Le pantere di Algeri/Capitolo 6 - L'inseguimento
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6.
L'INSEGUIMENTO
La Sirena, che il Gran Maestro di Malta aveva affidata al giovane barone di Sant'Elmo, onde proteggesse le coste siciliane e sarde dalle fulminee invasioni dei corsari barbareschi, era una delle più grosse e delle più solide galere che in quell'epoca solcassero le acque del Mediterraneo.
Oggi, certamente, farebbe una ben meschina figura di fronte alle gigantesche navi che varano le nazioni europee ed americane, ma nel XVI secolo poteva passare per una delle più grosse, quantunque la sua stazzatura toccasse appena le mille tonnellate.
Come si usava allora, aveva la prora altissima e carica di dorature, con un ampio castello per rendere più facili gli arrembaggi; la poppa più alta ancora, col l'albero d'artimone, fornito d'una immensa vela latina, portava due gigantesche e molto artistiche lanterne ai lati di babordo e di tribordo; la tolda invece bassa, con murate solidissime per proteggere l'equipaggio dal fuoco degli archibugi e divisa in tre scompartimenti formati da tramezzate di legno doppie, riempite di cordami, di velacci e di vecchi barili che dovevano servire a trattenere il nemico nel caso che fosse riuscito a salire a bordo, e rendergli più difficile la conquista totale del ponte.
Anche gli alberi di trinchetto e maestra portavano vele latine assai maneggevoli, ed in alto avevano anche vele quadre e un'altra ve n'era sul bompresso, sul pennone di civada, ormai scomparso da qualche secolo nei velieri attuali. In coperta nessuna artiglieria. Le colubrine si trovavano collocate tutte nel frapponte e allungavano le loro gole fumiganti da ampi sabordi, disposte su due ordini.
L'equipaggio della galera, ignorando ancora la terribile lotta che si era combattuta al castello, stava per gettare le ancore, quando il barone e Testa di Ferro, il quale pareva ancora molto avvilito del cattivo esito delle sue guasconate, comparvero sulla riva.
— Lanciate un canotto! — gridò il gentiluomo. — E tenetevi sotto vela.
L'ordine, per quanto sembrasse strano all'equipaggio di veder comparire il capitano solo e di non scorgere persona alcuna sulle terrazze del castello, era stato prontamente eseguito.
La nave, per non incagliare sui bassifondi, aveva virato di bordo, mentre la scialuppa, montata da sei marinai e dal comandante in seconda, si spingeva velocemente verso terra per raccogliere il barone.
Con pochi colpi di remo attraversò il seno, approdando dinanzi ai bastioni. Solo in quel momento i marinai s'accorsero, con sgomento, dell'immenso squarcio che s'apriva alla base della torre e del miserando stato del ponte levatoio che i barbareschi avevano sfondato e demolito e che le merlature non esistevano quasi più.
Il comandante in seconda, un bel tipo di marinaio energico, bruno come un algerino, con una lunga barba nera e che indossava una splendida corazza cesellata e placcata in argento, era balzato lestamente a terra, correndo verso il barone col viso sconvolto.
— Signor di Sant'Elmo! — esclamò. — Che cos'è accaduto qui! Che noi siamo arrivati troppo tardi?
— Di due ore, cavaliere Le Tenant — rispose il barone, con un gesto disperato. — Ecco l'opera dei barbareschi.
— Hanno assalito il castello?
— E hanno massacrato tutti quelli che lo difendevano.
— Anche i nostri uomini? — chiese il luogotenente, impallidendo.
— Vedete in noi i soli superstiti.
— E la contessa di Santafiora?
— Rapita, signor Le Tenant. Avete paura voi?
— Non l'ho mai conosciuta la paura, credo.
— Allora partiamo senza indugio ed inseguiamo i barbareschi. Non hanno che due ore di vantaggio su di noi ed è necessario raggiungerli prima che rientrino in Algeri.
— Sì, signor di Sant'Elmo — disse il cavaliere di Malta, con voce risoluta. — Imbarchiamoci e andiamo a dare addosso a quei cani e farne strage.
Salirono sulla scialuppa e presero il largo, mentre la galera correva piccole bordate dinanzi al seno, tenendosi sotto vela. Durante il tragitto, il povero barone informò rapidamente il cavaliere del fulmineo attacco dei barbareschi e delle varie vicende di quella tragica notte, che erano costate tanto sangue ai valorosi difensori del castello.
— Signor di Sant'Elmo, — disse il luogotenente, con voce commossa, — voi riavrete la vostra fidanzata. La nostra galera è salda e veloce, i nostri uomini vi amano e non esiteranno a dare tutto il loro sangue per voi e le nostre spade hanno fatto le loro prove in dieci battaglie. Prima che i barbareschi entrino in Algeri, noi saremo addosso a loro e vivaddio, restituiranno i prigionieri e poi li cacceremo tutti a fondo. Ah! Hanno avuto tanta audacia? La pagheranno cara e leveremo per sempre la voglia, a quei ladroni, di spingere le loro scorrerie fino sulle coste sarde.
— Non dubito del valore dei nostri uomini — rispose il barone, con un lungo sospiro e con voce triste. — Quello che mi spaventa è la passione che si è impossessata di quel cane di Zuleik, per la contessa di Santafiora. Quell'uomo, piuttosto di rendermela, sarebbe capace d'ucciderla.
— Non sapete su quale nave è stata imbarcata?
— No, signor Le Tenant.
— Nemmeno voi, Testa di Ferro?
— Non mi è stato possibile di saperlo — rispose il catalano. — I barbareschi si sono imbarcati così precipitosamente, per paura di venire forse sorpresi da voi o da altri, che non potei osservare su quale galera fu tratta.
— Erano quattro le galere?
— Ed una feluca.
— Sono molte, signor di Sant'Elmo — disse il cavaliere di Malta, facendosi oscuro in volto. — Se andassimo a chiedere rinforzi a Cagliari?
— Perderemmo un tempo troppo prezioso, senza aver la certezza d'ottenere aiuti — rispose il barone. — Preferisco tentare la sorte da me solo. Dio ci aiuterà. D'altronde voi sapete che le galere maltesi incrociano senza posa sul Tirreno e anche lungo le coste d'Africa e può darsi che la nostra buona stella ce ne faccia incontrare qualcuna.
— E che troviamo dei fregatari — disse Testa di Ferro. — Se hanno navi piccole, hanno cuori saldi ed io me ne intendo di quella gente, io che sono figlio del più terribile fregatario spagnolo che ha ucciso...
— Sì, lo sappiamo, delle migliaia e migliaia di algerini e di marocchini — disse il luogotenente, ironicamente. — Conosciamo le meravigliose imprese dei vostri avi, messer Testa di Ferro e anche le vostre.
— La mia mazza...
— Taci — disse il barone, quasi brutalmente. — Abbiamo ben altro da pensare che alle tue rodomontate.
Erano giunti sotto la galera. Tutto l'equipaggio si era schierato sul ponte e sul castello di prora, mentre gli uomini d'arme avevano occupato il cassero, tutti ansiosi e trepidanti. Ormai si erano accorti che il castello doveva essere stato assalito ed espugnato e vedendo tornare a bordo solo il barone e Testa di Ferro, si chiedevano in seguito a quale miracolo ed a quali prodigi di valore e d'audacia erano riusciti a scampare alla strage.
Appena giunto sulla tolda, il giovane capitano si era portato in mezzo ai suoi uomini che lo guardavano con ammirazione, dicendo: — Chi ha paura della morte, sbarchi: io ne dò l'autorizzazione.
Nessuno si mosse.
— Noi andiamo a combattere una battaglia disperata, dove probabilmente lasceremo le nostre ossa — riprese il barone, dopo qualche istante di silenzio. — Saremo uno contro cinque, ma chi ha fiducia in Dio e nel valore della propria spada mi segua.
«Vi sono delle donne da strappare alla schiavitù, tutta l'intera popolazione di questa disgraziata isola che i barbareschi, sfidando le nostre forze, hanno devastata. Essi sono là, dinanzi a noi e fuggono verso il loro covo, nella triste Algeri. Chi mi ama mi segua per l'onore dei cavalieri di Malta, che ci hanno affidata questa galera per la protezione dei deboli e per l'esterminio degli infedeli.»
Un grido immenso, improvviso s'alzò sulla tolda, sul castello di prora e sul cassero:
— Guerra ai barbareschi! Tutti, vi seguiamo, tutti! Viva il nostro capitano!
Solo il prode Testa di Ferro era rimasto silenzioso, facendo una smorfia molto significativa e mandando un sospirone.
— Si spieghino sugli alberi le gloriose bandiere di Malta e di Sicilia ed i colori della mia casa — disse il barone. — Si preparino le armi e si carichino le colubrine e che la Croce ci protegga.
Aveva appena pronunciate queste parole che cadde fra le braccia del suo luogotenente. Le fatiche sostenute, le angosce provate in quella terribile notte di sangue e di stragi e soprattutto il dolore che gli lacerava il cuore, lo avevano finalmente fiaccato.
— Oh mia Ida — mormorò con voce semispenta.
Ad un cenno del cavaliere Le Tenant quattro uomini avevano sollevato dolcemente il giovane capitano, che pareva non desse più segno di vita e lo trasportarono nel quadro di poppa, nella sua cabina.
Testa di Ferro li aveva seguiti piangendo, imprecando contro i barbareschi e promettendosi di vendicare terribilmente il suo povero padrone, colla sua formidabile mazza. Malgrado le sue rodomondate, era un buon diavolo e amava sinceramente il barone che aveva fatto danzare da bambino sulle proprie ginocchia.
— Morrà di dolore — borbottava, digrignando i denti e mostrando le pugna. — Cani d'infedeli! Maledetto Zuleik! Ma il giorno che io ti troverò, avrai da fare i conti coll'ultimo dei Barbosa.
Mentre il medico di bordo s'occupava del barone, la cui crisi minacciava di prolungarsi, i maltesi si preparavano alacremente al combattimento. Confidando nella velocità della loro galera, una delle migliori veliere del Mediterraneo, erano più che certi di raggiungere la squadra nemica che aveva un vantaggio relativamente minimo. Uomini rotti alle battaglie, che sfidavano quasi ogni giorno la morte, invasi da fanatismo religioso e fieri di combattere sotto la gloriosa bandiera dei cavalieri di Malta, non erano tali da preoccuparsi dell'enorme superiorità numerica dei loro nemici, specialmente quando questi erano barbareschi, nemici della Croce.
La disgrazia poi toccata al loro giovane capitano, pel quale nutrivano una vera adorazione, aveva così profondamente commossi quei valorosi, che avevano giurato di liberare la contessa o di morire nell'impresa. Tutti si erano messi con ardore a preparare la galera per l'arduo cimento, senza spavalderia ma con grande risoluzione, anzi con vero entusiasmo, rinforzando febbrilmente le tramezzate della coperta, disponendo sui bordi i grappini d'arrembaggio, preparando i tappi per turare le falle, caricando i pezzi e portando armi in gran numero a poppa, a prora, sulla tolda e vasi pieni di materie infiammabili da scagliare sui ponti delle navi nemiche.
Le coste di San Pietro non erano ancora scomparse che la Sirena si trovava pronta ad impegnare la lotta, la quale, secondo tutte le previsioni, doveva riuscire sanguinosissima, una vera lotta d'esterminio.
Mentre l'equipaggio e gli uomini d'armi scrutavano ansiosamente l'orizzonte colla speranza di scoprire le vele nemiche, il barone, le cui fibre dovevano essere ben robuste malgrado la sua apparenza quasi femminile, era tornato in sé. La sua prima domanda era stata di chiedere se le galere barbaresche erano state scoperte e la sua corazza e la sua spada se erano pronte, quasi avesse avuto timore che s'impegnasse il combattimento senza la sua presenza. — Non ancora — rispose il cavaliere Le Tenant, che non aveva abbandonato un solo momento la cabina. — Forse per sfuggire ad un probabile inseguimento, hanno fatto rotta falsa, dirigendosi verso la Tunisia anziché su Algeri, ma non dubitate barone, noi presto o tardi le incroceremo.
— È tutto pronto per la battaglia?
— Tutto, signore, ed i nostri uomini non chiedono che di menar le mani sulla pelle dei barbareschi.
Il barone si era alzato a sedere sul letto, prendendosi la testa fra le mani con un gesto disperato.
— Che tuttociò sia stato un sogno? — si chiese. — Ditemi che io sono stato vittima d'un orribile incubo, signor Le Tenant.
— Lo vorrei bene, signor di Sant'Elmo — rispose il luogotenente facendo un gesto desolato. — Disgraziatamente voi non avete sognato e la prova ne è che noi siamo tutti pronti ad abbordare le navi dei rapitori della contessa.
— Portarmela via quando io ero così vicino alla felicità! — esclamò il barone, con uno scoppio di disperazione. — E tutto è stato preparato da quel Zuleik che io credevo l'essere più innocuo della terra, un moro degradato e rassegnato ormai alla schiavitù. Come ha potuto, per tanto tempo, celare la sua passione per la contessa, senza mai destare il menomo sospetto? Una parola sola, un gesto mi sarebbero bastati per indovinare ciò che celava nel suo cuore infame.
— Questo Zuleik è quel suonatore di tiorba che abbiamo veduto qualche volta nel castello?
— Sì, Le Tenant.
— È lui che ha chiamato i barbareschi a San Pietro?
— Tutto lo fa supporre.
— Per portarvi via la contessa?
— E per riprendere nella sua patria, il suo alto posto, giacché non era un miserabile moro come noi avevamo creduto.
— Chi era dunque?
— Un principe sembra, un discendente dei califfi di Cordova e di Granata e dobbiamo credergli, perché gli algerini non avrebbero osato spingersi fino a San Pietro per liberare un semplice schiavo.
— Eppure erano parecchi anni che si trovava presso la contessa.
— Quattro — rispose il barone.
— E come è rimasto per così lungo tempo schiavo?
— Probabilmente non aveva potuto far avvertire i suoi compatrioti del luogo in cui si trovava.
— Allora ci deve essere stato qualche rinnegato, che ha portato ad Algeri la notizia che Zuleik si trovava schiavo al castello di San Pietro.
— Può darsi, signor Le Tenant.
— Io non avrei mai supposto che in quel suonatore di tiorba si nascondesse un uomo così importante da far muovere da Algeri una squadra.
— E che fosse anche un uomo così valoroso e di guerra — disse il barone. — Per due volte mi ha tenuto testa colla spada alla mano, senza che io fossi riuscito ad abbatterlo non ostante tutti i miei sforzi.
— Eppure voi siete una delle migliori lame dei cavalieri di Malta — disse il luogotenente. — Se quell'uomo è così valente e così audace ci darà assai da fare, signor barone e non ci renderà facilmente la preda, specialmente se si è pazzamente innamorato della bella contessina.
— Gliela strapperò, dovessi inseguirlo fino in Algeri e consumare tutta la mia fortuna, fino all'ultimo scudo, per armare nuove galere e assoldare uomini d'arme e marinai.
— E voi mi troverete sempre al vostro fianco, signor di Sant'Elmo — disse il luogotenente. — Se non riusciremo a liberare la contessa prima che le navi barbaresche giungano in Algeri, faremo appello ai cavalieri di Malta e chiederemo aiuti alle repubbliche di Genova e di Venezia per portare un colpo decisivo alla potenza dei barbareschi che è una grande vergogna per l'Europa intera.
— Preferirei raggiungere le galere oggi o domani. Giunta ad Algeri, la contessa sarebbe per me perduta — disse il giovane barone, con voce triste.
In quel momento, sulla coperta si udì una voce a gridare:
— Vele in vista!
Un urlo di gioia aveva risposto a quel grido. Il barone si era slanciato giù dal letto, precipitandosi sulla sua spada come se il combattimento fosse già cominciato.
— Venite! Venite Le Tenant! — gridò, con esaltazione. — Vedo sangue!
Entrambi si erano slanciati fuori della cabina, salendo rapidamente la scala che metteva in coperta.
Una viva agitazione regnava sul ponte della galera. Marinai e uomini d'armi correvano verso il castello di prora, mentre gli artiglieri scendevano di corsa nelle batterie, gridando:
— Alle colubrine! Alle colubrine!
Sull'azzurra superficie del Tirreno, verso il sud-ovest, spiccavano nettamente parecchi punti bianchi, naviganti di conserva.
— Sono i barbareschi! — gridò il barone. — Ecco la feluca che naviga alla retroguardia.
— Siete certo, barone, che non sia invece qualche squadriglia di mercanti veleggianti verso la Spagna?
— No, non m'inganno. Sono le quattro galere algerine e la feluca. Guardate, si sono accorti della nostra presenza e hanno cambiato rotta verso il sud, per cercare forse un rifugio a Tunisi. Se in questo frattempo abbiamo guadagnato tanto, significa che la nostra galera è molto più rapida delle loro e che fra qualche ora noi saremo addosso a quei cani d'infedeli. A noi due Zuleik! Avrò la tua vita!
— Se i mori non avranno invece la nostra — sospirò Testa di Ferro, che lo aveva udito. — Una contro quattro e senza contare la feluca! Hum! Come finirà questa impresa? Andiamo a prendere animo con un bicchiere di Cipro.
— Signor Le Tenant — disse il barone. — Disponete gli uomini d'arme sul castello di prora. Noi abborderemo furiosamente quella che si trova in coda e cercheremo di espugnarla subito.
— E prima che le altre accorrano in suo aiuto — rispose il luogotenente. — Avremo molto da fare, tuttavia non dispero, signor barone. In quanto alla feluca avrà la prima bordata e vedremo se rimarrà ancora a galla.
— Fate sfondare due barili di rhum e lasciate che i nostri uomini bevano a sazietà. Quando saranno un po' brilli, non guarderanno se noi siamo più deboli e si batteranno meglio. Ed ora, in caccia!
— Signor barone — disse Testa di Ferro, arrestandolo nel momento in cui saliva sul ponte di comando. — Quale temeraria impresa state per intraprendere? Voi volete cercare ancora la morte e voi sapete che vostro padre, prima di spirare fra le mie braccia, mi aveva pregato di vegliare su di voi e di darvi dei buoni consigli.
— Che cosa vuoi concludere? — chiese il giovane, aggrottando la fronte.
— Che le galere algerine ci manderanno a fondo e che tutti finiremo negli abissi del Mediterraneo.
— Vi è la tua mazza e in quattro colpi pareggerà il numero — rispose il barone. — D'altronde non è questo il momento di ascoltare consigli, bensì di prepararci a vincere od a morire.
— A morire c'è sempre tempo, signor barone, ed alla vostra età si dovrebbe pensare a vivere invece.
— Avresti paura, Testa di Ferro?
— Io! — esclamò il catalano. — Voi sapete che non ne ho mai avuto e vi dirò anzi che questa parola non è mai stata conosciuta fra i Barbosa.
— Sei livido come uno spettro.
— È l'emozione di vedervi esporre ai colpi di quei barbari con così poche forze.
— Non preoccuparti di me; basta la mia spada a difendere la mia vita.
E lo lasciò, salendo rapidamente il ponte di comando, mentre gli uomini d'arme si recavano precipitosamente ai posti loro assegnati dal signor Le Tenant.
— Mio povero Barbosa, — sospirò Testa di Ferro, — puoi raccomandare la tua anima a Dio. Questa volta non la scamperai più, anche se ti nascondi nella sentina. Questi disgraziati sono impazziti. Un altro bicchiere di Cipro, che forse sarà l'ultimo.
La Sirena si era messa in caccia, spiegando la maggior tela possibile per affrettare la marcia. Vedendo che le galere algerine, non ostante la loro enorme superiorità, cercavano di fuggire verso Tunisi per mettersi sotto la protezione di quei forti che allora erano veramente formidabili, cercava di costringerle a cambiare rotta verso occidente e spingerle sulla Barberia, onde avere maggior tempo per assalire nel buon momento.
I corsari però, fidenti nelle proprie forze, avevano continuata imperturbabilmente la loro corsa verso il sud, veleggiando su due ordini, colla feluca alla coda. Si vedeva tuttavia che si preparavano alla battaglia, perché i loro altissimi castelli di prora ed i loro ampi casseri si coprivano d'uomini scintillanti di corazze lucenti, di elmetti e di morioni, mentre altri si radunavano attorno alle bombarde che portavano in coperta, onde i tiri di quei corti e grossi pezzi avessero maggior efficacia.
Certamente si erano ormai accorti che avevano alle spalle la Sirena del barone di Sant'Elmo, colla quale già parecchie volte si erano misurati sulle coste della Sicilia e nelle acque di Malta e sapendo da quale gente risoluta era montata, cercavano di evitare un incontro più dannoso che utile per loro, con tanti prigionieri che avevano a bordo. Forzavano perciò anche essi la corsa, spiegando vele quadre al disopra delle latine, quantunque dovessero essersi accorti di non poter competere, per velocità, colla Sirena che in sole tre ore e con vento non forte, li aveva già raggiunti. La caccia durava da qualche ora, con vantaggio della galera maltese la quale vedeva scemare sempre più la distanza che la separava dalle navi nemiche, quando i barbareschi cambiarono bruscamente rotta, con una manovra che dapprima sorprese gli inseguitori.
Mentre una galera continuava la sua marcia verso il sud, le altre tre e la feluca avevano ammainate rapidamente parte delle loro vele, virando bruscamente di bordo.
— Che cosa vogliono fare? — si chiese il signor Le Tenant, che si trovava presso il barone. — Che ci aspettino per darci battaglia.
— Ah! Canaglie! — gridò il signor di Sant'Elmo, impallidendo. — Cercano di proteggere la fuga di Zuleik.
— Che vi sia la contessa sulla galera che fugge?
— Sì, Le Tenant — rispose il barone. — Zuleik cerca di sottrarsi ai nostri tiri e ci scaglia addosso le tre galere per tentare di arrestarci. Guardatele! Si dispongono in ordine di battaglia, colla feluca in coda.
— Non saremo noi che andremo a cacciarci là dentro — disse il cavalier di Malta. — Giacché la nostra Sirena è la più veloce, eviteremo l'incontro e daremo addosso alla fuggiasca.
Il barone aveva staccato il portavoce e con una rapida mossa l'aveva imboccato, gridando con voce tuonante:
— Pronti per le bordate!