Le piacevoli notti/Notte VII/Favola V
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FAVOLA V.
Io ho sentito dire che lo ’ngegno supera le forze, e che non è cosa al mondo sì ardua e sì difficile, che l’uomo col suo ingegno non la consequisca. Il che dimostrerovvi con una brevissima favola, se attenti mi ascolterete.
Trovavasi in questa alma città un povero uomo che aveva tre figliuoli; e per la troppa sua povertà non aveva modo di nodrirli e sostentarli. Per il che gli figliuoli, astretti dal bisogno, vedendo la grande inopia del padre, e considerando le picciole e deboli forze di quello, fatto consiglio tra loro, deliberorono di alleggierire il carico del padre suo, e andar pel mondo vagando col bastone e la tasca, per cercar di guadagnarsi alcuna cosa, onde potessero sostentar la vita loro. Per tanto, inginocchiatisi avanti il padre, gli addimandarono licenzia di andarsi procacciando qualche guadagno: promettendogli che, passati dieci anni, ritornerebbono nella patria. E partendosi con tal desiderio, poichè furono giunti a certo luogo che parve loro, si partirono l’uno da l’altro. E il maggiore per sua ventura andò in campo de soldati che erano alla guerra, e accordossi per servo con un capo di collonello: e in poco spazio di tempo divenne perito nell’arte della milizia, e fecesi valente soldato e valoroso combattitore, di modo che teneva il principato tra gli altri; ed era tanto agile e destro, che, con duo pugnali, pel muro ascendeva ogni alta rocca. IL secondo arrivò ad un certo porto, dove si fabricavano navi; e accostossi ad uno di quei maestri da navi, il quale era eccellente in quell’arte: e in breve tempo fece gran profitto, sì che non aveva pari a lui, ed era molto celebrato per tutto quel paese. L’ultimo veramente, udendo i dolci canti di Filomena, e di quelli grandemente dilettatosi, per oscure valli e folti boschi, per laghi e per solitarie e risonanti selve e luoghi deserti e disabitati, e vestigi e’ canti di quella sempre andava seguitando; e talmente fu preso dalla dolcezza del canto de gli uccelli, che, smenticatosi il camino di ritornare adietro, rimase abitatore di quelle selve: di modo che, stando di continuo per anni dieci in quelle solitudini senza abitazione alcuna, divenne come un uomo selvatico: e per l’assidua e lunga consuetudine di tai luoghi imparando il linguaggio di tutti gli uccelli, gli udiva con gran dilettazione e intendevali, ed era conosciuto come il Dio Pane tra i Fauni. Venendo il giorno di ritornar alla patria, i duo primi si ritrovorono al destinato loco, ed aspettorono il terzo fratello; qual poi che viddero venir tutto peloso e nudo, gli andarono in contra: e per tenerezza d’amore prorompendo in lagrime, l’abbracciorono e basciorono, e vestironlo. E mangiando nell’ostaria, ecco che un uccello volò sopra un albero; e con la sua voce cantando diceva: Sappiate, o mangiatori, che nel cantone dell’osteria vi è ascoso un gran tesoro, il qual già gran tempo vi è predestinato; andatelo a torre! — e dette queste parole, volò via. All’ora il fratello, ch’era venuto ultimamente, manifestò per ordine a gli altri fratelli le parole ch’avea dette l’uccello; ed escavorono il luogo che l’aveva detto, e tolseno il tesoro che vi trovorono. Onde molto allegri ritornorono al padre ricchissimi. Dopò e paterni abbracciamenti e le ricche e sontuose cene, un giorno questo fratello, che ultimo venne, intese un altro uccello che diceva: che nel mare Egeo pel circoito di circa dieci miglia v’è un’isola, che si chiama Chio, nella quale la figliuola d’Apolline vi fabricò un castello di marmo fortissimo, la cui entrata custodisce un serpente, che per la bocca getta fuoco e veleno, e alla soglia di questo castello v’è legato un basilisco. Quivi Aglea, una delle più graziate donne che sia al mondo, è rinchiusa con tutto il tesoro che l’ha ragunato: ed havvi raccolto infinita quantità di danari. — Chi anderà a quel luogo e ascenderà la torre, guadagnerà il tesoro e Aglea. Dette queste parole, l’uccello volò via. All’ora, dechiarato il parlar di quello, deliberorono i tre fratelli di andarvi. E il primo promise di ascender la rocca con duoi pugnali; il secondo di far una nave molto veloce. La qual fatta in poco spazio di tempo, un giorno con buona ventura e con buon vento, traversando il mare, s’inviorono verso l’isola di Chio. Alla quale arrivati, una notte, circa il far del giorno, quel franco soldato armato di duoi pugnali ascese sopra la rocca; e presa Aglea e legatala con una corda, la diede a i fratelli: e tratti e rubbini e gioie ed un monte d’oro che v’era, indi allegramente discese, lasciando vota la terra per lui saccheggiata; e tutti ritornorono sani e salvi nella patria. E della donna, la qual era indivisibile, nacque discordia tra lor fratelli, a cui rimaner devea. E furono fatte molte e lunghe dispute, chi di loro meritasse di averla; e fino al presente pende la causa sotto il giudice. A cui veramente aspettar si debba, lasciolo giudicare a voi. Aveva Isabella già posto fine alla sua breve favola, quando, posta la mano alla sua scarsella, trasse fuori l’enimma, così dicendo.
Un nero alto destrier, con ali bianche.
Ne l’andar vola, e mai non tocca terra.
Tien dietro il freno, e spesso par che stanche
L’uomo, e nel petto valor grande serra.
Battendo or l’ali ed or le penne franche.
Corre così da pace, qual da guerra:
Ha duo grand’occhi, e nulla però vede:
Ma spesso scorge l’uom dov’ei non crede.
L’enimma ingeniosamente recitato da Isabella fu quasi inteso da tutti che altro non dimostrava se non l’alterosa e superba galea, la quale per la pece è nera, ed ha le vele bianche; ella solca il mare, e fugge la terra, acciò non si spezzi. Ha di dietro il timone che la governa; ed ha e remi da l’una e l’altra parte, che paiono ali. S’adopra a tempo di pace per mercantare, ed a tempo di guerra per guerreggiare. Ha in fronte duoi grandi occhi; e spesso per fortuna conduce l’uomo in luoghi strani, dove egli non vorrebbe. — E perchè l’ora era tarda, comandò la Signora che i torchi s’accendessero, e tutti andassero alle lor magioni: imponendogli strettissimamente che tutti la sera seguente ben preparati all’usato luogo tornassino; e così tutti unitamente promisero di fare.
Il fine della settima notte