Le pantere di Algeri/Capitolo 5 - La mina

Capitolo 5 — La mina

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Capitolo 4 — L'assalto dei barbareschi Capitolo 6 — L'inseguimento

5.

LA MINA


La torre nella quale gli assediati cercavano di opporre l'ultima resistenza alle crudeli pantere d'Algeri, era una solida costruzione, di forma quadra, che s'alzava su uno scoglio situato sul lato settentrionale del castello. Invece di essere unita al fabbricato principale, chissà per quale bizzarria del suo costruttore o del castellano, si ergeva isolata, slanciandosi in aria per oltre quaranta metri, con tre piani forniti di feritoie e di finestroni di stile gotico, difesi però da solide sbarre di ferro. Probabilmente un tempo doveva aver servito di prigione.

Comunque fosse era d'una resistenza a tutta prova, con pareti d'uno spessore enorme, costituite da frammenti di scogli e con sulla cima una vasta piattaforma merlata, coperta da un largo tetto a quattro spioventi per mettere al coperto gli arcieri prima, gli archibugieri ed i cannonieri più tardi, dopo l'invenzione della polvere da sparo.

Come si usava in quelle epoche, così ricche di guerre, di assalti e di sorprese improvvise, aveva i suoi sotterranei e le sue gallerie che mettevano nel bosco vicino, onde la guarnigione, in caso d'assedio e costretta dalla fame, potesse all'ultimo momento mettersi in salvo o tentare un'uscita per sorprendere i nemici alle spalle. Con tuttociò, il barone, la contessa ed i loro compagni, non si potevano ritenere completamente sicuri, con un avversario così numeroso e risoluto e spalleggiato per di più dalle colubrine e dalle bombarde delle galere e della feluca.

I barbareschi infatti, quantunque il ponte che univa la torre al castello fosse stato tagliato e avessero già subito perdite considerevoli, non si erano scoraggiati, anzi tutt'altro, ritenendosi sicuri della vittoria finale.

Le galere, avvicinatesi alla spiaggia più che lo permetteva il fondo, avevano puntati i loro pezzi sulla piattaforma della torre e con tiri ben aggiustati avevano cominciato a demolire le merlature, mettendo a malpartito i maltesi, che colla loro colubrina e colla loro bombarda si trovavano impotenti a rispondere a quell'incessante grandinare di proiettili di ferro e di enormi palle di pietra.

Il barone aveva fatto scendere la contessa e le donne nel piano inferiore, dove gli uomini d'arme ed i servi tiravano archibugiate attraverso le feritoie e le inferriate dei finestroni, tentando di respingere gli algerini che si erano radunati in grosso numero alla base della torre, assalendo con picconi le pareti onde aprirsi un passaggio.

Da tutte le parti grandinavano palle sulla povera torre. Dalle terrazze del castello, dai bastioni e dalle finestre, i barbareschi facevano fuoco cercando di mandare i loro proiettili entro le finestre e di tenere occupati gli assediati per lasciar tempo ai loro compagni di preparare le mine che dovevano abbattere le muraglie.

Il barone incoraggiava tutti alla resistenza, facendo balenare la speranza di rinforzi. Di quando in quando si affacciava alle finestre e guardava attentamente il mare per vedere se dalle coste d'Antioco o da quelle sarde giungevano soccorsi, ma nessun lume che annunciasse l'avvicinarsi di navi, si scorgeva sull'orizzonte, diventato ormai scuro dopo la scomparsa della luna. Suo malgrado una profonda angoscia lo assaliva ed i suoi sguardi, inquieti, si rivolgevano verso la contessa che inginocchiata in un angolo della stanza fra le sue donne, pregava sottovoce.

Tuttavia non lasciava trasparire le sue inquietudini e non si stancava di gridare: — Coraggio, amici! I soccorsi non devono tardare! Se possiamo resistere fino all'alba, i barbareschi se ne ritorneranno nei loro covi.

Anche Testa di Ferro, che era finalmente sbucato non si sa da dove, quantunque si sentisse tremare il cuore e fosse diventato più bianco d'un cencio lavato, si sforzava di imitare il suo padrone con delle spacconate che avrebbero fatto ridere in altre circostanze.

— Non tremate, figli della Croce! — gridava. — Il barone di Sant'Elmo è con voi e ci sono anch'io, colla mia terribile mazza! Lasciate che vengano e vedrete come li concerò io quei cani! Chi sono questi infedeli? Dei figli del diavolo che noi ricacceremo all'inferno a pedate! Dio è con noi e ci protegge! Coraggio signora, coraggio figli di Malta e di Sardegna! Faremo un macello, un massacro, uno sterminio e la storia parlerà di noi.

Lo sterminio non minacciava, disgraziatamente, i barbareschi, bensì i difensori della torre. Malgrado i loro sforzi, i nemici erano già giunti alla base del fabbricato e si udivano i loro picconi a risuonare cupamente sulle rocce e contro le muraglie con crescente vigore.

Intanto le artiglierie delle galere demolivano le merlature, facendo piovere sulla piattaforma una tale pioggia di proiettili che i maltesi avevano dovuto abbandonare la colubrina e la bombarda e cercare un rifugio nelle stanze inferiori, per non farsi distruggere fino all'ultimo. Una metà di loro erano rimasti accanto ai pezzi già smontati, sfracellati dai frammenti delle enormi palle di pietra lanciate dalle bombarde della feluca.

Sbarazzata la piattaforma, gli artiglieri barbareschi avevano cominciato a sparare contro i finestroni, spaccando le sbarre di ferro e fracassando i margini. Già più d'una palla era entrata attraversando la stanza e sfondando le pareti opposte.

Il momento terribile della capitolazione o della strage di tutti i difensori, s'appressava. Il barone, pallidissimo, disperando ormai che la sua galera od altri soccorsi potessero giungere in tempo, si era appressato alla giovane contessa che continuava a pregare fra le sue donne.

— La nostra fine si approssima — diss'egli con voce triste. — Dio ci abbandona. Volete la schiavitù o la morte? Tocca a voi decidere, mia povera Ida. Se vorrete noi tenteremo un'ultima difesa, se non sarà troppo tardi.

— Che cosa volete fare, Carlo? — chiese la giovane cogli occhi dilatati dal terrore.

— Tentare un'uscita dal sotterraneo.

— Non sarà stato già scoperto?

— Non lo so, ma se voi volete noi scenderemo al piano inferiore. Una cosa sola temo.

— Quale, Carlo?

— Che una mina possa scoppiare e che ci uccida tutti d'un colpo solo. Gli algerini devono aver già minata la base della torre.

— Dio mio! — esclamò Testa di Ferro, che assisteva al colloquio. — Una mina, avete detto, signor barone? Allora siamo morti!...

— Dobbiamo aspettarci da un momento all'altro lo scoppio, signore — disse Antioco che per un momento aveva abbandonato il finestrone per ricaricare l'archibugio. — Ho veduto or ora i barbareschi a ritirarsi e scendere frettolosamente la roccia. Non vi consiglierei di tentare l'uscita dal sotterraneo. Le vòlte potrebbero crollare sopra di noi e coprirci.

— Allora tutto è finito per noi — disse la contessa, con smarrimento.

— Non ancora, Ida — disse il barone, che non voleva spaventarla di più. — Anche se una mina scoppiasse, la torre non crollerebbe di colpo. È troppo solida e ci vorrebbero molti quintali di polvere per diroccarla interamente.

— Ma aprirebbe indubbiamente una breccia considerevole, — osservò il capo d'armi, — ed i barbareschi ne approfitterebbero per giungere fino a noi, signor barone.

— La scala è angusta e facile a difendersi — rispose il gentiluomo. — In quanti siamo ancora?

— Appena quindici.

— Siamo bastanti per opporre una lunga resistenza. È impossibile che da una parte o dall'altra non ci giungano dei soccorsi.

Il vecchio Antioco crollò il capo con un gesto che non era certo di buon augurio, poi facendo segno al barone di seguirlo verso la scala che metteva al piano inferiore, gli disse sottovoce:

— Fra mezz'ora, se non prima, noi saremo presi o morti, signor barone. Gli algerini hanno già dato fuoco alla miccia della mina e quella provocherà lo scoppio anche della mia. Vi eravate scordato che ne avevo fatto preparare una anch'io presso il sotterraneo, onde far saltare gli assedianti se avessero scoperto il passaggio?

Il barone provò un brivido.

— Salteremo tutti, dunque? — chiese con voce cupa. — Io sono uomo di guerra ed a me la morte non fa paura, ma Ida... la tua padrona...

— Meglio la morte che la schiavitù in Algeri, signor barone. D'altronde non credo che la torre crolli, ma quelle due mine apriranno certamente uno squarcio immenso e faranno saltare anche la scala, tagliandoci la ritirata.

Il barone, non ostante il suo coraggio straordinario, si sentì correre pel corpo un brivido.

— Potessi almeno uccidere prima Zuleik — disse con accento feroce. — Morrei più tranquillo.

— Signor barone — disse il vecchio, come se avesse presa una improvvisa risoluzione. — Forse prima che la mina scoppi, passeranno parecchi minuti.

— Che cosa vuoi dire?

— Se noi approfittassimo per inondare quella che ho preparata io, che è la più pericolosa? Vi è un mastello d'acqua accanto alle polveri, che io ho fatto appositamente collocare, per renderla inaccendibile. Io vado a spezzarlo. Se giungerò troppo tardi, non sarà colpa mia.

— Se tu sfidi la morte, vengo anch'io — disse il giovane gentiluomo con voce risoluta. — Cadere prima o dopo è tutt'uno, perché Zuleik non mi risparmierebbe.

Risalì la scala rapidamente, s'accostò alla contessa che era caduta in ginocchio, tenendosi le mani sugli occhi, le prese la testa fra le mani e le impresse sulla bella fronte un lungo bacio.

— Che cosa fate, Carlo? — chiese ella, con un singhiozzo.

— Vado a tentare la sorte — rispose il gentiluomo, con una specie di esaltazione. Poi senza spiegarsi di più, afferrò una scure e balzò verso la scala raggiungendo Antioco, il quale discendeva rapidamente.

— Risalite, signor barone — disse il capo d'armi, scorgendolo. — Lasciate che io affronti da solo la morte. Io sono vecchio e voi siete giovane.

— No — rispose il gentiluomo.

— Risalite, la mina sta forse per scoppiare.

— No.

Sulla cima della scala una voce straziante, aveva gridato:

— Carlo!...

Era la contessa la quale forse aveva indovinato il disperato tentativo del coraggioso siciliano.

Il barone ebbe un momento di esitazione, poi in quattro salti scese la scala e raggiunse il piano inferiore, un camerone semibuio, ingombro di barili che un tempo dovevano essere stati pieni di polvere.

In un angolo s'apriva una porta laminata in ferro. Era il passaggio segreto che metteva nel sotterraneo.

Varcò risolutamente la porta, impugnando la scure, e s'inoltrò sotto una galleria assai bassa, scavata nella roccia su cui sorgeva la torre e che si abbassava rapidamente.

— È lì la mina — disse Antioco, che lo aveva seguito. — Presto, signore, stiamo per saltare.

Il barone aveva scorto vagamente un enorme mastello colmo d'acqua, situato presso una profonda escavazione. Con due colpi di scure lo sfondò lasciando che il liquido inondasse la buca, in fondo alla quale si trovava la mina fatta preparare dal capo d'armi.

— Fuggiamo! — gridò il vecchio. — La polvere non s'accende più.

Stavano per tornare nella torre, quando un lampo acciecante li avvolse e si sentirono scaraventati, con forza incredibile, entro il sotterraneo, dove entrambi rimasero come morti.

Udirono un rombo spaventevole, come se l'intera torre fosse crollata, poi delle urla, un fragore d'armi, degli spari, poi più nulla.

Quando il barone tornò in sé, un profondo silenzio regnava attorno a lui. Non udiva più né gli spari delle colubrine e delle bombarde, né i clamori selvaggi e paurosi dei terribili corsari delle coste d'Africa; né il fragore delle corazze e degli elmetti percossi dalle spade e dalle azze di guerra, né gemiti di moribondi, né imprecazioni.

Si trovava ancora nel sotterraneo dove l'esplosione della mina, l'aveva scaraventato, appoggiato contro la parete, col vecchio Antioco a fianco, raggomitolato su se stesso. Si sentiva tutto ammaccato e colla testa pesante, come se avesse ricevuta una poderosa mazzata sull'elmetto o che un masso gli fosse piombato sul cranio.

Per un momento credette di essersi risvegliato nel regno dei morti, tanta era la confusione che regnava nel suo cervello. Ad un tratto però la memoria gli ritornò con una rapidità prodigiosa. Allora un urlo di disperazione gli lacerò il petto:

— Ida! La mia Ida!

Girò per qualche istante su se stesso come un pazzo, aggrappandosi ai muri, singhiozzando come un fanciullo.

— Morta! Rapita forse! — gridava con voce spezzata. — Siano maledette le jene d'Algeri! Antioco, a me!

Si era curvato sul capo d'armi, il quale continuava a rimanere immoto, col capo appoggiato contro un barile e si provò a sollevarlo, poi lo lasciò subito ricadere, indietreggiando con orrore.

Dall'elmetto semischiacciato usciva un getto di sangue che aveva già formato sul suolo una piccola pozza.

— Morto! — esclamò.

Il povero vecchio, scaraventato contro la parete dallo scoppio della mina, si era fracassato il cranio sui macigni del sotterraneo e doveva essere morto sul colpo.

— Ecco un altro da vendicare — disse il barone con voce terribile. — Guai a te, Zuleik, il giorno in cui io ti ritroverò.

Si guardò intorno con smarrimento. Dalla porta, rimasta aperta, entrava uno sprazzo di luce, il quale si proiettava sul nero e umido suolo del sotterraneo. Il sole si era dunque alzato.

Il barone si diresse barcollando verso la porta, aggrappandosi alle pareti per non cadere, tanta era la sua debolezza, e pervenne nello stanzone che formava la base della torte.

Un immenso squarcio si era aperto in un angolo ed un ammasso di rottami ingombrava quel luogo, coprendo i barili. Alcuni cadaveri d'algerini giacevano fra i macigni che lo scoppio della mina aveva dispersi per la stanza fra molte armi spezzate: alabarde, spade, mazze e scimitarre.

Anche le pareti erano chiazzate di sangue. In quel luogo doveva essere avvenuto un furioso combattimento fra gli assedianti e gli ultimi difensori della torre.

Il barone si era fermato, come se avesse avuto paura di procedere, guardando con terrore quei cadaveri i cui visi conservavano ancora una terribile espressione di ferocia che la morte non aveva cancellata.

Alzò gli sguardi verso la scala che l'esplosione, quantunque dovesse essere stata violentissima, non aveva distrutta. Sui gradini vi erano altri cadaveri e dei rivoletti di sangue scendevano lentamente, formando qua e là delle pozze le quali esalavano un odore acre da macello.

Vi erano algerini confusi a uomini d'armi ed a marinai. L'assalto dato dai barbareschi doveva essere stato tremendo e anche la difesa degli assediati doveva essere stata disperata, a giudicarlo dal numero dei nemici rimasti uccisi alla base della scala.

— Tutti morti! — mormorò il barone, con un singhiozzo. — E la mia Ida?

Con uno sforzo supremo e vincendo l'orrore che gl'inspiravano quei cadaveri, salì la scala col cuore palpitante d'angoscia e colla disperazione nell'animo, gridando con voce straziante:

— Ida! Ida!

Era quasi giunto sulla cima della scala, quando gli parve di udire una voce umana. Si arrestò credendo di essersi ingannato e immaginandosi che vi fossero ancora dei nemici sulla torre, strappò ad un cadavere la spada che teneva ancora stretta fra le dita rattrappite.

— Chi vuole la morte? — urlò.

La voce di prima, che pareva scendesse dall'alto, si fece ancora udire, più chiara, più distinta.

— Signor barone! — aveva gridato con tono lamentevole. — Dove siete voi? Morto o vivo ancora?

Un grido di stupore e anche di gioia sfuggì al gentiluomo. Aveva riconosciuta quella voce.

— Testa di Ferro! — esclamò. — Ma no... è impossibile... io sono pazzo! Deve essere stato ucciso anche lui.

S'avanzò e giunse al piano superiore. Anche là vi erano morti, uomini d'armi, servi del castello e barbareschi, mescolati in una confusione orribile, spaventosa e stretti gli uni agli altri come se lottassero ancora. In quell'istante vide scendere dalla scala che conduceva sulla piattaforma della torre, il catalano. Pareva che nello spazio di poche ore, il povero uomo fosse dimagrito d'un terzo.

Vedendo il barone, gli si era precipitato incontro, gettando via la sua famosa mazza di ferro e singhiozzando disperatamente: — Signore... disgrazia... disgrazia...

— Dov'è la contessa? — gridò il gentiluomo, afferrandolo per le braccia e scuotendolo forsennatamente.

— Rapita signore... rapita da Zuleik... da quel cane di moro... disgrazia!... Disgrazia! — gemette il catalano.

— Rapita?... Da Zuleik?...

Il barone non potè dire di più. Si era lasciato cadere al suolo, in mezzo ai cadaveri, come se la sua anima si fosse schiantata.

— Signore! — gridò il catalano, atterrito. — Aiuto! Il mio padrone muore!

Il barone singhiozzava come un bambino, stringendosi la testa fra le mani.

— Signore — gemeva il catalano, slacciandogli la corazza. — Non disperatevi... noi inseguiremo i rapitori... mi fa male a veder piangere voi... un uomo così valoroso... Non sono che due ore che sono partiti... e la galera sta per giungere... L'ho scorta or ora, doppiare il capo settentrionale.

— La mia Sirena! — esclamò il barone. — Essa sta per giungere!

— Sì, signor barone, l'ho veduta dall'alto della piattaforma.

Il gentiluomo si era alzato come se avesse riacquistato d'un sol colpo le sue forze. La speranza di poter inseguire i rapitori e di raggiungerli prima che giungessero in Algeri e strappare ancora loro la contessa, era stata per lui un balsamo improvviso per la ferita che gli aveva straziato il cuore. Non gli era nemmeno passato pel capo l'enorme sproporzione di forze che esisteva fra il suo equipaggio e quello delle navi barbaresche.

— Vieni — disse al catalano.

Salì la scala e giunse sulla piattaforma della torre. Colà tutto era rovina. Le merlature, spezzate dalle palle delle galere, erano cadute tutte ed i loro rottami ingombravano il suolo, coprendo ad un tempo i due pezzi di cannone e gli uomini che erano stati fulminati da quelle scariche micidiali. Il sole, già alto, illuminava il Tirreno, l'isola d'Antioco e le coste sarde le cui montagne si profilavano nettamente sul limpidissimo e luminoso orizzonte. Verso il nord di San Pietro, una grossa nave, dall'alta prora scintillante di dorature, con immense vele latine sciolte al vento e la bandiera dei cavalieri di Malta sventolante sulla cima dell'albero maestro, s'avanzava, correndo piccole bordate.

Sul suo ponte ampissimo si vedevano scintillare, ai raggi del sole, elmi e corazze d'acciaio e punte d'alabarde le quali mandavano bagliori d'argento.

— La mia Sirena! — gridò il barone. — Perché non è giunta prima! Testa di Ferro, noi daremo la caccia ai moreschi, li inseguiremo fino ad Algeri se sarà necessario e daremo battaglia. Guarda, non piango più, e mi sento indosso tale forza da sfidare tutte le flotte dei mori! Sì, li raggiungeremo, li affonderemo tutti, li cacceremo in acqua assieme alle loro navi e avrò la testa di Zuleik, del traditore.

Parlava con tale esaltazione, che il catalano credette per un momento che avesse smarrita la ragione.

— Povero signore — mormorò, asciugandosi una lagrima. — E non pensa che dovremo affrontare quattro galere, senza contare la feluca. Sta per giungere il momento in cui anche l'ultimo dei Barbosa, se ne andrà da questo mondo.

— Testa di Ferro — disse il barone. — Tu mi hai detto che sono due sole ore che le galere barbaresche sono partite, è vero?

— Sì, signore.

— Quale rotta tenevano.

— Andavano verso il sud-ovest.

— Tutte unite?

— Sì, precedute dalla feluca.

— Hai assistito tu all'ultimo assalto?

— Certo signore e vi assicuro che la mia mazza ha fatto tale strage di nemici che...

— Lascia andare la tua mazza che non la vedo nemmeno insanguinata — disse il giovane, con impazienza.

— L'ho pulita sulle teste dei mori, credetelo signore. Come supporre che un Barbosa...

— Chi è stato il primo ad impadronirsi della contessa?

— Zuleik, signore. Tutti i nostri, dopo un combattimento disperato al pianterreno prima e nella scala dopo, erano caduti uccisi o moribondi. Non ero rimasto che io e...

— Le hanno usato violenza?

— Nessuna, ve lo giuro. La contessa era svenuta quando la portarono via.

— E le sue donne?

— Rapite al pari di lei. Ah! Che disgrazia, signore, che orribile disgrazia!

— Ma tu, come sei sfuggito alla morte, mentre tutti gli altri sono caduti?

L'illustre discendente dei Barbosa si grattò gli orecchi con aria imbarazzata.

— Sei fuggito codardamente! — gridò il barone.

— Io, un Barbosa! Ah no, signore, ve lo giuro. Roteando la mazza ero giunto su questa scala, ma quando già la povera contessa era stata portata via. È qui, su questa piattaforma che io, solo contro tutti, ho opposta l'ultima resistenza e deve essere stata così tremenda che i mori non osarono forzare la scala e mi abbandonarono solo, disperato, fra tutti questi morti. Ma credo bene d'averne uccisi almeno venti.

— Tu! — disse il barone con tono di scherno. — E dove sono tutti quei cadaveri mentre qui non scorgo che quelli dei nostri artiglieri, uccisi dal fuoco delle colubrine?

— Li avranno portati via i loro compagni, signore — rispose il prode, diventando rosso come un ragazzo colto in fallo.

— Già, i Barbosa non muoiono mai, perché sono invincibili — disse il barone con ironia.

Due colpi di cannone rimbombarono in quel momento sul mare, ripercuotendosi cupamente entro la torre. La Sirena entrava nella piccola baia, salutando il castello.

— Vieni — disse il barone. — Non lasciamo ai miei uomini il tempo di gettare le ancore. Ci metteremo subito in caccia e guai a Zuleik ed ai suoi corsari.