelle in cielo sparte, rilucono. La nona fu Isabella molto ingeniosa; la quale con le sue argute e vive proposte tutti e circostanti ammirativi rendeva. L’ultima fu Fiordiana, prudente e d’alti pensieri adornata, le cui egregie e virtuose opere avanzano tutte quelle ch’in ogn’altra donna si vedessero giamai. Queste adunque dieci vaghe damigelle tutte insieme, e ciascheduna da per sè, servivano alla generosa Lucrezia sua Signora. La quale insieme con esso loro elesse due altre matrone di venerando aspetto, di sangue nobile, di etá matura e pregiate molto, acciò che con suoi sani consigli, l’una alla destra, l’altra alla sinistra, sempre le fusse. L’una de quai era la signora Chiara, moglie di Girolamo Guidiccione, gentiluomo ferrarese, l’altra la signora Veronica, fu giá consorte di Santo Orbat, antico e nobile di Crema. A questa dolce ed onesta compagnia concorsero molti nobili e dottissimi uomini, tra, quai il Casal bolognese, vescovo e del re d’Inghilterra ambasciatore, il dotto Pietro Bembo, cavaliere del gran Maestro di Rodi, e Vangelista di Cittadini melanese, uomo di gran maneggio, il primo luoco appresso la Signora tenevano. Dopo costoro vi erano Bernardo Cappello, fra gli altri gran versificatore, l’amoroso Antonio Bembo, il domestico Benedetto Trivigiano, il faceto Antonio Molino detto Burchiella, il cerimonioso Ferier Beltramo, e molti altri gentiluomini; i cui nomi ad uno ad uno raccontare sarebbe noioso.
Questi adunque tutti, overo la maggior parte di loro, quasi ogni sera a casa della signora Lucrezia si riducevano; ed ivi ora con amorose danze, ora con piacevoli ragionamenti ed ora con suoni e canti la intertenevano; e cosí quando in un modo e quando in un altro il volubile e fugace tempo passavano. Di che la gentil signora con le savie damigelle sommo diletto n’apprendeva. Furono ancora tra loro sovente proposti alcuni problemi, de’ quai la signora era sola difinitrice. E per ciò che oramai s’approssimavano i giorni ultimi di carnesale dedicati alle piacevolezze, la signora a tutti comandò che sotto pena della disgrazia sua a concistorio la seguente sera ritornassero; acciò che divisar potessero il modo e l’ordine che avessero tra loro a tenere.
Venute le tenebre della seguente notte, tutti secondo il comandamento a loro fatto vi vennero; e messisi tutti a sedere secondo i gradi loro, la signora cosí a dire incominciò: — Gentiluomini miei onorati molto, e voi piacevoli donne, noi siamo qui raunati secondo l’usato modo, per mettere regola a’ dolci e dilettevoli intertenimenti nostri, acciò che questo carnesale, di cui oggimai pochi giorni ci restano, possiamo prendere alcun piacevole trastullo. Ciascuno adunque di voi proponerá quello che piú gli aggrada, e ciò che alla maggior parte parerá fie deliberato. — Le donne parimente e gli uomini ad una voce risposero che era convenevole che ella determinasse il tutto. La signora, vedendo esserle tal carico imposto, rivoltasi verso la grata compagnia, disse: — Da poi che cosí vi piace, che io, di contentamento vostro ditermini l’ordine che si ha a tenere, io per me vorrei che ogni sera, infino a tanto che durerá il carnesale, si danzasse; indi che cinque damigelle una canzonetta a suo bel grado cantassero; e ciascheduna de cinque damigelle a cui verrá la sorte debba una qualche favola raccontare, ponendole nel fine uno enimma da essere tra tutti noi sottilissimamente risolto. Ed ispediti tai ragionamenti ciascuno di voi se n’anderá alle loro case a posare. Ma se in questo il mio parere non vi piacesse (chè disposta io sono il voler vostro seguire), ciascuno de voi dirá quello che piú gli aggrada. — Questo proponimento fu da tutti comendato molto. Laonde fattosi portare un vasetto d’oro, e postivi dentro di cinque donne i nomi, il primo che uscí del vaso, fu quello della vaga Lauretta; la quale per vergogna tutta arrossita divenne come mattutina rosa. Indi, seguendo l’incominciato ordine, il secondo che uscí fuori fu di Alteria il nome, il terzo di Cateruzza, il quarto di Eritrea, il quinto di Arianna. Appresso questo comandò che gli stromenti venissero; e fattasi recare una ghirlandetta di verde alloro, in segno di maggioranza in capo di Lauretta la puose, comandandole che nella seguente sera al dolce favoleggiare desse principio. Dopo volse che Antonio Bembo con gli altri insieme facesse una danza. Egli, presto a’ comandamenti della signora, prese per mano Fiordiana, di cui era alquanto invaghito; e gli altri parimenti fecero il somigliante. Finita la danza, con tardi passi e con gli amorosi ragionamenti i giovani con le damigelle si ridussero in una camera, dove erano apparecchiati confetti e vini preziosi. E le donne e gli uomini, rallegratisi alquanto, al motteggiare si diedero; e finito il dilettevole motteggiare, presero licenza dalla generosa signora, e tutti con sua buona grazia si partirono.
Venuta la seguente sera, e tutti raunati all’onestissimo collegio, e fatti alcuni balli nella usata maniera, la signora fece cenno alla vaga Lauretta che desse al cantare e al favoleggiare principio. Ed ella senza piú aspettare che detto le fusse, levatasi in piedi e fatta la debita riverenza alla signora ed ai circostanti, ascese uno luogo alquanto rilevato, dove era la bella sedia di drappo di seta tutta guarnita; e fattesi venire le quattro compagne elette, la seguente canzonetta con angeliche voci in laude della signora tutte cinque in tal maniera cantorono.
Gli atti, donna gentil, modesti e grati,
con l’accoglienze vaghe e pellegrine,
salir vi fauno tra l’alme divine.
Vostro stato real ch’ogn’altro avanza,
per cui divengo dolcemente meno,
e l’ornamento d’ogni laude pieno,
pascendomi di vostra alma sembianza,
tengon miei spirti in voi tanto avezzati,
che, se voglio d’altrui formar parola,
dir mi convien di voi nel mondo sola.
Da poi che le cinque damigelle tacendo dimostrarono la sua canzone esser venuta al glorioso fine, sonorono gli stromenti; e la vezzosa Lauretta, a cui il primo luogo di questa notte per sorte toccava, senza aspettare altro comandamento dalla signora, diede principio alla sua favola cosí dicendo: